I Giochi olimpici sono storicamente identificati con un periodo di tregua nei conflitti e di sospensione della competizione politica, interna e soprattutto internazionale. Questo, almeno, il mito che le ha accompagnate nei secoli – anche se nella Grecia classica i Giochi offrivano anche una piattaforma diplomatica multilaterale comparabile a ciò che oggi é la sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – e che fu rilanciato come tale alla fine del XIX secolo dal barone Pierre de Coubertin, con le grandi potenze occidentali dell’epoca come eredi delle città-stato dell’antichità.
Le sedi stesse dei primi giochi dell’era contemporanea – da Atene 1896 a Berlino 1936 (l’edizione del 1940 era stata assegnata a Tokyo, ma l’invasione giapponese della Manciuria nel 1937 ne comportò la cancellazione) –rifletterono del resto questo approccio, alternando città europee e americane, grandi e meno grandi, e riproponendo gli ideali dell’atleta dilettante e di una sportività gentlemanly caratteristici delle élite aristocratiche e alto-borghesi del tempo, poi magistralmente ritratti nel pluripremiato Chariots of Fire (Momenti di gloria, 1981).
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Proprio per questo, i Giochi del 1936 spiccano ancora oggi come l’epilogo simbolico e tragico di quella stagione: la Berlino del Kaiser aveva ottenuto l’organizzazione delle Olimpiadi estive già nel 1912 (per il 1916), ma prima lo scoppio della Grande Guerra e poi l’esclusione della Germania dal Comitato olimpico internazionale (CIO) fino al 1928 – per effetto della pace “punitiva” di Versailles – avevano rinviato l’appuntamento.
A ottenerla di nuovo era stata, nel 1931, la Berlino della Repubblica di Weimar: la prima riunione del comitato organizzatore si era tenuta nel gennaio 1933, pochi giorni prima dell’ascesa al potere di Hitler, che avrebbe successivamente trasformato l’evento in un capitolo esemplare della spettacolarizzazione totalitaria del regime (turbata soltanto dalle prestazioni di Jesse Owens), immortalata nel celebre documentario di Leni Riefenstahl, Olympia, che ottenne il premio Mussolini al Festival del Cinema di Venezia, a fine agosto 1939. Appena poche ore dopo, l’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste pose fine alle speranze della Roma fascista di ospitare a sua volta l’edizione del 1940 (la Roma giolittiana aveva di fatto declinato quella del 1912), per la quale il regime aveva appena allestito gli impianti del Foro Italico.
I SECONDI QUARANT’ANNI. Nel 1948 Londra ospitò un’edizione molto austera dei Giochi – in linea con le restrizioni dell’immediato dopoguerra – all’insegna del rilancio dello spirito olimpico originario. Germania e Giappone non furono invitate, e l’URSS non aveva comunque mai partecipato alle Olimpiadi (la Russia zarista soltanto nel 1912) e non aveva ancora un proprio comitato nazionale. La Cina, dove divampava la guerra civile, mandò comunque una trentina di atleti, mentre fecero la loro prima apparizione India e Pakistan (da poco indipendenti e divise) assieme ad altri nuovi Stati come Iran, Iraq, Libano e Siria, appena “liberati” dalle ex potenze mandatarie Gran Bretagna e Francia – un fenomeno che avrebbe conosciuto un’accelerazione spettacolare con la decolonizzazione dei vent’anni successivi.
Le Olimpiadi di Helsinki 1952 e Melbourne 1956 furono invece contrassegnate
dall’ingresso della guerra fredda e, più in generale, della politica internazionale nella preparazione e nello svolgimento dei Giochi. Helsinki non solo si svolse con la guerra di Corea ancora in corso, ma dovette pure gestire la richiesta di partecipazione di Mosca e dei paesi del blocco sovietico, convintisi che la vetrina olimpica potesse rappresentare un nuovo terreno di battaglia – sia pure “con altri mezzi”, per parafrasare von Clausewitz – con gli occidentali: i finlandesi, che si trovavano in una situazione politico-strategica delicata, contravvennero perfino allo spirito olimpico ospitando le delegazioni dell’Est in un villaggio ad hoc, per evitare sia possibili incidenti che eventuali defezioni.
Il CIO cercò inoltre di comporre la controversia fra Pechino e Taiwan sulla partecipazione cinese, col risultato che i nazionalisti boicottarono i Giochi e la Repubblica popolare inviò una delegazione solo alla cerimonia di chiusura. E mentre il Giappone fu ufficialmente riammesso, la Germania fu investita da una disputa analoga, dato che il CIO voleva accogliere solo una delegazione comune – una condizione respinta dalla Repubblica democratica, col risultato che la “Germania” fu rappresentata solo da atleti della Repubblica federale.
I Giochi di Melbourne, nell’autunno del 1956, furono investiti direttamente dagli effetti delle due grandi crisi internazionali di quell’anno: quella di Suez, un paio di settimane prima della cerimonia di apertura, portò al ritiro prima dell’Egitto, poi di Iraq e Libano; una settimana più tardi, l’insurrezione di Budapest e la repressione di Mosca provocarono invece il ritiro di Olanda, Svizzera e Spagna franchista. Ma Melbourne fu anche l’occasione per il ritiro della Cina popolare (per protesta contro la presenza di Taiwan) prima dai Giochi e poi dallo stesso CIO. Fu inoltre la prima vittoria dell’URSS nel medagliere complessivo delle Olimpiadi.
Le quattro edizioni successive dei Giochi estivi furono tutte ospitate da paesi che ne fecero un simbolo e un palcoscenico del loro cambiamento interno e nuovo status internazionale. Roma 1960, la cui organizzazione fu diretta dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti e finanziata in gran parte dal Totocalcio, proiettò sugli schermi dell’Eurovisione e della CBS americana – fra antichità classiche e Stadio dei Marmi – l’Italia del miracolo economico. Tokyo 1964 trasmise (per la prima volta via satellite) l’immagine di un Giappone ultramoderno, capace di accogliere oltre 100 delegazioni – meno il Sudafrica dell’apartheid, poi escluso anche dal CIO – e migliaia di atleti.
Città del Messico ottenne i Giochi del 1968 nello stesso anno (1961) in cui il paese fu ammesso all’OCSE, il club dei paesi più industrializzati. E Monaco 1972 mise in mostra una Germania federale che – 36 anni dopo Berlino 1936 – non solo era di nuovo qualcuno (Wir sind wieder wer!), ma aveva appena normalizzato le proprie relazioni sia con l’URSS che con “l’altra” Germania (presente autonomamente ai Giochi già nel 1968), con la quale era anche stata ammessa all’ONU.
Perfino Seul 1988 avrebbe segnato una svolta importante nella liberalizzazione e democratizzazione del paese asiatico, quando il braccio di ferro interno al regime si risolse, proprio alla vigilia (e in gran parte a causa) dei Giochi, a favore dei moderati, portando nel dicembre immediatamente successivo alla vittoria di Roh Tae Woo nelle prime elezioni presidenziali libere.
Ma i vent’anni fra il 1968 e il 1988 furono anche gli anni in cui la politica internazionale fece piena irruzione nei Giochi, nonostante l’ostinata opposizione del presidente del CIO Avery Brundage (l’unico non-europeo ad aver mai rivestito la carica) a qualsiasi interferenza con il presunto ideale olimpico. A Città del Messico fu la sanguinosa repressione della polizia contro una manifestazione studentesca, alla vigilia dei Giochi, a gettare un’ombra sull’evento. A Monaco di Baviera, l’attacco terroristico di Settembre Nero contro un gruppo di atleti israeliani proprio nel cuore del villaggio olimpico bloccò per una giornata le competizioni, prima che l’azione si concludesse, in seguito a un maldestro intervento della polizia tedesca, con la morte di tutti gli ostaggi e di cinque degli otto membri del commando palestinese. La tragedia di Monaco avrebbe del resto avuto anche importanti strascichi extrasportivi, dalla vendetta del Mossad contro i terroristi superstiti e i loro mandanti (alla quale Steven Spielberg ha dedicato nel 2005 il suo Munich) al riscatto delle “teste di cuoio” tedesche, nel 1977, con la liberazione di tutti gli ostaggi all’aeroporto di Mogadiscio.
I Giochi di Montreal del 1976, che videro per la prima volta la partecipazione di Pechino come rappresentante della Cina (anche se Taipei poté mantenere il proprio comitato olimpico), subirono il boicottaggio di una trentina di paesi africani – poche settimane dopo la sanguinosa repressione della rivolta di Soweto – per protesta contro la Nuova Zelanda (di cui avevano chiesto l’esclusione), colpevole di aver ospitato la squadra di rugby sudafricana degli Springboks per alcuni match amichevoli. Mosca 1980 fu invece boicottata dagli Stati Uniti di Jimmy Carter e da alcuni altri paesi occidentali (fra cui la Germania ma non la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia) per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, avvenuta alla fine del 1979. E Los Angeles 1984 – la prima edizione massicciamente finanziata da sponsor privati quali Coca Cola, Mars, IBM e AT&T – fu alla fine boicottata dall’URSS di Konstantin Chernenko e da una dozzina di paesi del blocco sovietico (compresa Cuba ma non la Romania di Ceausescu), durante una fase molto tesa delle relazioni Est-Ovest, col pretesto dell’avvenuta installazione dei cosiddetti “euromissili” in Europa occidentale. Gli stessi paesi non avevano però boicottato, pochi mesi prima, i Giochi invernali di Sarajevo, in quella che era ancora la Repubblica federale jugoslava.
L’irruzione dei conflitti politici sulla scena olimpica, del resto, è stata spesso immortalata emblematicamente da immagini oramai trasmesse dal vivo, in mondovisione e, presto, anche a colori. Si pensi all’arrivo trionfale di Abebe Bikila, il maratoneta etiope scalzo (prima medaglia d’oro africana nella storia dei Giochi) che faceva parte della guardia imperiale di Hailé Selassié – esiliato a opera dell’Italia fascista negli anni Trenta – sotto l’arco di Costantino a Roma. O al pugno chiuso guantato di nero (e ai piedi nudi) degli sprinter americani Tommie Smith e John Carlos sul podio allo Stadio Azteca. O, sempre a Città del Messico, al gesto di sdegno della ginnasta cecoslovacca Vera Çaslavska, medaglia d’argento, al momento dell’inno del paese che pochi mesi prima aveva invaso il suo, ponendo fine alla Primavera di Praga. O al bras d’honneur indirizzato nel 1980 al pubblico moscovita dall’astista polacco Wladislaw Kozakiewicz dopo il salto che sancì la sua vittoria sul favorito, il russo Volkov, poche settimane prima della nascita di Solidarnosc.
PROFESSIONALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE. È stato solo durante il lungo mandato di Juan Antonio Samaranch alla presidenza del CIO (1981-2001), tuttavia, che i Giochi sono diventati quello che sono oggi. Il primo dirigente del movimento olimpico a risiedere stabilmente a Losanna, Samaranch mise a frutto la sua esperienza diplomatica (era stato ambasciatore della Spagna a Mosca nel 1980) e le sue capacità organizzative – sostenuto in questo dal presidente della Federazione internazionale di atletica leggera Primo Nebiolo – per trasformare le Olimpiadi in grandi eventi globali e sempre più inclusivi, massimizzando gli introiti televisivi e il merchandising. Samaranch pose anche fine, con una revisione della Carta olimpica, alla finzione ormai insostenibile del dilettantismo – si pensi alla medaglia d’oro della tennista Steffi Graf a Seul – e promosse la creazione di un’agenzia e di un tribunale ad hoc per la prevenzione e il controllo del doping.
I primi Giochi del dopo guerra fredda, tenutisi nella ‘sua’ Barcellona, rappresentano probabilmente a tutt’oggi l’edizione più riuscita delle Olimpiadi estive, grazie anche all’inedita collaborazione fra il governo centrale guidato dal socialista Felipe Gonzalez e gli autonomisti catalani, unita all’impegno dei baschi dell’ETA a non interferire, moltiplicando con ciò il soft power di una Spagna ormai pienamente integrata nell’UE e nella NATO. Barcellona accolse quasi 10.000 atleti da 169 paesi, comprese le Repubbliche baltiche ex sovietiche, Croazia, Slovenia e Bosnia (anch’esse da poco indipendenti, e prima che divampassero le guerre balcaniche), la Germania riunificata, il Sudafrica di Nelson Mandela e, per la prima e unica volta, una delegazione congiunta della Comunità di Stati indipendenti che raccoglieva i paesi dell’ex URSS, e che sfilò dietro la bandiera a cinque cerchi.
A sancire la svolta verso il professionismo, infine, gli Stati Uniti inviarono a Barcellona il famoso Dream Team con i campioni della NBA, mentre il momento forse più emozionante di questo “nuovo ordine mondiale dello sport” fu rappresentato dal trionfale giro di pista congiunto delle medaglie d’oro e d’argento dei 10.000 metri, l’etiope Derartu Tulu e la sudafricana (bianca) Elana Meyer – un simbolo di riscatto e di riconciliazione anche più forte della vittoria nei 400 metri dell’aborigena Cathy Freeman, otto anni dopo, a Sydney.
Ad Atlanta 1996 tutte le repubbliche ex sovietiche parteciparono in proprio e anche la Palestina potè fare la sua prima apparizione, portando il numero delle delegazioni presenti a 197, ma l’edizione è ancora ricordata per un secondo episodio di terrorismo, a opera stavolta di un cittadino americano già noto alla polizia per aver attaccato cliniche dove si praticavano aborti e un locale notturno LGBT. I tre ordigni esplosi al Centennial Park della città provocarono un paio di morti accidentali e un centinaio di feriti e, di nuovo, comportarono soltanto una breve pausa nelle competizioni.
Ma otto anni più tardi, quando le Olimpiadi tornarono finalmente ad Atene, lo spettro del terrorismo di matrice islamista – che pochi mesi prima aveva colpito a Madrid – avrebbe indotto il governo greco a chiedere l’assistenza della NATO, che inviò nel paese per tutta la durata dei Giochi una flotta di aerei-radar (i famosi AWACS) con compiti di sorveglianza e prevenzione – senza contare il costante pattugliamento navale e l’onnipresenza delle telecamere a circuito chiuso. Anche le Olimpiadi di Londra del 2012, del resto, avrebbero registrato una forte securitization, e c’è da attendersi che Parigi 2024 non sarà da meno.
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Parte dell’eredità dell’era Samaranch è stata anche l’assegnazione dei Giochi a paesi “emergenti” come Cina e Brasile, due dei cosiddetti BRICS. Pechino ne ottenne l’organizzazione nel 2001 – lo stesso anno in cui fu ammessa al WTO, e poco dopo aver reintegrato Hong Kong e Macao – e ne fece fin dall’inizio un test della propria peaceful rise (come suonava lo slogan ufficiale dell’epoca), ottenendo in seguito anche le Olimpiadi invernali del 2022. Se i Giochi di Rio de Janeiro del 2016 sarebbero stati una vetrina molto meno scintillante del progresso del paese ospite, quelli di Pechino 2008 impressionarono invece per le infrastrutture e gli impianti, oltre che per le prestazioni degli atleti cinesi: per la prima volta dal 1936, nei Giochi estivi, il medagliere fu infatti vinto da una squadra diversa dagli Stati Uniti (o dall’URSS, fino al 1988), mettendo così fine anche nello sport all’unipolar moment del dopo guerra fredda. E se Serbia e Montenegro vi fecero la loro prima apparizione come stati distinti, la Corea del Nord ottenne di sfilare da sola, dopo averlo fatto assieme all’“altra” Corea nelle due edizioni precedenti.
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A turbare lo spettacolo offerto dalla nuova Cina, più che le proteste pro-Tibet che lo precedettero o le polemiche sulla polluzione dell’aria, venne soltanto lo scoppio della guerra russo-georgiana nel Caucaso, la mattina stessa della cerimonia inaugurale (08/08/08). Ma lo stretto controllo degli organizzatori e la breve durata delle ostilità (pochi giorni) concorsero a tenere di fatto il conflitto fuori dall’orizzonte mediatico delle Olimpiadi. Sei anni dopo, nel febbraio 2014, Vladimir Putin attese invece la conclusione dei Giochi invernali che aveva promosso personalmente a Sochi, sul Mar Nero, prima di lanciare l’operazione che avrebbe portato all’occupazione e all’annessione della Crimea. Ai Giochi di Parigi, tuttavia, Russia e Ucraina saranno ancora in guerra fra loro.
L’inclusività delle Olimpiadi del XXI secolo, che ha comportato anche una costante espansione delle discipline ammesse ai Giochi, è stata tuttavia soltanto parziale per il cosiddetto Sud globale. Infatti, non solo Londra, Parigi e Los Angeles hanno ottenuto di organizzare ciascuna una terza edizione (e Tokyo una seconda, slittata poi di un anno a causa della pandemia), ma il continente africano, da cui pure viene più di un quarto dei membri del CIO, rimane l’unico fra i cinque cerchi del logo olimpico a non aver ancora ospitato la manifestazione (a differenza di quanto accaduto, ad esempio, con i Mondiali di calcio).
Globalizzazione, professionalizzazione e commercializzazione hanno inoltre portato più corruzione – anche nell’assegnazione dei Giochi stessi – e più politicizzazione, dai sospetti di sportswashing sui regimi autoritari alla gestione dei casi di doping, peraltro sempre più numerosi. Esemplare, in questo senso, la lunga controversia sugli atleti russi trovati positivi a Sochi – prima squalificati, privati delle medaglie ed esclusi dai Giochi invernali del 2018, poi parzialmente riabilitati. Tutto ciò non solo ha seriamente intaccato la credibilità complessiva del sistema ma ha anche spinto gli Stati Uniti ad agire unilateralmente nel denunciare e perseguire il doping a livello internazionale attraverso il Rodchenkov Act del 2021 (dal nome del primo whistleblower), vero e proprio equivalente sportivo delle sanzioni extraterritoriali americane degli ultimi decenni.
Oggi il CIO conta 206 comitati “nazionali” (superato solo dalla FIFA con 211), fra cui Palestina, Kosovo e Taipei. Dal 2009 vanta pure lo status di osservatore permanente alle Nazioni Unite (che di membri ne ha invece 193). Dal 2015, infine, il CIO comprende anche un comitato ad hoc per i rifugiati, creato sulla base di una Risoluzione dell’Assemblea generale (approvata da 180 paesi) che auspicava per i Giochi del 2016 una “tregua” nei conflitti in corso, e sostenuto dall’Alto Commissariato ONU (UNHCR).
Il comitato, che sfila dietro la bandiera olimpica, ha già inviato una decina di atleti a Rio e una trentina a Tokyo, soprattutto da Medio Oriente, Africa subsahariana, Afghanistan e Venezuela. A Parigi sono almeno una cinquantina.
Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2024 di Aspenia