Fiducia e cooperazione, fin da subito; il trattato di pace che attende di essere firmato da 70 anni, quando sarà possibile. Questo è il nocciolo del “nuovo approccio” di Tokyo alla questione russa emerso durante il vertice russo-giapponese del 15-16 dicembre. Nessuna svolta, come forse il premier nipponico Abe Shinzo aveva nei mesi scorsi sperato; ma le novità sono importanti, e fruttano un piccolo capitale geopolitico spendibile sia in relazione al nuovo scenario internazionale che nei confronti della controparte russa e dell’opinione pubblica giapponese.
L’elemento-base delle relazioni tra Russia e Giappone è che un miglioramento sta a cuore, in questa fase, più a Tokyo che al Cremlino. Volendo contrastare la crescente assertività cinese, Abe ritiene indispensabile evitare che il cementarsi della partnership tra Mosca e Pechino diventi una tenaglia in grado di chiudersi sul Giappone e di pregiudicare la sua sicurezza. Di conseguenza è normale che siano i giapponesi a impegnarsi maggiormente per uscire dal vicolo cieco in cui le diplomazie dei due Paesi sono andate a incagliarsi nell’ultimo quinquennio, caratterizzato su entrambi i fronti da folate di nazionalismo spesso fine a se stesso. È dunque il Giappone a dovere offrire per primo qualcosa di concreto, nella speranza di sbloccare il motore dei reciproci compromessi.
Questo valeva a maggio, quando Abe ostentava ottimismo dopo l’incontro col presidente russo a Sochi, e vale anche oggi. Solo che negli ultimi mesi il quadro strategico è mutato. Il prezzo del petrolio, il cui calo penalizzava la Russia, è tornato lentamente a salire; e le elezioni americane sono state vinte da un assertore dell’appeasement con il Cremlino. La Russia in sostanza può svestire i panni di ex potenza in grave crisi, costretta controvoglia a chiedere assistenza alla Cina e lieta di coltivare l’amicizia di un membro fondamentale del G7 come il Giappone, per rivedere le sue opzioni. Certo, resta proiettata verso Tokio dal punto di vista economico/finanziario, ma non è più pressata dalla necessità di reperire nuovi spazi diplomatici e strategici.
Il risultato è che Vladimir Putin ha potuto muoversi senza sbilanciarsi. In particolare ha fatto capire all’interlocutore nipponico quanto pesi ancora l’eredità del bipolarismo – e soprattutto della rete di alleanze a guida americana – malgrado la guerra fredda sia finita da oltre vent’anni. Così non ha nascosto la sua irritazione di fronte all’ipotesi che il Giappone, seguendo l’esempio della Corea del Sud, installi sul suo territorio il sistema di difesa antimissili THAAD, ufficialmente concepito per proteggersi dalla Corea del Nord, ma in realtà dotato di maggiore rilevanza strategica. Tokyo deve capire, questo il messaggio lanciato dal leader del Cremlino, che la rapidità del miglioramento dei rapporti bilaterali è direttamente proporzionale alla capacità del Giappone di muoversi in autonomia rispetto a Washington – come con Obama, ora con Trump alla Casa Bianca. Le sanzioni internazionali per l’annessione della Crimea, cui pur malvolentieri il Giappone ha aderito, non sono compatibili con quella “fiducia” che Abe vuole si instauri tra i due Paesi. “Pensiamo che ora i colleghi giapponesi valutino meglio le preoccupazioni russe”, ha commentato il ministro degli esteri Sergey Lavrov.
Sul dossier delle quattro isole contese (Territori del Nord per i giapponesi, Kurili meridionali per i russi) Putin ha usato le stesse parole con cui i giapponesi inquadrano la questione delle Senkaku (rivendicate dalla Cina): “Noi pensiamo che non esista alcun contenzioso territoriale; sono i giapponesi a pensare che ne esista uno”. Ha perfino messo in dubbio, sia pure confusamente, che la base di discussione sia la Dichiarazione congiunta del 1956, in cui si preconizzava la firma di un trattato di pace dopo il ritorno al Giappone delle due isole più piccole, Shikotan e Habomai. In ogni caso ha fatto capire che, se mai tale riconsegna al Giappone avvenisse, Tokyo dovrebbe impegnarsi a non permettervi l’installazione di basi americane (una sorta di sovranità limitata inaccettabile per la controparte).
Così Abe, senza tradire la sua strategia che contempla tra l’altro un continuo aumento del bilancio per la difesa, giunto nel 2017 a superare la soglia dei 43 miliardi di dollari (settima posizione al mondo), si è visto costretto ad adattarsi alla nuova situazione. Ha spiegato, al suo elettorato prima ancora che ai russi, che è necessario un “nuovo approccio” visto che quello vecchio non è stato in grado di partorire il tanto atteso trattato di pace. Per arrivare a tale scopo – il che significa anche risolvere il problema dei Territori del Nord – la via è quella della cooperazione economica. Quanto agli aspetti politici, occorre attendere cosa la nuova Amministrazione americana vorrà davvero fare. E intanto muoversi verso Mosca a piccoli passi, dando ai russi la sensazione che il Giappone, se non può in tutto sostituirsi alla Cina, può affiancarla quel tanto che basta per lasciare a Mosca libertà di movimento. Fiducia basata su convergenze concrete, insomma, e non su retoriche e illusorie speranze.
Oggi i rapporti russo-giapponesi sono ben poca cosa rispetto a quelli russo-cinesi. L’interscambio commerciale è di soli 21 miliardi di dollari (2015) e le imprese giapponesi che operano in Russia sono circa 500 mentre quelle cinesi sono 33.000 (e 7.800 quelle americane). Ma con il vertice del 15-16 dicembre si sono poste le basi per un cambiamento radicale, che coinvolgerebbe il capitale sia pubblico sia privato.
Tra un Fondo sovrano russo e la Banca giapponese per la cooperazione internazionale è stato firmato un memorandum di intesa per la creazione di una joint investment Company da un miliardo di dollari. Gli investimenti nel Far East russo, inglobati in un’ottantina di accordi specifici che aggirano in vario modo le sanzioni volute da Washington pur senza violarle, ammontano a 2,5 miliardi di dollari. È coinvolto il fior fiore del capitalismo privato nipponico: Mitsubishi, Marubeni, Mitsui. I campi di intervento sono l’energia nucleare ed eolica, gli idrocarburi (compresa la ricerca in comune di nuovi giacimenti sottomarini nella piattaforma continentale russa), infrastrutture, agricoltura.
Particolarmente significativo è l’accordo che riguarda lo sviluppo dei Territori del Nord, dove sarà creata una “zona economica speciale”. Per la prima volta infatti si rompe un tabù. Imprese giapponesi investiranno nelle isole contese (pesca, turismo, attività culturali) accettando di pagare le tasse ai russi e di attenersi alle leggi russe. In cambio Mosca ha promesso di applicare alle isole le agevolazioni fiscali e la semplificazione delle procedure già varate per il Far East, nonché di elaborare un regime legale particolare “con lo scopo di creare il clima adatto per arrivare al Trattato di pace”. Così si è espresso Abe precisando che qualunque forma prenderà questo regime speciale non sarà pregiudicato il diritto giapponese di rivendicare la piena sovranità sui territori contesi. “Se qualcuno crede – ha chiosato Putin – che siamo interessati solo a promuovere rapporti economici e non ci importa del trattato di pace, si sbaglia di grosso”. Inoltre è stato stabilito di facilitare agli ex residenti cacciati dai russi nel 1945 (ormai solo 6.000, con un’età media di 80 anni) le visite alla loro terra di origine.
Intanto, a riprova della comune volontà di proseguire su questa strada, è già stato annunciato che entro poche settimane Abe andrà di nuovo a Mosca. Nella strategia di Tokyo la risposta alla Cina e a quello che viene interpretato come un preoccupante espansionismo passa infatti attraverso una serie di opzioni. Abe ad esempio continua a dare la massima importanza al “fronte” del Mar Cinese meridionale, specie ora che si aprono preoccupanti vuoti e Paesi tradizionalmente filoccidentali come Tailandia e Filippine – in rotta di collisione con l’Amministrazione Obama che ha condannato sia il colpo di stato a Bangkok sia la violenta politica anti-crimine del presidente Duterte – rischiano di finire tra le braccia dei cinesi.
Ma il raggiungimento di una partnership stabile con la Russia ha oggi la priorità, visti gli evidenti vantaggi di ritorno a livello di sicurezza: gestione congiunta della crisi nordcoreana, che a Tokyo sta molto a cuore; istituzionalizzazione del dialogo attraverso la formula dei colloqui ministeriali 2+2 tra ministri degli Esteri e della Difesa, come già avviene con USA e Gran Bretagna; sicuri approvvigionamenti energetici grazie agli accordi con le maggiori società petrolifere russe. Se si dovrà ancora aspettare – qualche anno, ha messo le mani avanti Abe – per risolvere la disputa sulla sovranità dei Territori del Nord, non ne deriveranno invece gravi danni.