La Germania s’è trovata, nel volgere degli ultimi due anni, di fronte ad altrettante crisi internazionali che investono aspetti fondamentali della propria storia: i confini orientali, in una parola la Russia, e la questione ebraica, in una parola Gaza.
Entrambe le crisi hanno enorme valore emblematico, significative ricadute pratiche e portano in sé elementi destabilizzanti. Se poi la fenomenologia di questa destabilizzazione si concretizza in una sorta di stagnazione acritica del dibattito interno e in scelte politiche radicali (una novità per la storicamente “moderata” Germania), questo è un ulteriore rivelatore dell’opacità della situazione interna. In una formula: calma apparente ed equilibri precari.
E ancora. Esprimendo il vertice della Commissione Europea, la Germania proietta con Ursula von der Leyen la propria visione politica, seppur nel quadro collegiale dell’assise di Bruxelles, su scala continentale. E quando von der Leyen si esprime con rammarico in questi termini: “We do not have the control over elections or decisions in other parts of the world” sorgono perplessità non solo su chi l’affianca nella stesura delle dichiarazioni ufficiali, ma anche nel merito, sempre ammesso che la non ingerenza negli affari interni di altri Stati, come le elezioni, resti un punto inalienabile dei valori europei – che dunque non andrebbe neppure precisato. Ci si potrebbe sempre chiedere in che misura le posizioni, seppur retoriche, del vertice della Commissione riflettano direttamente un modo di pensare “tedesco”, senza dimenticare tuttavia che si tratta pur sempre di un ex-Ministro della Difesa di un governo di Angela Merkel.
La storia recente, e non solo tedesca, ci ha abituati a significative smentite di luoghi comuni o categorie consolidate. Riguardo al rapporto con Mosca l’eredità della cristiano-democratica Merkel è di segno opposto rispetto all’attuale posizione del Cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz. Già dopo l’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022 a Merkel infatti fu rimproverato da analisti e commentatori l’atteggiamento troppo collaborativo (sul piano commerciale, energetico e diplomatico) dei suoi governi col Cremlino, tanto quelli di centro-destra quanto quelli incardinati nella Große Koalition (2005/2021).
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In un’intervista del novembre 2022 a Der Spiegel, Merkel ribadì sulla Russia due concetti. Primo, lo spirito degli accordi di Minsk (gli accordi del 2014 e 2015) era valido, tradotto: diplomazia sì, battaglioni no. Secondo: ancora no categorico all’invio di armi tecnologicamente avanzate a Kiev. Posizioni che hanno finito per scontentare tutti e lasciare Scholz in una posizione assai difficile.
Difficile perché la Germania, in prospettiva, dà l’impressione di essere a proprio agio quando la Russia è debole o in fase di ricostruzione (1991-2006), ma di mal sopportare le sue fasi dinamiche, dove dinamiche è da intendersi come termine neutro, weberiano, cioè di pura avalutatività, senza connotazioni di valore (wertfrei).
Il sostegno della Germania socialdemocratica (e della presidenza UE) all’Ucraina è sin qui stata, come si dice con una formula rozza ma efficace, senza se e senza ma. Berlino è di gran lunga, per spesa militare, il primo sostenitore europeo di Kiev, secondo nel mondo solo agli Stati Uniti. Le tabelle del Kiel Institute indicano 17 miliardi di euro in aiuti militari diretti all’Ucraina. Anche in termini di rifugiati accolti (oltre un milione), la Germania è seconda solo alla Polonia.
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Il governo tedesco si è avvalso sinora di un complesso strumento, dalla relativa trasparenza, denominato Ringtausch (circle exchange) o anche col neologismo Ertüchtigungshilfe (cioè aiuto alla formazione), concepito affinché Paesi comunitari forniscano direttamente armi all’Ucraina ricevendo armi sostitutive o tranche di rimborso incardinate sull’EPF, European Peace Facility, un fondo fuori bilancio.
Lo shock economico per i tedeschi è tuttavia profondo. Reduce da anni di tracotanza sul pareggio di bilancio, il celebre Schwarze Null imposto dal ministro Wolfgang Schäuble, l’opinione pubblica deve oggi accettare i frutti avvelenati di quel dogma: infrastrutture vetuste, deficit di ritorno (in Germania una norma costituzionale prevede che il deficit non possa superare lo 0.35 del Pil, ma Scholz ha dovuto derogare già nel 2023 presentando un bilancio supplementare) e transizione ecologica a forte rischio. Il fardello ucraino senza exit strategy completa l’istantanea.
Il poderoso impegno tedesco verso l’Ucraina ha avuto evidenti ricadute sull’opinione pubblica; l’attenzione dei media si è concentrata sul tema e gli esponenti di spicco della società civile hanno espresso unanime sostegno a Kiev; le voci non già in dissenso, ma dialetticamente critiche, hanno via via preferito tacitarsi.
Rarissime le eccezioni, tra di esse Peter Brandt, figlio dell’ex-Cancelliere Willy Brandt, professore universitario e promotore ad aprile 2023 di una proposta, tramite lettera aperta a Scholz, dal titolo Frieden Schaffen! (Realizzare la pace!), per il cessate il fuoco. Esito nullo, visti anche i dubbi dello stesso promotore timoroso che le sue parole potessero venir “male interpretate”. Iniziativa bollata immediatamente dall’ambasciatore ucraino a Berlino come “cinica” e dibattito morto sul nascere.
La Cancelleria sembra però consapevole: una parte di opinione pubblica è appunto silenziosa ma non per questo conquistata acriticamente alla causa di Kiev. Ecco spiegata l’altalena nelle dichiarazioni ufficiali tra sostegno incondizionato e prudenza sulle armi più avanzate. Una sorta di dondolo: Scholz e i suoi apparati inciampano gravemente sulle intercettazioni che ipotizzano attacchi diretti al Ponte di Crimea con regia tedesca e relativa campagna di depistaggio, come continua a negarsi sui missili Taurus mentre, al contrario, è stato assai determinato nell’azzerare il progetto Nord Stream 2. Il Cancelliere disorienta sia chi lo vorrebbe ancor più determinato contro Mosca, sia chi al contrario lamenta, seppur sottotraccia, l’assenza di una strategia generale.
L’Ucraina è quindi per la Germania un dossier assai più complesso di quel che appare e sul quale all’improvviso piomba, terribile, il 7 ottobre.
L’attenzione si sposta su Gaza, sineddoche d’Israele. È stato fatto notare come, per la Germania, la sicurezza d’Israele sia una questione di sicurezza nazionale e addirittura di identità nazionale: non negoziabile. Il concetto è divenuto ormai un mantra: nessuno perde occasione per ricordarlo ma nessuno lo spiega. Proviamoci.
Il percorso di rielaborazione della Shoah fu specifico della Repubblica Federale, ed oggi è retaggio della Germania unita, la sua Religione Civile. In questo senso la difesa ad oltranza di Israele coincide con la difesa della nuova identità tedesca, come essa è stata faticosamente costruita dal governo di Bonn (diversamente da quello di Berlino Est) dal 1949 al 1990, cioè dalla nascita della Germania Ovest all’annessione/riunificazione con la Germania Est.
Nella pervicace difesa di Israele la Germania odierna difende insomma il lungo e doloroso lavoro ancora in corso di superamento e rimozione della colpa (Shuldbewältigung e Shuldverdrängung) e non può permettersi di ricadere in vecchi cortocircuiti perché ne conosce il prezzo intollerabile. In questi termini la linea pro-Israele di Berlino si dipana e rivela come una difesa immunologica verso sé stessa e i fantasmi xenofobi non già del passato, stantio luogo comune, ma quelli del futuro. Vedasi la riunione segreta (svelata dall’inchiesta di Correctiv) tenutasi a Potsdam a fine novembre 2023 tra membri dell’AfD, esponenti neonazisti e industriali per discutere del piano, farneticante, di “remigrazione” di massa in uno Stato africano, da individuare o creare, di persone appartenenti a tre macro categorie: i richiedenti asilo (e chi li aiuta), gli stranieri con passaporto tedesco e i soggetti “non assimilati.”
E di più: forse la sola Germania ha colto il cinico salto logico, la non consecutio, tra le immediate manifestazioni pro-Palestina seguite al 7 ottobre e il pogrom medesimo. Sostenere un mero principio di causa-effetto per spiegare il massacro di Hamas è troppo riduttivo, assai miope, e gli slogan delle manifestazioni di piazza, oltre a suonare museali, sembravano dimenticare la coerenza minima dell’indignazione.
A rimescolare ulteriormente le carte sul tavolo del quadro interno concorre infine l’attuale ascesa di nuove forze politiche ideologicamente ibride, cioè sintesi di agende storicamente antipodi come l’estrema destra e l’estrema sinistra, metabolizzate in una ricetta alquanto spregiudicata. È il caso di Sahra Wagenknecht, alla guida dell’omonimo movimento (quindi un brand) nato dal milieu storico della sinistra radicale della Die Linke che oggi propone, accanto a un programma di poderose politiche sociali, anche istanze lontanissime dalla storia della sinistra tedesca: no ai migranti, no alla società gender, no all’agenda climatica.
Un Frankenstein politico assai seducente per diversi settori dell’elettorato tedesco; da una parte i nostalgici (molti nei Länder orientali) di una sinistra proiettata appunto a sinistra, poco incline cioè al compromesso centrista e campione di un welfare d’impronta DDR. Dall’altra sempre gli elettori dei Länder orientali, sinora garanzia dell’ascesa e dell’affermazione dell’AfD, che potrebbero vedere nel movimento della Wagenknecht un’alternativa convincente e più bilanciata.
L’operazione di marketing politico mostra evidenti limiti e, per assurdo, straordinarie potenzialità, in un’epoca dove le tradizionali categorie politiche sono tra loro contaminate e i flussi elettorali appaiono trasversali se non addirittura capovolti rispetto all’estrazione sociale. Il quadro è liquido, visti anche i tentativi sinora infruttuosi dei principali partiti di massa (CDU, SPD e movimenti cristiani) di arginarne l’affermazione dell’AfD.
La Germania, osservata in filigrana, mostra quindi solidi pilastri contro l’antisemitismo, ma evidenti crepe rispetto agli instabili confini orientali. Una regione, tra l’altro, storicamente non cristallina verso la questione ebraica e poco avvezza a pratiche compiute di democrazia.
La Germania da locomotiva d’Europa sembra oggi diventata il suo laboratorio: il principale stress test per le democrazie del Vecchio Continente.