Non tutti i problemi hanno una soluzione. Mi sembra che molti di quanti sono intervenuti prima di me in questo dibattito siano convinti che il limite dell’Unione europea sia non avere un popolo che le corrisponda. Ciò obbliga la costruzione europea a basarsi su accordi intergovernativi e trattati, e le impedisce di fondarsi sulla “sovranità popolare”. Questo problema insolubile ne determinerebbe la debolezza – anzi, l’incompiutezza. In realtà, non è per nulla un problema, se conveniamo sul fatto che l’Unione Europea esiste in funzione di determinati obiettivi, definiti nelle sedi opportune, che portano gli Stati membri a devolverle alcuni poteri e non altri. Non è un caso se i trattati riconoscono il principio di sussidiarietà, come ricordava Federico Ottavio Reho.
Il guaio è che il potere fatica a restare nel suo recinto e questo è vero a livello nazionale, regionale, provinciale, comunale e anche comunitario. Per uscirne con più agio, tende a costruirsi delle formule legittimanti: a spiegarci perché in quei limiti, sempre troppo angusti, proprio non poteva restare. Buona parte del discorso politico è sostanzialmente questo, un ricamo sulla tendenza del potere a occupare tutti gli spazi. Il ricamo meglio riuscito, negli ultimi duecento anni, sono le identità nazionali. Quando si parlava di “caratteri”, e David Hume poteva paragonare un “carattere nazionale” a quello di una professione nella quale chi la pratica tende ad assomigliare al suo diretto concorrente, la nozione non aveva fini prescrittivi. Siamo tutti convinti che gli avvocati, o i banchieri, si ricordino un po’ tutti e abbiano qualche tratto demoniaco o perverso che li accomuna. Non pensiamo debba esistere “Avvocatolandia” e men che meno vorremmo spedirli tutti lì – per quanto, a ben vedere, la prospettiva abbia un suo fascino.
Prego il lettore di scusare la sintesi brutale: avviene che lo Stato sortito dalla Rivoluzione francese abbia bisogno di appoggiarsi su un nuovo principio di legittimità, e così entra in scena l’idea di nazione. Le nazioni si fondano su lingua e cultura, segni visibili di ciò che separerebbe le une dalle altre. Col tempo, riconoscere l’esistenza di una “nazione”, di un gruppo di individui con determinati tratti comuni, diventa il primo passo per la costituzione di uno “Stato”. Che ci sia un legame fra le due cose, nessuno si azzarderebbe ormai a metterlo in dubbio: e quindi definire la prima serve per pretendere il secondo. Le nazioni non esistono in natura come le iene o i baobab: e il triangolo che unisce nazione, territorio e potere politico è un costrutto dalle classi dirigenti. “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” non voleva dire che questo. Le nazioni si possono conculcare: per esempio limitando il plurilinguismo, che non era leggere Goethe in tedesco e Dante in italiano ma l’abitudine a confrontarsi con spazi diversi in lingue diverse. Prassi più comune di quanto ricordiamo ma si tratta ormai di una curiosità per gli storici: perché, come collettività, la semplice possibilità che a una lingua non corrisponda necessariamente un territorio al quale a sua volta non corrisponde necessariamente un sovrano ci è diventata del tutto aliena.
Non mi pare una cattiva notizia che non esista una “nazione” europea (un popolo europeo). Le identità si forgiano col ferro e col sangue. Fatta l’Europa, si potrebbe senz’altro provare a fare gli europei: a patto di accettare un’esplosione di nuovi conflitti in seno all’UE e soprattutto che qualcuno questi conflitti li vinca e qualcun altro li perda.
Vale in tutti i casi al centro del dibattito, a cominciare da quello più eclatante: l’esercito europeo. Si è mai visto un esercito senza uno stato maggiore? E in che paese starebbe, che lingua parlerebbe, questo stato maggiore? Oppure considerate la disciplina degli aiuti di Stato. Gli stessi che per anni hanno strepitato per cambiarla, sognando di moltiplicare le Alitalia, ora strepitano perché, essendo stata manomessa, chi ha più margini di manovra sul piano fiscale può elargire mance più sostanziose. La soluzione è ovviamente la seguente: mettiamo tutto assieme nel calderone europeo, quattrini (pochi) italiani e quattrini tedeschi (di più). Come se questo risolvesse la questione di chi deciderà come allocare quelle risorse, e chi ne saranno i beneficiari.
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Se c’è qualcosa che contraddistingue da almeno un millennio questa parte di mondo è semmai la frammentazione. Se accettiamo di maneggiare un concetto scivoloso come quello di cultura, forse un’identità europea esiste ed è diversa e conflittuale rispetto a quelle nazionali. In questa identità ci stanno alcuni elementi culturali comuni (dovuti al comune sostrato religioso prima e poi al fatto che tutti abbiamo letto i poemi omerici e sappiamo più o meno chi siano Don Giovanni e Faust) ma anche la coesistenza di unità politiche diverse. L’Europa è altro dagli Stati nazionali: mentre i secondi promettono convergenza, unità, uniformità, la prima non offre che differenza e pluralismo. Fare convivere unità politiche diverse in un mondo di Stati nazionali è più difficile di quanto non fosse prima di essi. Perché lo Stato nazionale è un’istituzione talmente prepotente che tutto va riportato alle sue categorie. Quindi, serve il demos europeo.
Ma se pensiamo che l’Europa sia differenza e pluralismo, e non unità e uniformità, l’esoscheletro politico che può darsi non è tanto diverso dall’attuale: un insieme di strumenti, che sortiscono da accordi espliciti fra le diverse unità politiche che la compongono (trattati) e che servono a raggiungere assieme pochi e precisi obiettivi comuni. I popoli (le nazioni) europei si possono avvicinare nel momento in cui i loro Stati smettono di fare alcune cose: smettono di mettere dazi e barriere al commercio gli uni con gli altri, smettono di esigere visti di entrata, smettono di impedire la libera circolazione dei capitali. Non è detto che invece sia possibile amalgamarli davvero, questi popoli, e men che meno che ciò si possa fare aumentando – surrettiziamente, senza passare per la riforma dei trattati, come è stato con la commissione von der Leyen – il numero dei poteri esercitati “assieme” ovvero da alcuni nel nome di tutti.
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Questa strada probabilmente porta solo all’esplosione di nuovi conflitti: immaginiamo per un attimo una vera politica fiscale comune. Andrebbe tarata sulle preferenze dei Paesi del nord, cosiddetti “frugali”, o su quelli del sud, in teoria e nei fatti smodati? Chi lo decide? Si può davvero sperare di far valere il principio di una testa un voto, cioè gli italiani (sessanta milioni) possono costringere gli svedesi (dieci milioni) ad accollarsi quota dei loro debiti? Siamo proprio sicuri che questo ultimi lo farebbero davvero così, senza batter ciglio, nel nome dell’Europa? Chi vuole “più Europa”, ovvero chi spera di superare il deficit democratico, vuole sostanzialmente una “transfer union”. Ciò significa caricare l’incontinenza fiscale di alcuni sulle spalle di altri, che hanno scelto politiche fiscali più accorte in passato. I ricami su un’identità, su un demos europeo, oggi sono sostanzialmente un tentativo di ridurre il potenziale di tensioni e conflitti che un progetto del genere porta con sé.
Funzionale a esso è pure l’idea, ricorrente nel dibattito, che l’Europa per non essere un vaso di coccio fra vasi di ferro dovrebbe serrare le fila in un cartello commerciale unico e impenetrabile. È la vecchia formula della “fortezza Europa”, che piace alla destra (evoca mura invalicabili per trattenere l’immigrazione) come alla sinistra (le mura proteggeranno le “tutele” tradizionali del welfare). Sul piano economico, il concetto di nazione è semplicemente insensato: producono, comprano, vendono, investono, spendono individui, famiglie e imprese, non “nazioni”. Né queste ultime garantiscono necessariamente il benessere dei primi: a individui, famiglie e imprese interessa che si ampli il ventaglio delle scelte a loro disposizione.
L’Unione Europea che c’è è una costruzione stratificata, contraddittoria, con molti limiti. Ma ha qualche successo da vantare: il mercato unico, l’euro, la scomparsa delle frontiere fisiche, la promozione della concorrenza. In ciascuno di questi ambiti sono stati fatti molti errori, eppure il bilancio è positivo. Aver rimosso le frontiere fisiche ha reso più difficile ricostruirle a chi desiderava farlo, per esempio col pretesto del Covid. Se la moneta non è qualcosa che gli Stati possono immediatamente manovrare in nome di obiettivi politici di breve termine, tende a essere una moneta “migliore”, più stabile. Tendiamo a dare per scontati questi successi, desiderando che una qualche leadership butti il cuore oltre l’ostacolo e ci dia finalmente “più Europa”, o un’Europa “più democratica”, eccetera.
È il modo sbagliato di porre la questione. I successi dell’Unione Europea non sono affatto scontati, hanno in parte messo in discussione un trend secolare verso la “nazionalizzazione” della politica, hanno restituito spazio alla sfera della decisione individuale riducendo l’ambito delle decisioni collettive dei “popoli”. Sono, pertanto, successi molto fragili, eccentrici rispetto alle logiche degli ultimi due secoli, preziosi anche soltanto per la pace e la prosperità che hanno garantito, a dispetto di tutto, a cominciare dai ritornelli dei leader nazionali e dei loro “pugni sul tavolo”. Gli europeisti che non amano l’Europa che c’è perché ne vorrebbero sempre di più tendono a fare il gioco degli antieuropeisti, oltre che a volere in fondo le stesse cose, solo che su “scala” differente.
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Dovremmo pensare a preservare queste realizzazioni così importanti e così precarie che si debbono all’Unione Europea reale e non a quella immaginaria. La tendenza di Bruxelles a uscire dall’alveo dei suoi poteri andrebbe limitata e corretta proprio perché crea occasioni di tensione, che mettono a rischio il non poco che già abbiamo. Il principio di sussidiarietà andrebbe rimesso al centro del dibattito e della politica. Questo è un compito sensato, non esercitarsi in altri ricami per giustificare ulteriori trasferimenti di potere verso un “centro” che non è mai equidistante, ma dev’essere sempre nelle mani di qualcuno.
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