Almeno 110 conflitti armati si stanno combattendo sul Pianeta, tanti ne conta il Rule of Law in Armed Conflict Online Portal (RULAC) della Geneva Academy. Per la gran parte sono conflitti non internazionali – su cui non sono insoliti gli interventi da parte delle potenze occidentali, della Russia o dei Paesi vicini – che coinvolgono soprattutto gruppi armati organizzati, più o meno riconosciuti, e con scarse risorse da impegnare in costosi proiettili ed esplosivi per sostenere le ostilità. Così, affamare le popolazioni civili al di là delle linee nemiche si fa assai spesso metodo di warfare di primario interesse: economico, efficace, impunito.
Nonostante l’inedia deliberata possa costituire crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma. Nonostante la fame di massa possa in alcuni casi considerarsi crimine contro l’umanità, come è riconosciuto – a 90 anni di distanza anche dal Parlamento Europeo – l’Holodomor (il genocidio per fame di milioni di ucraini perpetrato dal regime sovietico tra il 1932 e il 1933). Nonostante il diritto internazionale umanitario vieti a tutte le parti in conflitto – in qualsiasi conflitto, internazionale e non – di prendere di mira civili e beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Nonostante la Risoluzione 2417, adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite all’unanimità, cinque anni fa abbia riconosciuto l’interdipendenza “tra conflitto armato e insicurezza alimentare indotta da conflitto e minaccia di carestia” e condannato espressamente “la fame dei civili come metodo di guerra – così come l’illegale negazione dell’accesso umanitario alle popolazioni civili”.
Nonostante tutto, continuano ad aumentare le denunce sull’uso della fame come arma di guerra nei conflitti moderni: Tigray, Siria, Somalia, Sud Sudan, Nordest Nigeria, Ucraina, per citarne alcuni. E su tutti lo Yemen appena riconfermato dalle Nazioni Unite tra le più gravi crisi umanitarie mai osservate a memoria d’uomo, dove crimini della fame se ne sono compiuti tanti – e per mano di tutte le parti belligeranti (tanto la coalizione a guida saudita/emiratina appoggiata dal governo yemenita, quanto le milizie Houthi) – da non potersi quasi tenere il conto.
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La guerra – quella civile soprattutto, ma non solo – si combatte ancora sulla fame.
Misure amministrative come i blocchi portuali e stradali che ostacolano, a volte interrompendolo del tutto, l’approvvigionamento alimentare e il soccorso umanitario. Azioni più concretamente violente come le aggressioni agli operatori umanitari, gli sfollamenti forzati, le zone agricole disseminate di mine antiuomo, la distruzione e il saccheggio di derrate alimentari, raccolti, bestiame e riserve d’acqua potabile. E ancora gli attacchi diretti contro le infrastrutture e i servizi essenziali che fermano l’accesso ad ogni sistema di supporto e sostentamento per le popolazioni civili.
Sono tutte pratiche regolarmente messe in campo dagli attori coinvolti nei conflitti moderni, con un impatto catastrofico sulla sicurezza alimentare di intere generazioni.
Il più recente studio sul tema curato da Azione Contro la Fame denuncia (circostanziandole) le strettissime e complesse connessioni che legano in un circolo vizioso le guerre e le più gravi crisi alimentari del nostro tempo. Incasella uno dietro l’altro, a scanso di equivoci, tutti i modi in cui il conflitto impatta negativamente sulla fame. E riporta un dato eloquente: l’85% delle 258 milioni di persone affamate nel mondo vive in zone di conflitto, e per 117 milioni di loro il conflitto è la causa principale e diretta della fame.
Uno sguardo all’ultimo rapporto annuale congiunto FAO – World Food Programme rende il quadro ancor più chiaro: Sudan, Haiti e Sahel (Burkina Faso e Mali) sono stati elevati ai massimi livelli di allerta per l’insicurezza alimentare quest’anno, a far compagnia ad Afghanistan, Nigeria, Somalia, Sud-Sudan e Yemen che avevano già conquistato da tempo la posizione di vertice nella scala IPC (Integrated Food Security Phase Classification), che vale a dire presente o attesa catastrofe. Sono tutti territori intrappolati in conflitti o stati di insicurezza prolungati.
Gli autori sottolineano che molti dei Paesi che si prevede faranno registrare tassi allarmanti di insicurezza alimentare acuta nell’immediato futuro sono oggi coinvolti in ampi sistemi di violenza organizzata e conflitti armati caratterizzati dall’uso crescente di ordigni esplosivi e munizioni a grappolo, e dal dispiegamento di tattiche di assedio in cui la fame è arma di guerra, compreso il targeting intenzionale di impianti idrici indispensabili alla produzione alimentare.
Non di certo una fatalità. Piuttosto una questione di volontà politica, che il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, non ha mancato di porre al centro del discorso tenuto in occasione dell’apertura dei lavori della VI edizione della Settimana per la protezione dei civili nei conflitti armati, alla fine di maggio. “Il mondo non è all’altezza dei suoi impegni per proteggere i civili, impegni sanciti dal diritto internazionale umanitario. [..] Abbiamo bisogno di azione e responsabilità per garantire che siano rispettati. Dipende dalla volontà politica”, ha detto il diplomatico portoghese richiamando gli Stati al dovere di indagare i crimini di guerra e perseguirne i responsabili, e il Consiglio di sicurezza alla sua “particolare responsabilità” sulla faccenda.
Dunque la lista degli affamati dalle guerre si fa più lunga ogni anno. E, ogni anno, in un rinnovato clima di impunità. Storicamente, infatti, la fame usata ad arma resta fuori dai procedimenti per crimini di guerra. Al massimo, a margine.
Questo è ascrivibile a una serie di fattori di non facile soluzione. Da una parte, c’è appunto quel tema di effettiva volontà politica di perseguire i crimini della fame. Dall’altra, a segnare l’inerzia del sistema sono talune lacune critiche nel diritto disponibile che intralciano il percorso per la definizione della responsabilità penale per il crimine di ‘Starvation’.
Ce ne sono di relative alla comprensione dei termini del reato specifico, che manca di chiarezza sui suoi elementi di base. Altre attengono all’incertezza sulle condotte probanti quell’“intenzionalmente, come metodo di guerra” recitato in Statuto.
Soprattutto, è la mancata criminalizzazione dell’uso della fame come arma di guerra nei conflitti non internazionali a pesare in una realtà come quella del nostro secolo che – lo dicevamo all’inizio – è fatta per la stragrande maggioranza di guerre civili, insurrezioni e ostilità interne.
Una precisazione è sul punto dovuta: una parte di questo che era un grave divario rispetto ai conflitti internazionali è stata colmata nel 2019 con l’adozione di un emendamento allo Statuto di Roma su proposta della Svizzera che ha esteso il crimine di guerra in discorso anche ai conflitti armati non internazionali. Ma parliamo di un traguardo che, per quanto straordinario, non può dirsi risolutivo in quanto ad implicazioni pratiche: basti pensare che solo 12 dei 122 Paesi parte del Trattato hanno ratificato quell’emendamento (l’Uruguay in ultimo lo scorso marzo), e le questioni di giurisdizione non sono certo cosa da poco.
Mentre la richiesta che i Paesi riconoscano la fame intenzionale in conflitto come crimine separato ai sensi del diritto internazionale si leva da esperti, organizzazioni e organismi per i diritti umani, che sia ancora tanto scarna la giurisprudenza nazionale e internazionale sul crimine è rappresentativo di quanto queste lacune costino alle vittime (presenti e future) un altissimo prezzo di (in)giustizia.
Da molti è sostenuto che i fatti potrebbero, di principio, qualificarsi nell’alveo di diversi crimini di guerra. Se questo è vero, lo è altrettanto che senza un’equa etichettatura del crimine continuerebbero a sfuggire (come fino ad oggi è accaduto) all’azione penale – e prima ancora alla percezione sociale e politica del crimine nel suo reale grado di “tossicità morale”, da cui poi discende e dipende la necessaria condanna pubblica dei fatti – tutta una serie di circostanze e dinamiche che muovono dai crimini della fame, che di trovare risposta in una giustizia efficace e adeguata invece lo meritano.
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“Ogni caso di carestia o di grave insicurezza alimentare odierna è, nella sua essenza, opera dell’uomo – scrivono (qui) gli esperti di Global Rights Compliance – L’attuale portata della sofferenza e delle morti causate da, o associate a, questo crimine non ha precedenti nella storia recente. La fame ha un effetto composto sulla pace e sulla sicurezza internazionale che supera il bilancio (atroce) delle morti: sfollamento di massa e disgregazione sociale, danni fisici e cognitivi intergenerazionali e gravi privazioni economiche sono solo una frazione delle terribili conseguenze inflitte alle vittime”.
Serve un segnale “a tutte le parti in conflitto, che l’uso intenzionale della fame come metodo di guerra non sarà più tollerato”, per rubare le parole all’ex Procuratore capo presso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, Richard J. Goldstone.
E servono misure concrete perché non si ripeta che milioni di persone siano affamate nelle guerre – in tutte le guerre – e nessuno ne sia ritenuto responsabile sotto il profilo penale ma anche pubblico e politico. L’impunità gioca da incentivo alle azioni intraprese nel disprezzo delle regole della guerra, e le conseguenze sono quelle che vediamo.
A poche settimane dallo scoppio del conflitto in Sudan, la conta dei disastri è già spaventosa. Gli ospedali sono stati attaccati, i magazzini di aiuti umanitari saccheggiati. Saranno 19 milioni le persone in fame acuta entro i prossimi mesi, il 40% della popolazione del Paese. E si valutano ricadute umanitarie di enorme portata sull’intera regione.
Non sono migliori le notizie che giungono dall’Ucraina. Di “giocare agli hunger games con il mondo” Mosca era già stata accusata in merito al blocco delle esportazioni alimentari, condannato a più riprese anche dall’Unione. Ora le “starvation tactics” utilizzate sulla regione di Chernihiv sono al centro delle osservazioni (rese note poco più che un paio settimana fa) dello Starvation Mobile Justice Team, parte dell’Atrocity Crimes Advisory Group che dal maggio 2022 supporta l’ufficio del Procuratore generale ucraino nelle indagini sui crimini nel conflitto.
Il Cremlino avrebbe portato avanti “un piano deliberato attentamente progettato per minare e attaccare le fondamenta stesse e il tessuto sociale degli ucraini, sottoponendoli a condizioni di vita disumane”, nelle parole dell’avvocata Catriona Murdoch, a guida del team di investigatori che accusa a chiare lettere le forze russe (e non è il primo) di aver impedito intenzionalmente ai civili ucraini l’accesso a cibo e acqua.
Mentre su Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova pendono già mandati d’arresto internazionali per il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione e trasferimento dalle aree occupate d’Ucraina alla Federazione Russa, non è ancora chiaro se in sede di giustizia internazionale si riuscirà a procedere sui presunti crimini della fame. Certo, si traccerebbe un precedente storico.