Non conoscevo personalmente Jo Cox, la giovane deputata del Labour Party che si pensava come una madre, prima che come una madre in carriera; e che si era a lungo impegnata sui problemi umanitari, prima di essere uccisa in un gesto di odio. La conoscevano però parecchi miei amici, che oggi la raccontano come una vera promessa della nuova generazione del laburismo inglese: una generazione pro-europea di fatto. E che ricordano Jo come ricordiamo le donne migliori: quelle che sanno combinare umanità (di visione) e fermezza (di azione), vita propria e interesse per la vita degli altri.
Può darsi che l’omicidio violento di Jo Cox, che ha sempre dichiarato di non volersi definire come una politica professionale, cambi la politica inglese. Nel senso che potrebbe spostare di un soffio l’esito di un referendum “too close too call”, incerto fino all’ultimo: spostarlo verso il “remain”, la permanenza della Gran Bretagna in Europa. La morte di Jo e la sconfitta del Brexit: uno scambio ineguale e terribile, ma che potrebbe accadere in questa età dell’incertezza, dominata dalle emozioni e dalle speculazioni.
Ha fatto bene Matteo Renzi – da una Russia che non ama la Gran Bretagna, che oggi sostiene i partiti euro-scettici del Vecchio Continente e che sembra puntare sulla divisione, più che sull’Unione europea – a ricordare con commozione l’omicidio violento di una giovane donna inglese: prova, se ancora ce ne fosse bisogno, delle conseguenze degli odi nazionalistici. Costruire un dialogo con Vladimir Putin ha senso solo se questi principi – messi a dura prova nello spazio grigio che separa l’Europa dalla Russia – vengono riaffermati. Al tempo stesso, il governo italiano, quale paese “ospite” del Forum di San Pietroburgo, aveva l’onore e l’onere di guardare al di là dei puri interessi economici del nostro paese, che pure esistono e sono quanto mai rilevanti. Matteo Renzi del resto lo ha fatto, ricordando che la vera questione strategica in discussione è la relazione fra la Russia e l’Europa. La sua tesi è che la necessaria applicazione degli accordi di Minsk (sull’Ucraina) e l’esistenza delle sanzioni (successive alla guerra in Crimea e nel Donbass) non possono fare perdere di vista gli interessi a lungo termine che uniscono Russia ed Europa (anzitutto in Siria e nella guerra ad Isis).
Renzi si schiera così con una scuola di pensiero abbastanza precisa: quella che – passando in America dal realismo alla Kissinger per ricongiungersi in Europa agli interessi tradizionali di paesi come Italia e Germania – vede nella Russia un interlocutore indispensabile di un mondo occidentale che dovrà gestire, nei decenni a venire, problemi assai più impegnativi: dalla competizione economica con la Cina alle varie declinazioni del terrorismo jihadista. Come dimostra l’evoluzione della crisi in Siria (cui Jo Cox aveva dedicato gran parte degli ultimi anni della sua breve vita), la Russia post-crisi Ucraina può comunque essere – per un’Europa vulnerabile alle drammatiche crisi medio-orientali e per un’America almeno in parte distratta – un partner importante. Ma a che condizioni?
Matteo Renzi ha riproposto, a San Pietroburgo, la vecchia vocazione dell’Italia a funzionare da “ponte” verso interlocutori non facili. La condizione perché una scelta del genere sia utile e credibile, e non puramente dichiaratoria, è che l’Italia tenga fermi alcuni principi essenziali, riferiti anzitutto alla crisi ucraina. Per quanti errori possano essere stati compiuti nella gestione del rapporto con la Russia, dal 1991 fino al varo della Eastern Partnership – e di errori ne sono stati compiuti parecchi – resta che le pulsioni di Mosca nel cosiddetto “estero vicino” non possono essere accettate o premiate. Il “ponte” con Mosca ha senso, in altre parole, se servirà a chiarire i termini di una relazione fra l’Europa e la Russia che ha bisogno di essere profondamente ripensata. Da entrambe le parti.