I nomi sulla scheda saranno due, ma nei fatti le prossime presidenziali egiziane saranno una corsa in solitario del presidente in carica Abdel Fattah al-Sisi, che già si prepara al suo secondo mandato. Il suo unico “sfidante” è Moussa Moustafa Moussa, candidato che ha presentato le sue credenziali elettorali soltanto a pochi minuti dallo scadere del termine. Considerando che fino alla vigilia della sua discesa in campo era un dichiarato sostenitore dello stesso al-Sisi, la sua sembra una candidatura pilotata, essenziale per evitare che il prossimo appuntamento con le urne (26-28 marzo) venga nuovamente etichettato come una finta competizione, una semplice ratifica per l’uomo oggi al potere.
Quanti hanno infatti provato a sfidare realmente il presidente, pur avendo sulla carta pochissime possibilità di farcela, sono stati comunque costretti a rinunciare all’impresa.Il caso più eclatante è stato quello di Sami Anan, ex membro del Consiglio supremo delle forze armate egiziane (Scaf) che è stato arrestato poco dopo il sorprendente annuncio della sua candidatura. Anan era stato licenziato da Mohammed Morsi, il leader della Fratellanza Musulmana che fu presidente per circa un anno tra il 2012 e ildal 2013 ed era diventato il nemico numero uno dell’esercito. Eppure, ai piani alti, qualcuno deve aver considerato Anan l’ultima possibile minaccia alla rielezione di al-Sisi. Soprattutto dopo che a sua volta aveva scelto come consigliere Hisham Geneina, ex capo dell’agenzia indipendente per la revisione dei conti dello Stato; Geneina è inviso al presidente, che nel 2016 lo ha rimosso dal suo posto, a seguito delle pesanti accuse di corruzione lanciate contro il governo. Anche Genina è finito così dietro le sbarre, poche ore dopo la pubblicazione di una sua intervista alla versione araba dell’Huffington Post nella quale aveva dichiarato di avere accesso a documenti top secret che presumibilmente dimostrano il ruolo svolto dai leader dell’esercito nei disordini seguiti alla caduta di Mubarak.
Altro uomo che è dovuto tornare sui suoi passi è stato Ahmed Shafiq, l’ultimo primo ministro di Hosni Mubarak e il suo più convinto “gattopardo”. Già nel 2012 aveva sfidato Morsi al ballottaggio e dopo la sconfitta si era rifugiato negli Emirati, da dove ha annunciato la sua candidatura. È bastata la notizia a scatenare un putiferio, concluso con il misterioso ritorno in patria (si sospetta infatti che atterrato al Cairo, Shafiq sia stato arrestato) e il repentino ritiro dalla corsa. Secondo notizie trapelate sulla stampa straniera, Shafiq sarebbe stato minacciato da persone pronte a diffondere alcuni video a sfondo sessuale che lo vedevano protagonista.
Simile sorte era toccata, già a dicembre, a un meno celebre colonnello dell’esercito, Ahmed Konsowa. Dopo aver pubblicato su internet un video in cui annunciava la sua candidatura, anche lui è stato arrestato.
Oltre a questi uomini vicini al regime, a ritirarsi dalla corsa sono stati anche Anwar Sadat – il nipote dell’omonimo terzo presidente egiziano (ucciso nel 1981) che già lo scorso anno era stato espulso dal Parlamento egiziano, con l’accusa di avere divulgato informazioni sensibili a diplomatici occidentali – e Khaled Ali, l’unico eventuale candidato realmente di opposizione. Dopo aver vinto la sua battaglia legale contro la cessione da parte di al-Sisi di due isole del Mar Rosso (Tiran e Sanafir) all’Arabia Saudita, Ali, divenuto il punto di riferimento per quanti non accettano la svendita della terra egiziana ai protettori del regime, è stato accusato di aver compiuto un gesto osceno e il suo processo per oltraggio alla morale è ancora in corso.
A questa sequela di eventi si somma un ennesimo arresto, quello di Abdel Moneim Aboul Fothou, leader del partito Misr al-Qawya (Egitto Forte) che ha apertamente criticato il regime egiziano durante un’ intervista su Al-Jazeera.
Tutto ciò ha spinto l’opposizione a creare un fronte trasversale per il boicottaggio. I primi ad aderirvi pubblicamente sono stati i giovani protagonisti della rivoluzione del 2011 che ritengono il prossimo appuntamento con le urne una farsa. Ogni eventuale cambiamento – continuano a ripetere – non potrà avvenire attraverso le urne. A loro si allineeranno i sostenitori della Fratellanza Musulmana che, confinati nuovamente alla clandestinità, ritengono illegittimo questo voto. Alcuni, forse i più giovani tra loro, potrebbero addirittura accogliere il messaggio lanciato dal leader di Al-Qaeda Al-Zawahiri che ha invitato i suoi seguaci ad approfittare delle elezioni per scatenare il jihadcontro quello che descrive un “regime corrotto, criminale e apostata”.
I salafiti, invece, si collocano su tutt’altre posizioni: gli islamisti più radicali si sono fatti cooptare dal nuovo regime e hanno ufficialmente garantito sostegno ad al-Sisi.
Più sfaccettato l’atteggiamento dei copti, i cristiani egiziani che rappresentano circa il 10% della popolazione. Mentre la Chiesa sembra appoggiare, ancora una volta, il regime più di ogni altra istituzione religiosa, i giovani cristiani hanno posizioni divergenti e critiche nei confronti del presidente.
Sfidanti a parte, la vera paura di al-Sisi è rappresentata dal cosiddetto hizb al kanapa, ovvero il “partito del divano” formato da quanti non usciranno di casa per andare a votare, dando per scontato il risultato. Nel 2014, l’affluenza era stata del 47% e un calo di questa percentuale sarebbe considerato un grosso insuccesso. Per scongiurarlo, c’è da scommetterlo, al-Sisi sarà pronto a tutto. Già in passato per far crescere il dato dell’affluenza il regime ha usato diversi incentivi, allungando anche in itinere la durata del processo elettorale.
Da un lato, un flusso costante di annunci rassicura gli egiziani che l’economia sta decollando (anche se l’inflazione non scende sotto il 18%, la disoccupazione giovanile sfiora il 40% e il debito estero supera gli 80 miliardi di dollari), che i terroristi sono sconfitti (cosa non vera se si pensa al Sinai) e che l’Egitto sta giocando un ruolo sempre maggiore a livello regionale e globale. Dall’altro, il comportamento del presidente riflette sempre più quello di un leader che si sente profondamente minacciato. Non solo a causa di minacce esterne, ma anche interne al suo regime, forse addirittura al suo entourage. A mostrarlo anche i recenti licenziamenti – firmati proprio da al-Sisi – di Khaled Fawzy, capo dei servizi segreti, e di Mahmoud Hegazy, capo di Stato Maggiore. La rapida comparsa di cinque sfidanti – considerato anche il clima politico di soffocante intimidazione che si respira in Egitto – dimostra che le sfide per il potere arrivano da più fronti. A preoccupare il raìs sono soprattutto quelle prevenienti dal suoi stessi ranghi.