Elezioni americane ed echi russi

 Il risultato delle elezioni di mid-term produrrà un “governo diviso” per la Casa Bianca di Joe Biden, che è riuscito a limitare molto i danni: i democratici manterranno probabilmente il Senato, la Camera passerà ai Repubblicani ma con una maggioranza ridotta rispetto alle previsioni. In teoria, e visto il grado di polarizzazione della vita politica americana, è la ricetta per due anni di paralisi legislativa. E per una forte instabilità interna, a cominciare dal regolamento di conti che si aprirà nel Partito Repubblicano fra un Donald Trump fortemente indebolito dalla performance dei suoi candidati e l’ala pragmatica decisa a liberarsene in vista del 2024. Di qui ad allora, Joe Biden avrà tempo per la politica estera. Da questo punto di vista, i risultati del mid-term sono invece una garanzia di continuità: cosa che tranquillizza – ma solo in parte – l’Ucraina, penalizza la Russia, espone la Cina e andrà gestita bene dagli europei.

 

Vediamo meglio, partendo da una domanda centrale: cambierà qualcosa nella gestione della guerra in Ucraina? Va tenuto conto che, dal 24 febbraio in poi, il Congresso ha approvato leggi di spesa collegate all’Ucraina di grande entità (66 miliardi di dollari) e con ampi margini bipartitici. Ma il quadro potrà complicarsi. Nell’ottobre scorso Kevin McCarthy, che diventerà probabilmente il nuovo Speaker of the House, ha sostenuto che non ci potranno più essere “assegni in bianco” per l’Ucraina mentre il popolo americano rischia una recessione. Ed è citando preoccupazioni fiscali che vari esponenti repubblicani, alla Camera e al Senato, hanno votato contro gli ultimi aiuti. Joe Biden potrà così trovarsi esposto a una pressione di tipo finanziario, prima che geopolitico. Si aggiungerà la spinta della sinistra democratica per la ricerca di una soluzione diplomatica rapida alla guerra in Ucraina. In sostanza: i risultati elettorali confermano il consenso bipartisan sul sostegno all’Ucraina, con forniture di armi e supporto di intelligence decisivi per la resistenza alla Russia. Ma i finanziamenti diventeranno più complicati a partire dal gennaio prossimo.

 

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Se per Kyiv è tutto sommato un buon mid-term, per Mosca non lo è affatto. Dal punto di vista della Russia, l’insuccesso di Trump è una perdita secca, oggi e in vista del 2024. Dalla Casa Bianca attuale, Putin non può sperare di ottenere granché, al di là dei contatti che già esistono sulla riduzione dei rischi di conflitto diretto e sul trattato New START (armi nucleari strategiche). La linea di Biden è che il sostegno militare americano all’Ucraina deve mettere in grado Volodymyr Zelesnky di trattare con Mosca da posizioni di forza: non rientra nei piani della Casa Bianca nulla che assomigli a una resa, tanto meno quando l’esercito russo è costretto a ritirarsi da Kherson, tappa che potrebbe segnare l’andamento di una guerra che dura da nove mesi. D’altra parte, Washington ha escluso di puntare a un “cambio di regime” in Russia. Fra questi due poli si giocherà, nei prossimi mesi, la possibilità di una soluzione negoziale.

I risultati del mid-term risuonano anche a Pechino, dopo un XX Congresso che ha incoronato Xi Jinping quale leader assoluto e (semi) perpetuo. Le elezioni americane dimostrano (o dovrebbero dimostrare) alle potenze autoritarie la vitalità di un sistema democratico che viene spesso descritto come in crisi terminale. La sfida a lungo termine con la Cina è e resterà il tema bipartisan per eccellenza negli Stati Uniti. Una sfida che Biden gioca in modo assertivo sul piano della competizione tecnologica (restrizione all’export di semi-conduttori sofisticati), combinata al contenimento militare e alla costruzione di alleanze asiatiche. La centralità del teatro indo-pacifico caratterizzerà, probabilmente, i due anni futuri della presidenza Biden, con il rischio di crisi su Taiwan e con riflessi importanti anche per l’Europa. Le polemiche attorno al viaggio di Olaf Scholz a Pechino indicano che, data l’importanza del mercato cinese per una parte dell’industria europea, coordinare le politiche euro-atlantiche verso la Cina non sarà così semplice.

Dalla maggior parte degli europei, dicono le fonti di Bruxelles, i risultati elettorali americani sono stati accolti con sollievo: diventa alquanto remota la possibilità di un Trump 2, nel 2024, temuta da Francia e Germania. Ma è bene non raccontarsi delle storie: se è indubbio che l’unità transatlantica è stata rivitalizzata dall’appoggio congiunto all’Ucraina e dalla minaccia russa, la tenuta futura è a rischio – per la “fatica” delle opinioni pubbliche sui costi della guerra e per la crisi energetica. E pesano, da entrambe le parti, i rischi di un nazionalismo economico che rischia di allontanare l’Atlantico. Uno dei successi legislativi di Biden, l’Inflation Reduction Act di agosto, è stato criticato soprattutto da Parigi e Berlino per i sussidi a settori industriali come quello automotive.

 

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Esiste insomma, dopo il mid-term, un’agenda transatlantica fondamentale per la UE e naturalmente per l’Italia. Per il governo Meloni, la contrapposizione radicale tra un partito Repubblicano ancora dominato dal trumpismo e un’amministrazione Biden sotto assedio sarebbe stato uno scenario rischioso. Quello che si presenta, in un’America ancora polarizzata, è uno scenario più incerto, in parte bloccato, ma che ci conviene di più: l’Italia ha bisogno del sostegno di Washington per rafforzare il suo peso contrattuale in Europa e nel Mediterraneo.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica il 10 novembre 2022.

 

 

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