Dall’estate del 2013 si sono rimpallati accuse di ogni tipo. Recep Tayyp Erdogan ha dato del golpista e del despota al presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, salito al potere facendo fuori gli islamisti della Fratellanza Musulmana. E Al-Sisi ha criticato più volte il presidente turco proprio per la protezione che Ankara ha garantito a questi islamisti, invisi ai militari egiziani che ritornati al potere li hanno nuovamente banditi, definendoli membri di una organizzazione terroristica.
Negli ultimi sette anni, l’Egitto ha invitato al boicottaggio delle merci turche, persino delle musalsalat, le soap opera del Ramadan che proprio dopo le primavere arabe sono diventate un efficace strumento di soft power neo-ottomano, registrando peraltro un certo successo di pubblico egiziano. Ankara, a sua volta, ha permesso agli esuli islamisti in territorio turco di organizzarsi come forza di opposizione al regime egiziano, consentendogli anche di aprire le loro televisioni, dalle quali questi hanno condotto campagne contro le istituzioni reinsediatesi in Egitto.
La retorica incendiaria di entrambe le parti non sembrava presagire dunque un possibile riavvicinamento tra Ankara e Il Cairo, ma le nuove condizioni geopolitiche del Mediterraneo hanno aperto un varco. Il 5 e 6 maggio scorsi al Cairo è arrivata una delegazione turca, guidata dal Viceministro degli Esteri.
La Turchia sta cercando di uscire dall’isolamento diplomatico frutto anche del suo sostegno incondizionato alla Fratellanza Musulmana che, dal 2011, le ha causato innumerevoli tensioni con le altre potenze regionali e internazionali. Riallacciare i rapporti diplomatici vorrebbe anche dire per Ankara (già esclusa dal progetto energetico EastMed) aprire la strada per la desiderata ridefinizione dei confini delle rispettive zone economiche esclusive nel Mediterraneo Orientale – che la Turchia ritiene molto penalizzante per i propri interessi. L’Egitto a sua volta ha perso posizioni in Libia da quando a partire dalla scorsa estate il suo protetto in Cirenaica – il generale Khalifa Haftar – è stato nei fatti azzoppato nei suoi progetti di conquista militare del Paese proprio dall’avanzata dei mercenari spediti da Ankara.
Tutto ciò ha spinto le parti a tentare una distensione: nell’ incontro del Cairo a inizio maggio si è cercato più che altro di gettare le basi per una nuova relazione. L’Egitto ha dettato le condizioni, chiedendo per prima cosa alla Turchia di staccare la spina ai Fratelli Musulmani. Ankara in effetti aveva già iniziato a farlo a marzo, quando qualcosa già si muoveva sottotraccia: aveva allora chiesto ai giornalisti egiziani sul suo territorio di abbassare i toni contro il regime di Al-Sisi per mostrare al Cairo la sua buona volontà di ricucire i rapporti. Sul tavolo dell’incontro del Cairo c’è stato poi il dossier libico, terreno dove fino alla scorsa estate Egitto e Turchia sono stati appunto rivali. Il Cairo ha chiesto in questo caso ad Ankara di ritirare i suoi mercenari dai dintorni di Tripoli; richiesta che però la Turchia si guarda bene dall’accettare, almeno per il momento. Infine si è addirittura abbozzata l’ipotesi – ancora tutta da valutare – di un accordo tra le due capitali per la ricostruzione del Paese.
Del resto, potrebbero essere state proprio le crescenti divergenze incontrate dal Cairo con gli Emirati Arabi Uniti sullo scacchiere libico a convincere alla fine l’Egitto a riconsiderare il suo posizionamento nel Paese confinante. Nell’ottica di non puntare più su un solo cavallo, Haftar, soprattutto dato che ora le sue fortune sono in crisi, l’Egitto avrebbe ritenuto utile allargare la rete delle sue relazioni a una più ampia pletora di attori presenti e incisivi tra Tripoli e Bengasi, per poter realmente influire sulla stabilizzazione del Paese e su questioni dirimenti per il suo futuro. Prima fra tutte l’annosa questione dell’unificazione delle forze armate e la creazione di un esercito, che Il Cairo da anni vorrebbe plasmare a immagine e somiglianza del suo. Un punto che aveva fatto infuriare i turchi che proprio per questo si sfilarono – durante la conferenza di Palermo del 2019 – dal comunicato finale.
Il tentativo di riagganciare la Turchia giunge per il Cairo dopo la distensione con Il Qatar: Doha, accusata dai vicini di essere troppo schiacciata sulle posizioni dell’Iran a gennaio ha fatto pace con gli altri Paesi del Golfo, superando così il congelamento delle relazioni degli ultimi quattro anni. Queste aperture arrivano in un momento in cui l’Egitto sembra in realtà raffreddare le sue relazioni con i Paesi del Golfo, benché queste siano fondamentali per la tenuta stessa del regime, che ha usato soprattutto l’Arabia Saudita come una sua stampella economica.
Secondo diversi analisti, ultimamente Il Al-Sisi non si è sentito sostenuto su uno dei dossier che più ha a cuore in questi mesi, ovvero quello della enorme “Diga del rinascimento” costruita in Etiopia a monte del corso del Nilo Azzurro dall’impresa italiana WeBuild. Addis Abeba ha annunciato che a luglio inizierà il riempimento del secondo bacino e il Cairo teme che se questo sarà fatto troppo in fretta, bloccando il flusso del Nilo Azzurro nel più ampio Nilo, gli egiziani privi di preziosissime risorse idriche durante le operazioni di invaso. Da mesi, insieme al Sudan, il Cairo ha lavorato diplomaticamente per ottenere il sostegno di diversi paesi africani e in questo suo sforzo non avrebbe trovato sponde nei Paesi del Golfo, molto influenti in quella parte dell’Africa.
Infine, secondo alcuni analisti che si sono anche esposti pubblicamente sul quotidiano egiziano Al-Ahram, l’Egitto avrebbe reagito con un certo scetticismo al processo di normalizzazione di Emirati Arabi e Bahrein con Israele, fortemente stimolato dall’amministrazione Trump. Se da una parte è evidente che gli “accordi di Abramo” hanno reso meno eccezionale il ruolo da pontiere che il Cairo dal ‘79 ha giocato – insieme solo alla Giordania – con Israele, dall’altro ai diplomatici egiziani sarebbe sembrato inopportuno benedire e sostenere degli accordi con i quali questi Paesi – Arabia Saudita esclusa – hanno in sostanza fatto passare in secondo piano la causa palestinese.
Oltre alle questioni geopolitiche, il processo di distensione intrapreso tra il Cairo e Ankara è anche un segnale interessante e trasversale per l’ampio spettro dell’Islam politico. Molta della retorica anti-egiziana portata avanti da Erdogan fino a qualche mese fa si basava sul fatto che Al-Sisi fosse un leader autoritario, non eletto democraticamente e difensore di valori (quelli del secolarismo politico) diametralmente opposti all’Islam politico di cui l’AKP si fa portatore. Erdogan in tal mondo si poneva come il difensore della causa islamista, a diverse latitudini: dall’Egitto a Gaza, passando per la Libia e la Tunisia, e penetrando anche in Europa, facendo breccia soprattutto tra le comunità guidate da esuli islamisti vicini alle posizioni della Fratellanza.
Difficile capire se e come anche in questo ambito il tempo guarirà ferite che sembravano incurabili. Se da una parte il processo di riallineamento fra Turchia ed Egitto potrebbe passare da un compromesso tattico in Libia – almeno una convergenza di interessi nel periodo di transizione verso le elezioni del prossimo dicembre – dall’altra entrambe le parti dovrebbero riavvicinarsi politicamente.
Se anche questo accadrà, le forze dell’Islam politico dovranno fermarsi, osservare, interrogarsi e riflettere sul loro futuro. In Tunisia prima e in Libia solo più recentemente, gli islamisti hanno in parte mutato il loro DNA Abbandonando ’intransigenza ideologica per abbracciare – come sembra stare avvenendo – un maggior pragmatismo politico.