Egitto: le proteste e il rischio del silenzio mediatico

Lo scorso settembre, proprio mentre Donald Trump incontrava a New York il suo “dittatore preferito” – così aveva definito poche settimane prima dell’incontro Abdel Fattah al-Sisi – in Egitto partiva un giro di vite innescato dalle inattese proteste esplose il 20 settembre. Nonostante i numeri contenuti – parliamo al massimo di centinaia di manifestanti al Cairo, Alessandria e Suez – l’improvvisa ricomparsa dell’attivismo nelle strade egiziane ha provocato l’immediato arresto di oltre 1000 persone (che le fonti egiziane riducevano a solo 55).

 

Il ritorno dei social

In un contesto dove il prezioso lavoro sul campo è sempre più raro e rischioso – vale la pena ricordare che gli studi di Al-Jazeera sono stati chiusi con la forza – ancora una volta sono stati i social network i canali dove l’attivismo si è risvegliato, raccontando e commentando i fatti. Nel silenzio totale dei media ufficiali che all’indomani delle inedite manifestazioni non avevano in pagina neanche un trafiletto sulle proteste e la repressione[1]; e lo stesso vale per le televisioni che – come successe nel 2011 – hanno continuato come se niente fosse con il loro palinsesto usuale.

Una vignetta contro la censura in Egitto

 

Né le agenzie internazionali né i media mainstream[2] hanno avuto la capacità di raccontare la cronaca della seconda serata di proteste, tenutesi a Suez – mentre al Cairo, piazza Tahrir era stata nel frattempo già assediata dalle forze dell’ordine. L’unico che ha fatto vedere in diretta l’inizio degli scontri con le forze dell’ordine è stato Mohammed Sadie, un utente Facebook residente proprio sulle strade degli scontri. Dopo una diretta di circa due ore che ha continuato a raccogliere visualizzazioni, la telecamera del cellullare di Mohammed si è improvvisamente spenta, con l’annuncio – fatto da lui stesso – del suo imminente arresto.

 

Mohammed Ali

Il primo a ricorrere ai social è stato Mohammed Ali, il contractor e attore egiziano che, autoesiliatosi in Spagna, ha chiamato i suoi concittadini a scendere in strada. Ex uomo d’affari, arricchitosi grazie agli appalti avuti dai militari nel settore immobiliare[3], Ali non è né un islamista, né un difensore dei diritti umani. Amante delle macchine di lusso, dei cavalli, del cinema e della fama, è stato a lungo un ingranaggio di quel sistema di corruzione che ha iniziato a denunciare da quando è scappato (forse a causa di conti che non riusciva più a saldare), trasferendosi nei dintorni di Barcellona.

La sua opaca discesa nell’arena politica è avvenuta il 2 settembre con la pubblicazione su YouTube – e poi su Facebook – di un primo video[4], nel quale ha denunciato la corruzione del regime egiziano, facendo nome e cognome di generali e ministri coinvolti nella costruzione di alberghi di lusso, avvenuta grazie a contratti da lui definiti fuori legge[5]. Questo video, al quale ne sono poi seguiti altri, è divenuto in fretta virale, visti i temi trattati (corruzione, senso dell’onore, soldi) e il linguaggio usato da Ali, che come attore è riuscito a fare breccia sulla classe media egiziana, attratta non solo dalle sue denunce, ma anche dalla sua notorietà: molti lo ricordano mentre monta a cavallo o mentre arriva al cinema con la sua Ferrari blu, circondato da guardie del corpo. Il video più importante è stato quello con il quale Ali ha invitato gli egiziani a scendere in strada il 20 settembre. La risposta positiva ricevuta da uno sparuto, ma significativo, gruppo di cittadini è stata la prova del successo dell’operazione mediatica messa in piedi da un singolo individuo, che è riuscito a fare ciò che negli ultimi sei anni l’opposizione non ha saputo fare.

Mohammed Ali in video

 

Ignorati dai media nazionali e globali, i video di Ali hanno creato una reazione a catena sui social, dove in tanti hanno sfruttato la scia per denunciare cose che fino a quel momento non avevano avuto il coraggio di raccontare pubblicamente. Il primo ad unirsi al flusso di denunce è stato Mosaad Abu Fagr, un attivista che dalla problematica regione del Sinai[6] ha accusato Al-Sisi di stringere accordi con trafficanti di droga piuttosto che con esponenti delle tribù locali, sempre più vittime delle operazioni di messa in sicurezza della regione. Dopo Fagr, a parlare è stato Ahmed Sahran, ex ufficiale e avvocato che in un video arrivato in fretta a  mezzo milione di visualizzazioni ha confermato le accuse di Ali, chiedendo al contempo il rilascio ai Mohammed Hamdy Younes, avvocato arrestato dopo aver annunciato che avrebbe chiesto al procuratore generale di indagare sulle accuse lanciate da Ali. Non sono poi mancati i video postati da diversi cittadini incappucciati che definendosi ex ufficiali dell’esercito o dell’intelligence hanno definito veritiere le accuse di Ali. Tutto questo mostra non solo la presa che hanno questi temi sulla popolazione, ma anche la simpatia riscontrata presso alcune fasce dell’esercito, ad esempio tra quelle scontente delle epurazioni e dei cambi ai vertici realizzati da Al-Sisi.

Il buzz scatenato da Ali ha sviluppato una serie di hashtag virali. Il primo è “Sisi, ne abbiamo abbastanza” (كفايه_بقى_ياسيسى#), lanciato dallo stesso Ali, sembra prendendo spunto dal nome di Kifaya (letteralmente “Ne abbiamo abbastanza”), il movimento precursore della rivoluzione del 2011 che già attorno al 2006 aveva iniziato a mettere in discussione la tenuta del regime mubarakiano[7]. A ridosso delle manifestazioni del 20 settembre, questo hashtag è diventato il più diffuso in Egitto e il sesto a livello globale. A catena, hanno ripreso corpo altri hashtag, popolari in passato: ارحل# (“Dimettiti”), usato soprattutto nell’estate 2013 contro il presidente islamista Mohammed Morsi; النظام _إسقاط_يريد_الشعب# , (“Il popolo vuole la caduta del regime”) e الغضب _جمعه# (“venerdì della rabbia”) trascrizione di espressioni già usate durante la rivoluzione di piazza Tahrir. La controffensiva dei lealisti si è raccolta invece attorno all’hashtag سيسي يا معك احنا# (“Noi siamo con te Sisi”).

Uno dei feedback più popolari ad Ali è arrivato da un insegnante di fitness e zumba ben lontano dalla politica, Sherif Faranca, che si è così rivolto alle autorità: “Vi state lamentando del fatto che le persone condividono [i video sui social media]. Vi siete chiesti perché le persone condividono? Vi dirò. Prima di tutto, perché è l’unico modo in cui le persone possono sfogarsi. I media [ufficiali] non riflettono i problemi delle persone, quindi le persone passano ai social media.” Il suo video è stato visualizzato nel corso delle prime ore da oltre 2.5 milioni di utenti, un numero che ha mostrato la montante insofferenza popolare e che ha intimorito probabilmente il regime, nuovamente costretto a fare i conti con quelle critiche al governo totalmente censurate dai media ufficiali ma ormai tornate a viaggiare ad alta velocità sui canali digitali.

Sherif Faranca nella sua foto-profilo su Facebook

 

Repressione e intimidazione

Probabilmente memore di quanto successo solo otto anni fa, quando la caduta di Mubarak iniziò da una pagina Facebook[8], il regime ha messo immediatamente in moto la macchina della censura e delle intimidazioni. Come riportato dalla Commissione per la protezione dei giornalisti, dal 21 settembre è stato sempre più difficile per gli utenti egiziani entrare su Facebook, guardare il portale in arabo della BBC, di Al-Jazeera e Al-Hurra (la televisione avviata con finanziamenti del Dipartimento di Stato statunitense poco meno di vent’anni fa[9]). Almeno tre giornalisti sono stati arrestati nelle 48 ore successive alle prime manifestazioni e detenuti in luoghi non meglio precisati[10].

Agli arresti e alla censura sono seguite le intimidazioni. Si pensi ad esempio alla vicenda di Wael Ghonim, uno dei registi virtuali della rivoluzione di piazza Tahrir, fuggito poi negli Stati Uniti. Dopo aver rotto un silenzio durato più di sei anni, criticando apertamente il regime sui social, Ghonim avrebbe ricevuto una chiamata dal personale dell’ambasciata egiziana negli Stati Uniti che lo invitava ad abbassare il tono della voce. Anche se non è possibile provare la veridicità di questa chiamata, è quantomeno verosimile credere che Ghonim abbia ricevuto serissime minacce, visto che dopo aver continuato a criticare sui social l’attività del regime, anche suo fratello Hazem, un dentista estraneo alla politica, è stato prelevato a casa dalle forze di sicurezza il 19 settembre 2019, e rilasciato soltanto tre mesi dopo.

Intimidazioni sono arrivate anche ai giornalisti di testate straniere. Il 21 settembre, il Ministero dell’Informazione ha inviato all’intero indirizzario un comunicato stampa nel quale ha invitato testate e giornalisti in servizio in Egitto a rispettare una serie di comportamenti, comunicando che il governo avrebbe monitorato con attenzione quanto andato in onda o quanto pubblicato a livello globale sugli eventi in corso. Tra le misure indicate come quelle da seguire: il divieto di ricorrere ai social media come fonte e l’obbligo di includere il punto di vista del governo in ogni eventuale pezzo di analisi. Ai corrispondenti è stato poi intimato di raccontare esclusivamente quanto visto con i propri occhi. “Ogni fonte credibile – si legge in un passaggio abbastanza bizzarro del comunicato – deve essere a sua volta confermata da altre due fonti credibili che hanno a loro volta osservato personalmente gli stessi incidenti.[11]

Questo comunicato (al quale è seguito uno simile il 26 settembre) si inserisce in una lunga serie di comunicazioni che, soprattutto a partire dalla tragica morte di Giulio Regeni all’inizio del 2016, hanno usato toni intimidatori. Queste minacce pongono l’intero sistema mediatico globale difronte a un grande rischio, ovvero che sull’Egitto si stenda un pericoloso silenzio. Con qualche sporadica eccezione, nel Paese il ruolo della stampa è da anni paragonabile a quello di un megafono del regime, piuttosto che un cane da guardia del potere. Fino ad ora però, la stampa straniera riusciva a fare luce su quello che accadeva; ora deve confrontarsi con l’imposizione di regole che riducono drasticamente la libertà di cronaca e l’accesso alle fonti, e con sanzioni che arrivano all’espulsione del giornalista o della testata dal Paese.

Se governi, comunità internazionale, organizzazioni professionali continueranno a ignorare le costanti violazioni alla libertà di stampa, a vincere in Egitto sarà la censura. La sfida urgente è quella di trovare strumenti e comportamenti capaci di garantire un racconto giornalistico di qualità anche in uno dei Paesi al mondo che conta il più alto numero di giornalisti arrestati.

 

 


Note:

[1] Cfr. le prime pagine del quotidiano Al-Ahram, Al-Shorouq, Al-Masry Al-Youm.

[2] Va fatta eccezione in parte per il britannico The Guardian (l’unica testata che sin da subito ha parlato di centinaia di arrestati) e per Al-Jazeera. Quest’ultima però non può lavorare dall’interno del Paese, visto che dopo il golpe del 2013 è stata bandita.

[3] Sul profilo di Mohammed Ali, Cfr, Leila Arman, Money and image: framing  Mohamed Ali’s face off against Sisi, Mada Masr, 24/09/2019 https://madamasr.com/en/2019/09/24/feature/politics/money-and-image-framing-mohamed-alis-face-off-against-sisi/

[4] https://www.youtube.com/watch?v=UdAuRx3efHU 2 settembre 2019.

[5] Mohammed Ali ha menzionato il ministro dei trasporti Kamel al-Wazir e Essam al-Kholy, generale ai vertici dell’autorità ingegneristica a capo delle grandi opere. Ali ha raccontato anche di essere stato contattato dai vertici militari per costruire una lussuosa villa ad Alessandria, destinata ad accogliere il presidente Al Sisi e la sua famiglia in occasione delle vacanze  per le celebrazioni della festa musulmana di Aid.

[6] Sulla situazione interna alla penisola del Sinai, cfr. Five Years of Egypt’s War on Terror, TIMEP, 24 luglio 2018, https://timep.org/wp-content/uploads/2018/07/TIMEP-ESW-5yrReport-7.27.18.pdf

[7] Sulla storia del movimento Kifaya, cfr. Rahab el-Mahdi , Enough! Egypt’s quest for democracy, Comparative Political Studies, febbraio 2009, Volume: 42, 8, pag: 1011-1039

[8] Cfr. Wael Ghonim, Revolution 2.0: The power of the people is greater than the people in power: A memoir, Houghton Mifflin Harcourt, 2012

[9] Secondo quanto dichiarato da Makram Mohamed Ahmed, capo del Consiglio supremo per la regolamentazione dei media,  questi canali sarebbero stati bloccati a causa della loro copertura imprecisa delle proteste.

[10]Egypt authorities arrest 3 journalists, block websites amid anti-government protests, Commitee  to protect journalism, 23 settembre 2019, https://cpj.org/2019/09/egypt-authorities-arrest-3-journalists-block-websi.php

[11]“ The state information service calls upon Correpsondents to abide by global professional standars”, cominicato stampa del Press center del Cairo, 21/09/2019.

 

 

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