Come annunciato con clamore la scorsa estate dal Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa durante il vertice dei Paesi BRICS a Johannesburg, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran ed Etiopia sono entrati a far parte del blocco a partire dal 1° gennaio 2024. Come ha spiegato anche lo stesso Presidente cinese Xi Jinping, l’allargamento dei BRICS «rappresenta un nuovo capitolo nella collaborazione dei Paesi emergenti e in via di sviluppo».
In un’era di multipolarità emergente, questa iniziativa ha un forte potenziale in grado di impattare – se non addirittura modificare – gli equilibri dell’attuale ordine mondiale, elevando – almeno in termini potenziali – il valore geo-economico e strategico dell’area MENA: quattro ingressi su cinque, infatti, appartengono al quadrante di riferimento, e la quinta è la vicina Etiopia – l’Argentina del nuovo presidente Javier Milei ha ritirato invece la sua adesione. Tuttavia, l’evoluzione del conflitto a Gaza tra Israele e Hamas potrebbe rimettere in discussione il futuro dell’organizzazione e le ambizioni dei diversi attori del cosiddetto Global South, molti dei quali – come per esempio l’Egitto – hanno assunto un approccio ambivalente rispetto alla questione specifica.
In questa platea informale ma ambiziosa, Il Cairo punta a giocare un ruolo decisivo di connettore e facilitatore dei rapporti tra Paesi del “Nord” e del “Sud” del mondo, anche sulla scorta dell’esperienza – a suo modo positiva nella prospettiva egiziana – della Conferenza internazionale COP27 di Sharm el-Sheikh (novembre 2022). Ecco, quindi, che l’ingresso del Cairo nei BRICS è stata salutato dal Paese nella sua interezza come un grande successo diplomatico e strategico, in grado di imprimere una svolta alle aspirazioni regionali e internazionali dello Stato nordafricano. Al di là della retorica nazionalista e positiva, però, l’annuncio giunto da Johannesburg è stato vissuto più con apprensione che con speranza in Egitto. I motivi sono molteplici e riconducibili a quello che è l’attuale contesto critico vissuto sul piano nazionale e internazionale dalla più grande potenza demografica del Medio Oriente (113,4 milioni di abitanti secondo stime 2023 delle Nazioni Unite), aggravato per l’appunto dalla crisi di Gaza e dai suoi impatti geografici, politici e di sicurezza.
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Dal marzo 2022, l’Egitto continua a lottare con una carenza di valuta forte, che è aumentata a dismisura nel 2023 in un contesto di inflazione alle stelle, che ha raggiunto il 35,8% nell’ottobre scorso. Questa crisi ha fatto sì che la sterlina egiziana perdesse quasi il 50% del suo valore rispetto al dollaro statunitense a causa di una serie di svalutazioni; verosimilmente, dopo l’importante appuntamento delle elezioni presidenziali anticipate (10-12 dicembre) potrebbe conoscere un nuovo intervento governativo in tal senso. Ciò ha contribuito ad alimentare un mercato parallelo del dollaro (con tassi informali del 26,5% rispetto a quelli ufficiali stabiliti dalla Banca Centrale Egiziana), rendendo la moneta forte più difficile da reperire per il Cairo anche al fine di ripagare i propri debiti esteri (intorno ai 163 miliardi di dollari). Secondo previsioni rese nell’ultima legge di bilancio, il debito complessivo raggiungerà quasi il 93% del PIL nazionale nel 2023 – con una stima globale che raggiungerà i 510 miliardi di dollari entro il 2028.
In altri termini, l’Egitto si presenta affetto da una crisi strutturale che rimane fortemente influenzata dalla sua esposizione alle dinamiche volubili del contesto internazionale. Infatti, gli effetti negativi causati prima dal Covid-19 e poi quelli provocati dalla crisi russo-ucraina hanno portato ad un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (con i costi ancora lievitati e ora giunti al 71,3% nel mese di ottobre 2023), ad un cronico deficit della bilancia commerciale, alle fluttuazioni delle catene di approvvigionamento e ad un sempre più complesso sistema di assorbimento di oltre 9 milioni di rifugiati (molti dei quali provenienti dal Sudan e a cui si aggiungeranno probabilmente quelli provenienti dalla Striscia di Gaza). Una debolezza complessiva, quindi, che inevitabilmente si è riversata anche sul piano diplomatico, in quanto la fragilità domestica ha avuto impatti notevoli sulla capacità di azione dell’Egitto nel Medio Oriente allargato, specie nei teatri di crisi cardine per il Paese quali Libia, Sudan, Nilo e Striscia di Gaza.
Proprio l’esplosione della guerra tra Israele e Hamas ha complicato ulteriormente il quadro. Non a caso, la precarietà dell’economia egiziana e la sua vulnerabilità al conflitto di Gaza starebbero convincendo diversi attori internazionali a cercare una qualche forma di intervento a sostegno del Cairo. La Direttrice del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, ad esempio, ha annunciato che l’istituto di Washington potrebbe prendere in considerazione un possibile aumento del programma di prestiti da tre miliardi di dollari concessi all’Egitto, proprio vista la straordinarietà della situazione.
Rispetto a questo scenario critico, l’ingresso nei BRICS è stato percepito al Cairo in chiave positiva e quindi come una grande opportunità sia per ridurre le transazioni in dollari – così da allentare la pressione valutaria che soffre la sua economia – sia per attrarre maggiori investimenti esteri anche attraverso l’adesione alla Nuova Banca di Sviluppo (NDB) con sede a Shanghai, la costola finanziaria dei BRICS, che potrebbe fornire finanziamenti agevolati per lo sviluppo del Paese nordafricano.
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Inoltre, bisogna tenere bene a mente che da circa un decennio l’Egitto ha fortemente spinto per diversificare la sua economia, almeno in termini di fornitori di beni e servizi, in modo da ampliare il ventaglio di opzioni politiche da poter giocare a livello internazionale. Al momento, le esportazioni egiziane verso i Paesi BRICS sono pari a 4,9 miliardi di dollari (2022), mentre le importazioni dai BRICS raggiungono il valore di 26,4 miliardi di dollari. Un dato interessante specie se comparato con i valori relativi a USA e UE: questi sono 6,4 miliardi di dollari di export e 2,8 miliardi in import nei confronti di Washington, mentre l’interscambio commerciale totale UE-Egitto è pari a 24,5 miliardi di euro. In favore di questa forte spinta verso le nuove economie emergenti hanno giocato alcuni calcoli dettati dalle peculiarità dei suddetti player, anche all’interno delle catene di valore globale.
Ad esempio, di particolare interesse è la produzione di grano e cereali, di cui l’Egitto è il principale importatore mondiale[1]. Al contempo tutti i Paesi BRICS sono produttori di grano e cereali (il valore complessivo è di circa 1/3 della produzione mondiale): merci di primaria importanza nella dimensione sociale egiziana, vista anche la possibilità di acquisto a prezzo più basso[2] se raffrontate con altri fornitori, e considerate le ripercussioni che storicamente il pane ha avuto nella stabilità dell’Egitto[3].
Al contempo, i membri BRICS hanno cercato, in varie maniere, di istituire un sistema di pagamenti alternativo, con l’obiettivo di lungo periodo di spezzare il dominio del dollaro, incuriosendo così gli attori economici del Global South, interessati a cercare nuovi partner fuori dai circuiti occidentali. In altre parole, i singoli membri dei BRICS hanno affascinato molti partner – tra cui quelli mediorientali – con la possibilità di creare dei sistemi di pagamento finanziari alternativi che prevedevano la de-dollarizzazione in favore dell’aumento degli scambi con le valute nazionali cinesi, indiane o russe.
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In questo contesto, l’Egitto potrebbe trarre dei benefici in quanto le sue riserve di valuta estera in dollari USA (circa 35 miliardi e molti dei quali presi in prestito) sono in forte riduzione e il Cairo potrebbe trovare conveniente, quindi, diversificare il proprio portafoglio di valute estere accumulando invece quelle dei Paesi BRICS, con l’idea di poterle magari utilizzare nei pagamenti internazionali.
Sulla base di questi presupposti, l’ingresso nei BRICS dovrebbe quindi condurre a probabili giovamenti per l’economia nazionale, ma allo stesso tempo permettere all’Egitto di accrescere e rafforzare le sue ambizioni politiche, quantomeno, nello scenario MENA – anche al di là della crisi di Gaza che lo vede coinvolto come importante attore diplomatico insieme al Qatar. L’Egitto può portare in dote ai BRICS il proprio grande valore geo-strategico, come punto di intersezione tra tre continenti e con un’economia (seconda per dimensioni in Africa e terza in Medio Oriente) dal potenziale ancora non pienamente sviluppato.
Tuttavia, l’ambiziosa iniziativa lanciata dai BRICS soffre di diversi limiti, tra cui la disomogeneità di interessi ma anche di visioni politiche tra i suoi membri e la mancanza di strutture istituzionali coese per realizzare gli obiettivi proclamati. Inoltre, pur essendo importante da un punto di vista simbolico e di messaggio politico, l’adesione al gruppo – che rappresenta collettivamente oltre il 40% della popolazione mondiale e il 31% del PIL globale – non deve essere sopravvalutata: è difficile immaginare nel breve termine che i Paesi BRICS possano essere disposti a operare attivamente per migliorare l’economia egiziana. Uno dei limiti maggiori è rappresentato proprio dalla NDB, l’istituzione finanziaria multilaterale nata nel 2015 con il contributo dei principali Paesi BRICS (Cina, Brasile, India, Russia e Sud Africa). Con 100 miliardi di dollari di capitale iniziale, la banca mirava a finanziare infrastrutture e progetti di sviluppo sostenibile nei BRICS e in altre economie di mercato emergenti, comprese quelle dei Paesi in via di sviluppo con il chiaro intento di rompere l’egemonia del duopolio Banca Mondiale-FMI nella gestione del sistema degli aiuti allo sviluppo e dei prestiti internazionali. Negli anni, però, la Nuova Banca per lo Sviluppo non è stata in grado di fornire nuovi prestiti, poiché ha avuto difficoltà a raccogliere i fondi necessari per ripagare i propri debiti. Inoltre, la NDB ha fatto ricorso al prestito di diverse centinaia di miliardi di dollari per rifinanziare la sua operatività, andando però a indebolire il progetto inverso di de-dollarizzazione del sistema globale. Questa situazione ha spinto la NDB a cercare nuovi membri, fino a trovare in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti due partner interessati ad iniettare ingenti capitali nell’istituto finanziario.
Un altro punto fondamentale riguarda le difficili condizioni di stabilità politico-finanziarie in cui si trovano molti dei Paesi BRICS, a cominciare da Cina e Russia. Proprio Pechino e Mosca hanno fortemente spinto per l’adesione del Cairo, convinte del fatto che l’Egitto offra opportunità strategiche rilevanti per i rispettivi interessi e obiettivi in Africa e nel Mediterraneo.
Tuttavia, è di fondamentale importanza valutare l’iniziativa egiziana all’interno dei riallineamenti globali in corso, nei quali anche il Cairo vuole valutare le proprie opzioni. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che tra il 2009 e il 2010 l’Egitto – quando veniva considerata una delle 11 economie emergenti a livello globale secondo Goldman Sachs – era stato corteggiato dal Brasile di Lula da Silva per aderire ai BRICS, ma l’allora Capo di Stato Hosni Mubarak aveva nicchiato sulla proposta per timore di mettere in discussione le relazioni speciali del Paese nordafricano con l’Occidente. Un aspetto non di secondo piano a cui anche Abdel Fattah al-Sisi non può sottrarsi per non alimentare la retorica anti-occidentale – propria di molti Paesi BRICS – anche in Egitto.
Video: La proiezione internazionale dell’Egitto di al-Sisi
Questa situazione, infatti, potrebbe causare una spaccatura tra il Cairo e le sue controparti occidentali, in particolare gli Stati Uniti, i quali nel settembre scorso con il taglio in attrezzature militari per circa 85 milioni di dollari (un valore simbolico rispetto al pacchetto complessivo da 1,3 miliardi di dollari), spostati su Libano e Taiwan, hanno voluto mandare un messaggio inequivocabile all’Egitto: quello di non mettere in discussione la collaborazione con gli Stati Uniti, rimanendo nell’ambito dei Paesi filo-occidentali. Pertanto, parte del successo dell’adesione dell’Egitto ai BRICS dipenderà anche dalla capacità del Paese di non farsi coinvolgere nella polarizzazione internazionale.
In conclusione, il Cairo si trova dinanzi ad un bivio importante, considerato il particolare momento storico che vive. Ecco perché sarà molto interessante comprendere come le autorità egiziane saranno in grado di gestire le relazioni tra nuovi e vecchi partner, senza cadere nel tranello di squilibrare eccessivamente il (ri)posizionamento internazionale del Paese, agganciandosi a un gruppo di economie che non sembrano avere prospettive di crescita elevata, almeno nel breve termine.
Note:
[1] Secondo i dati del Ministero degli Approvvigionamenti, il Paese importa il 60% del suo fabbisogno alimentare di base.
[2] Secondo un rapporto della Food and Agriculture Organization del luglio 2023, si prevede che l’Egitto importerà 12 milioni di tonnellate di grano durante l’attuale anno fiscale 2023/24.
[3] Basti solo pensare alle rivolte del pane di fine anni ’70 sotto la Presidenza di Anwar al-Sadat o le proteste del 2008-2009 durante l’ultima fase del periodo mubarakiano, prodromo alla Primavera Araba nel Paese.