Economia vs. Ambiente: scacco matto o via d’uscita?

Covid-19 ha stravolto il dibattito sul clima. Se è solo per questo, potrebbe obiettare qualcuno, ha stravolto in primo luogo il Clima medesimo.

Andiamo con ordine. L’ultimo appuntamento internazionale in campo climatico, prima della comparsa del coronavirus, è stata la Conferenza di Madrid delle Nazioni Unite: la COP-25  del dicembre 2019. Il summit ostentava il consueto titolo motivazionale, “Time for Action”, al quale tutti abbiamo finto di credere per mondanità conclamata. A riprova dell’ennesimo fallimento annunciato, il tema principale dell’assise erano le foreste. Tutelate dalla solenne dichiarazione di New York del 2014 (dimezzare la loro perdita entro il 2020 e risolvere il problema nel 2030) ripristinandone 200 milioni di ettari. Questi i numeri dell’ambizioso piano firmato da 50 Paesi.

A Madrid si è però preso atto che, invece di diminuire, la deforestazione nei primi sei anni dal lancio del progetto newyorkese è aumentata: e dei 200 milioni di ettari da ripristinare (150 era l’obiettivo per quest’anno) se ne contano solo appena 27. Non c’è stato tempo di fare ironia sul “Time for Action” perché il Covid-19 ha provocato, in pochi mesi, quello che i governi non erano in grado – per molte e complesse ragioni – di fare: cioè abbattere drasticamente le emissioni di anidride carbonica.

La morale è scontata: i governi nazionali sono incapaci di ottemperare alle loro stesse promesse in materia di climate change. D’altronde si era ormai giunti al paradosso del “tanto peggio tanto meglio”. Molti Paesi (si pensi al disinteresse cinese o alla presidenza Trump), disconoscendo gli accordi di Parigi COP-21 si dimostravano alla fine più concreti – anche se moralmente censurabili – di quelli farisaicamente ecologisti, campioni di slogan nei quali erano loro i primi a non credere.

Il dubbio, puramente accademico per il cittadino medio, se rassegnarsi al cinismo sino-statunitense o alla retorica europea, alla fine se l’è divorato la pandemia. I primi mesi di shutdown hanno fatto registrare il più drastico calo di emissioni serra della Storia.

Los Angeles, tra le aree urbane dove la diminuzione di gas serra è stata più evidente

 

E’ opportuno qui ricordare (come abbiamo già fatto) un dato cruciale scaturito da un’indagine peer-review, cioè da quel metodo di revisione paritaria che se fosse una regola universale oggi ci risparmierebbe l’insopportabile fuffa complottista, che conteneva già tutti i termini del problema. Eccolo riproposto: secondo le ricerche svolte col criterio peer-review di Richard Heede e del Climate Accountability Institute, sono le pratiche commerciali di appena 90 aziende produttrici di combustibili fossili le responsabili di due terzi degli aumenti osservati delle temperature globali tra il 1751 e il 2010.

Questo dato ha una portanza epocale, e fa sorgere oggi la domanda delle domande: cosa può fare il singolo individuo in un contesto macro che sembra travalicarlo e renderne vana qualsiasi azione?

E’ la domanda, non elevatissima ma legittima, che l’americano o l’europeo comune si pone quotidianamente quando, al volante di una normale auto diesel euro 6 (ultima generazione), si sente additato come l’artefice di una crisi ecologica che, lo suggerisce il senso comune, è ben più complessa e articolata.

E tuttavia il punto esiste: lineare o contorta, ascrivibile alla moltitudine dei singoli o all’impatto dei gruppi energetici, la crisi ambientale è gestibile? E’ reversibile? E quale modello energetico ci aspetta nel futuro?

Uno studio del dipartimento Equity di Goldman Sachs fotografa la situazione in termini quasi definitivi. Per ottemperare agli obiettivi di Parigi COP-21, cioè il contenimento della crescita della temperatura nel limite di 1,5° C entro il 2050, occorrerebbero altri tre decenni di shutdown. Cioè una decrescita di emissioni di carbonio nell’ordine medio del 5% annuo, come farebbe registrare il 2020 se l’attuale blocco si prolungasse fino al mese di dicembre.

Un altro recente studio (di Italy for Climate) mette invece in risalto il concetto di flussi di CO2 drasticamente calati – fra il 30 e il 50% – durante il lockdown marzo-aprile nel nostro ambiente di vita quotidiano e quindi più percepibili rispetto al minor calo stock di CO2 atmosferico che, appunto, Parigi prende come riferimento assoluto. La battaglia potrebbe quindi scoraggiare, se affrontata solo in termini di stock, mentre vista in termini di flussi vorrebbe dire combatterla in difesa di una miglior qualità di vita dei nostri habitat.

Tutto verte intorno al concetto di “picco del carbonio”. Secondo stime unanimemente accettate, l’anidride carbonica avrebbe raggiunto, incalzata dalla spinta delle nuove tecnologie green, i suoi massimi livelli di concentrazione solo nel 2030. Covid-19 potrebbe aver anticipato di dieci anni il crono-programma ambientale.

La domanda implica due fattori che ormai è inutile considerare separati: Economia e Ambiente. Il rischio del “power game with no winners” è conclamato, e il pericolo è quello di uno stallo che potrebbe trasferirsi dal dibattito delle Conferenze alle scelte operative dei governi. Soluzioni pilatesche in vista dunque? Vediamo quali fattori potrebbero contribuire a una ripartenza che si discosti dalla fase precedente dove, è sempre utile ricordare, i dati macro fotografavano comunque entrambi, Economia e Ambiente, in sofferenza.

Occorre ripensare la teoria delle élites. La loro formazione, la loro cooptazione a ruoli di responsabilità istituzionale. Elitismo? Tutt’altro: in alcuni casi (Germania, ad esempio, che pure non è il Paese dei sogni) le élites hanno autorevolezza in virtù del ruolo di vigilanza e selezione operato dal basso da un’opinione pubblica seria e collaborativa. In altre parole la società civile permea il tessuto politico e viceversa, senza dover ricorrere alle scorciatoie della web democrazia, o democrazia diretta, che alla prova dei fatti si rivelano inadeguate.

Occorre poi che queste élites diano un segno di netta discontinuità rispetto alle inutili kermesse del passato. Citiamo le due principali, sempre sulla falsa riga del falso binomio Economia-Ambiente: il World Economic Forum di Davos e appunto le Conferenze delle Parti (COP). Entrambi i sodalizi, nelle ultime edizioni, hanno dato segni di evidente logoramento. Passarelle autoreferenziali senza alcun reale potere, o volontà, d’incidere sul presente. Diremo di più, COP ha la responsabilità di porre obiettivi raggiungibili, lavorando con una comunità scientifica che deve offrire soluzioni invece di ultimatum. Se il mantra del 1,5° non viene rivisto, l’istantanea scattata dal coronavirus non lascia scampo a nessuno. Tanto vale ordinare tutti una cassa di champagne e attendere, come fece Anton Checov, la fine tra le bollicine e le ostriche.

Ai governi spetta invece il ruolo di coniugare i due poli, economico e ambientale, capendo che è illusorio invertire la tendenza del carbonio unicamente in maniera passiva. Cioè non facendo. Era esattamente il modello pilatesco precedente al Covid-19: limitazioni al traffico dei veicoli considerati inquinanti (eppure spesso le centraline non calavano e la qualità dell’aria rimaneva cattiva), stimoli fiscali per rinnovo della mobilità e dell’impiantistica, impulso alla mobilità pubblica e smart. Ottimo: ma tutte manovre d’impatto marginale, quasi dimostrativo. Politiche da amministratori di condominio, non da statisti.

E l’agricoltura? Sappiamo, ad esempio, che l’anidride carbonica si abbatte con tecniche rigenerative, ecco spiegato il riferimento iniziale alla forestazione. Occorre passare a una fase proattiva: invece di non fare, fare in termini rigenerativi. Cioè non solo rispettare un terreno (leggi milioni di ettari), ma enfatizzarne le qualità. Non avrebbe alcun senso infatti, pena la decrescita infelice, perpetuare il paradigma dell’attuale shutdwon alle estreme conseguenze: salveremmo il pianeta condannando l’umanità.

Un’ultima considerazione sul ruolo dell’informazione. Nel mondo pre-social e pre-ICT (Information and Communication Technology) la controinformazione era qualcosa di romantico: un ciclostile in uno scantinato per un grido, o un ragionamento, di libertà in un dibattito prigioniero di scenari repressivi o autoritari. Oggi la controinformazione è invece dilagante, e benché faccia leva sull’arma del vittimismo, è molto più potente, ramificata e professionale di quanto non voglia apparire. Sedicenti virologi e scienziati possono raggiungere l’opinione pubblica con una facilità ben maggiore dei classici potentati dell’editoria, ammesso che essi esistano ancora.

Siamo di fronte a un ribaltamento di significati che dall’informazione sfocia nella sfera del politico. Come quando, ad esempio, forze politiche rappresentate in Parlamento (o perfino con maggioranze relative) scendono in piazza contro i privilegi del Palazzo. Cioè contro loro stesse. Questo non è un cortocircuito, attenzione, ma una precisa tecnica di azione politica che fa il paio con un sistema di controinformazione per niente sprovveduto e improvvisato.

E’ per questo che sono fondamentali élites preparate e dotate di visione, per ribadire la vitale necessità di una classe dirigente che non sia chiamata a scegliere tra economia e ambiente, ma che accetti la sfida di gestirle insieme. E con l’aiuto di un’informazione sempre verificata e neutrale, mossa dalla sola volontà di consigliare il Principe con la modestia kantiana del sapere aude!

 

 

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