La guerra in Ucraina sta avendo importanti ripercussioni negli equilibri geopolitici del settore energetico a livello globale. Nonostante l’Europa soddisfi in media il 40% del suo fabbisogno energetico attraverso le importazioni di gas russo, dunque sia legata a Mosca da un profondo rapporto di interesse e dipendenza, gli Stati dell’Unione hanno fin da subito condannato l’aggressione militare di Vladimir Putin e risposto con pesanti sanzioni economiche.
Una delle prime mosse è stata quella di revocare l’apertura del gasdotto Nord Stream 2, già prima del conflitto non aveva ottenuto il beneplacito della Bundesnetzagentur, l’agenzia federale tedesca che si occupa della rete elettrica, del gas, dei trasporti e delle telecomunicazioni, era in sospeso per cause politiche, benché ufficialmente con la motivazione che perché il progetto non rispettasse alcune norme europee riguardo le compagnie di produzione, trasporto e distribuzione di gas.
Per contrastare l’implicita minaccia del Presidente russo di chiudere i rubinetti del gas, molti Paesi europei hanno anche considerato la riapertura degli impianti a carbone nazionali. Tuttavia, abbandonando la tradizionale frammentarietà che caratterizza il procedimento decisionale dell’UE, gli Stati membri hanno poi elaborato diversi piani per la diversificazione dell’approvvigionamento energetico perché – come ha affermato la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen -“dobbiamo smetterla con la dipendenza dal gas russo”.
Nel breve termine, i nuovi accordi per le forniture di gas dagli Stati Uniti, da alcuni Paesi della regione MENA e dai giovani paesi rentiers africani giovano sicuramente alla collaborazione internazionale: ne sono un esempio la dichiarazione congiunta tra Unione Europea e Stati Uniti, ma anche tra singoli Stati, come l’Italia e la Germania, con Paesi lontani sulla cartina geografica, ad esempio il Qatar e l’Azerbaigian. Anche il progetto EastMed, per lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale nel Mar Mediterraneo Orientale, sta subendo una sorta di ripensamento, nonostante le tensioni geopolitiche tra la Turchia e la Grecia.
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Queste scelte derivano dalla necessità di siglare accordi internazionali anche per lo sviluppo delle energie rinnovabili, al fine di conseguire il traguardo del net zero emissions entro il 2050, come previsto dal Green Deal europeo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres, condividendo l’appoggio alla transizione energetica annunciata da Ursula von der Leyen, ha affermato che la crisi ucraina dimostra che l’attuale mix energetico è sbagliato e avverte preoccupato che “con gli impegni attuali l’incremento globale delle emissioni previsto è quasi del 40% nel decennio attuale”.
Gli ostacoli e le incertezze sulla modalità di azione di contrasto al cambiamento climatico e alla diversificazione delle fonti energetiche rimangono però numerosi.
Su entrambi i fronti è necessario un approccio olistico. Da un lato da un punto di vista di diverse fonti energetiche da inserire nel portafoglio energetico degli Stati, dall’altro dal punto di vista delle collaborazioni tra Paesi e organizzazioni internazionali per implementare azioni di mitigazione e adattamento, ovvero di riduzione dell’impronta umana sull’ambiente e, al contempo, di difesa e prevenzione dalle catastrofi ambientali. Questo significa che anche il gas svolge un ruolo decisivo, poiché è una risorsa “ponte”, ovvero facilita la riconversione economica da idrocarburi a fonti green, dal momento che inquina meno delle fonti tradizionali. Ma il gas non è una risorsa pulita e le infrastrutture necessarie per il suo utilizzo sono costose e richiedono tempi di costruzione lunghi.
La maggior parte delle infrastrutture di rigassificazione si trovano nell’Europa meridionale, soprattutto in Spagna, dunque i Paesi della parte centrale del continente, come la Germania e la Francia, dovrebbero costruire nuovi terminali per ricevere GNL, gas naturale liquefatto in alternativa alla fornitura russa. Il governo degli Stati Uniti ha approvato dodici progetti di esportazione del gas con una capacità totale di 206miliardi di metri cubi all’anno, pari circa al doppio delle loro esportazioni attuali: i progetti sono però molto costosi e occorreranno molti anni, se gli verrà dato seguito, per vederli operativi.
È dunque lecito il dubbio che si pongono gli investitori, che stanno diventando sempre più il motore strategico dell’azione di decarbonizzazione industriale globale: è conveniente investire nella costruzione di infrastrutture di rigassificazione, se tra un decennio potrebbero risultare obsolete e potrebbero essere sostituite con tecnologie più innovative e sostenibili?
Negli Stati Uniti, in India e in Cina, i tre Stati più inquinanti al mondo in termini di emissioni di CO2 secondo le più recenti classifiche, il gas naturale è ancora ampiamente utilizzato e sembra inevitabile che rimarrà una componente della transizione energetica per i prossimi decenni. Allo stesso tempo però, l’agenda dell’amministrazione Biden prevede importanti investimenti nelle rinnovabili e una concessione temporale limitata alle esportazioni di gas verso l’Europa. Inoltre, i rifornimenti dall’America, previsti nel nuovo piano di azione congiunta all’interno del RePowerEu, sostituirebbero al massimo l’8% delle esportazioni russe verso l’UE e comporterebbero un aumento dei prezzi significativo.
Nuovi accordi europei per il gas non russo potrebbero anche avere un effetto domino sulle economie emergenti, soprattutto asiatiche, che si sentirebbero giustificate nel privilegiare gli investimenti negli idrocarburi, piuttosto che in nuove costose tecnologie pulite ancora in fase di sperimentazione.
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La situazione ha provocato anche nuove proteste degli ambientalisti, che si erano parzialmente acquietate prima della guerra, dato che molti acquirenti europei avevano smesso di negoziare con le compagnie di gas statunitense a causa delle preoccupazioni ambientali e socio-politiche.
“L’ironia è che questa guerra è finanziata dalla dipendenza dell’Occidente dagli idrocarburi russi. Ci sono ora prove significative per dimostrare che gli idrocarburi non sono solo insostenibili dal punto di vista ambientale, ma che indeboliscono anche il tessuto sociale, politico ed economico del nostro mondo”, ha detto David Blood, co-fondatore di Generation Investment Management. “Questa guerra fornisce ancora più prove del perché non c’è tempo da perdere nella transizione dai combustibili fossili e verso un futuro più pulito”.
In questo quadro così complesso, il ruolo dei decisori politici è più decisivo che mai. I rappresentanti dei governi devono analizzare sia gli aspetti ambientali che socio-economici: devono trovare un equilibrio tra le richieste degli ambientalisti per uno sviluppo sostenibile e la necessità di evitare il collasso economico dovuto alle conseguenze della pandemia e della guerra nel breve periodo.
Nel corso dell’ultimo mese, la Commissione Europea ha più volte sottolineato che proprio la decarbonizzazione rappresenta la risposta all’insicurezza energetica. Ma la finestra temporale per non aumentare la temperatura oltre 1,5° alla metà del secolo si sta riducendo sempre di più e viene quindi spontaneo domandarsi se quei 17 obiettivi sostenibili delineati alla Conferenza sul Clima di Parigi del 2015, e sottoscritti dalla maggior parte degli Stati del mondo, siano effettivamente possibili da raggiungere.
In un recente rapporto, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha proposto dieci strategie per ridurre le importazioni di gas russo europeo di oltre un terzo in un anno e, allo stesso tempo, raggiungere gli obiettivi del Green Deal. Oltre a sostituire il gas con fonti alternative, l’Organizzazione raccomanda ai Paesi di introdurre obblighi minimi di stoccaggio del gas per aumentare la resilienza durante il prossimo inverno, massimizzare la generazione di bioenergia e nucleare, implementare l’efficienza energetica nel settore infrastrutturale e industriale e promuovere misure fiscali per proteggere i consumatori dai prezzi elevati delle bollette energetiche nel breve periodo.
D’altra parte, un’eccessiva diversificazione delle importazioni di gas, rischia di aumentare il potere dei petrostati sui prezzi degli idrocarburi e rallentare i progetti sostenibili nelle economie emergenti, rallentando quindi la transizione energetica.
La lotta al cambiamento climatico richiede una ristrutturazione dell’intero sistema di produzione e consumo sia nei Paesi avanzati che in quelli emergenti e le conseguenze dell’invasione russa in Ucraina potrebbero rallentare la ristrutturazione ecologica, esacerbando gli squilibri tra domanda e offerta, l’inflazione e altri trade-off socio-economici.