Due fattori nuovi nel voto americano: intervista a Giovanni Castellaneta

Giovanni Castellaneta, con una lunga e prestigiosa carriera di ambasciatore (compresa l’ambasciata italiana a Washington tra il 2005 e il 2009), ha visto e commentato parecchie tornate elettorali negli Stati Uniti. Forse anche per questo, evita di dire ad Aspenia che siano le elezioni “più importanti” del secolo – mantra di parecchi analisti. Piuttosto, sul contesto di oggi pesano fattori nuovi: le due guerre in corso (sebbene gli USA non vi siano direttamente coinvolti come fu per Afghanistan e Iraq), che una larga parte degli americani ritiene vadano chiuse il prima possibile e l’utilizzo di social media non tradizionali, che esercitano una influenza rilevante ma complicata da leggere.

Il profilo di Trump su “Truth”, il suo social media

 

Il primo elemento – la preoccupazione per le due guerre – allude a un trend strutturale che interessa gli Stati Uniti: un parziale disimpegno internazionale, da parte di una potenza che non si sente imperiale e che ha deciso di concentrarsi sui propri interessi diretti. Si tratta di un trend chiaro dalla presidenza di Barack Obama in poi, osserva Castellaneta: gli Stati Uniti hanno preso atto razionalmente dei limiti della loro influenza globale. Essere i “gendarmi del mondo” non produce in effetti grandi risultati, ha forti costi e non conviene più. L’America ha ormai l’auto-sufficienza energetica e dipende assai meno dell’Europa dai mercati globali. Insomma, può ormai essere meno coinvolta in quello che accade all’esterno e può dedicarsi alle sue priorità: la propria crescita economica e il contenimento del vero, unico rivale, la Cina. Sarebbe sbagliato parlare di isolazionismo, avverte l’ambasciatore. Diciamo piuttosto che l’Impero ridiventa Repubblica, con una sorta di re-shoring politico; e che la Repubblica razionalizza costi e priorità, spostando le proprie risorse sul teatro indo-pacifico.

 

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Quanto al secondo fattore, continua Castellaneta, non si tratta solo del solito Tik-Tok o di Facebook, per quanto importanti siano. Esistono anche degli indicatori diversi, che pesano e possono essere manipolati. Prendiamo ad esempio i mercati delle scommesse, fortemente influenzabili da iniezioni di grosse somme finanziarie, in parte canalizzate attraverso le cripto-valute. Se aumentano le scommesse a favore di Donald Trump, l’idea è che Trump sia in posizione di vantaggio e questo a sua volta influenza le percezioni e i sondaggi. Capire come andrà diventa allora molto più complicato che in passato. La sensazione di Castellaneta è che fattori come questi conducano a una “sopravvalutazione” di Donald Trump, all’opposto di quanto era accaduto nel 2016. Siamo insomma nel campo di profezie che in qualche modo si auto-alimentano, con un gioco di influenze incrociate. Cosa che riduce l’attendibilità dei sondaggi tradizionali.

La conclusione? Si potrebbe arrivare a dire che non siano elezioni fino in fondo “libere”, con questo peso dei soldi (di per sé tradizionale nelle campagne presidenziali americane) moltiplicato dalle nuove tecnologie. Entrando in una logica quasi “orwelliana”, siamo lontani dall’esercizio democratico tradizionale e siamo invece entrati in una fase in cui si potrà arrivare a candidati solo di immagine, gestiti da processi dominati dall’AI. L’irruzione di Elon Musk nella campagna elettorale – chiosa l’ambasciatore – ha almeno in parte questo significato. Conta l’impatto mediatico, contano molto poco i programmi elettorali. Ed esistono dosi senza precedenti di mistificazione della realtà.

Lo scontro diventa fra caratteri: l’imprevedibilità di Donald Trump, la leggerezza oscillante di Kamala Harris, che pure ha una prestigiosa carriera di procuratore alle spalle. Si apre così il problema essenziale: lo scarto fra percezioni e realtà. Questo dato è particolarmente vero in campo economico: la performance dell’economia degli Stati Uniti è motivo di invidia per il resto del mondo, c’è crescita, l’inflazione è tornata sotto controllo, la disoccupazione è al 4%. Il fatto è che la gente non percepisce questo e non ne attribuisce il merito alle politiche dell’Amministrazione Biden. Conta un dato soltanto: che i prezzi di beni essenziali (pane, uova, benzina) siano più alti di quattro anni fa.

Resta da valutare l’impatto globale di un’elezione del genere, che avviene comunque nel Paese che  continua a guidare il mondo occidentale. Sì, io definisco gli Stati Uniti, osserva Castellaneta, come il “presidente” del sistema occidentale. In realtà, i programmi di politica estera dei due candidati non sarebbero, alla prova della realtà, così diversi. Sono differenti le modalità di attuazione e le declinazioni. Ma alla fine, sia Biden che Harris vogliono chiudere la partita ucraina, difendere Israele tenendo sotto pressione l’Iran e concentrarsi sul contenimento economico della Cina. Le differenze essenziali sono piuttosto identitarie e culturali interne, basti pensare al tema dell’aborto, carta che favorisce Harris.

 

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Ma se guardiamo al commercio internazionale, per esempio, sarà una questione di gradi, su dazi e tariffe. Qualunque presidenza americana futura applicherà una ricetta di nazionalismo economico, con i problemi che questo pone all’Europa. L’America ha punti di vantaggio indubbi: ha cavalcato la rivoluzione informatica, è sul predominio tecnologico che si gioca la competizione con la Cina; i prezzi dell’energia, grazie a fracking e shale gas, sono comunque un terzo di quelli europei; ha una politica industriale che ha fatto le sue prove con il programma IRA (Inflation Reduction Act, del 2022). Il “privilegio” del dollaro resta a suo modo esorbitante, nonostante l’aumento del debito pubblico, che crescerà ancora.

Insomma: l’America è abbastanza tranquilla che non avrà forti minacce dall’esterno. Ma non è più in grado di gestire quello che definivamo l’ordine liberale internazionale, non ha le risorse infinite per farlo. E non ha neanche la possibilità di varare uno sforzo bellico straordinario, anche se resta dominante quanto a spesa militare. E’ un problema industriale: una volta entrata nella seconda guerra mondiale, l’America era in grado di produrre una nuova nave da guerra alla settimana, oggi sarebbe impensabile. Il controllo dei rischi passa piuttosto per le reti informatiche e militari. Tutto questo significa che gli Stati Uniti non vogliono rischiare un “over-stretch”. E’ un ragionamento che coinvolge l’Europa, dove sono ancora schierati 120.000 soldati americani. Perché la NATO resti in vita, lo sforzo diretto degli europei dovrà aumentare sensibilmente.

 

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Non sarà facilissimo per noi, si può comunque affermare. La nostra spesa è ancora inferiore all’1,5% e per questo Trump ha parlato nuovamente, in campagna elettorale, di “delinquent States”. Non sarà facile, risponde l’ambasciatore, ma va tenuto conto del contributo delle missioni militari. E aggiunge che, in caso di vittoria di Trump, Giorgia Meloni godrebbe di un vantaggio politico rispetto agli altri maggiori Paesi europei, Fancia e Germania. Sia chiaro, conclude Castellaneta, è l’Italia ad avere bisogno di un rapporto solido con gli Stati Uniti e non viceversa. Ed è decisivo che l’alleanza non scada in sudditanza.

Con Trump, almeno a breve termine, vedremmo, precisa Castellaneta, due effetti distinti: sulle policy – commercio e guerre – e sulla politics. Sulle policy, all’Italia può andare bene un accordo con Putin basato sullo schema “perdita territoriale limitata in cambio di sicurezza garantita”, vedremo. Sul commercio avremo dei problemi. Ma sulla politics, il governo attuale dell’Italia potrebbe avere delle atout e penso, conclude Castellaneta, che il Primo ministro ne sia consapevole. Ci saranno dei rischi, dei costi ma anche dei benefici potenziali. Con Kamala Harris torneremmo invece, per così dire, a uno schema più noto e prevedibile, al cui interno l’Italia è comunque uno dei principali alleati europei.

 

 

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