Nulla racconta meglio del tramonto di un impero quanto osservare le vicissitudini della sua moneta. Cento anni fa, quando ancora il mondo degli affari era denominato in sterline, la Grande Guerra segnò l’inizio del tramonto per il dominio di Londra nel mondo finanziario. Ma ci vollero alcuni decenni prima che la sterlina perdesse la sua supremazia. Solo nel secondo dopoguerra il dollaro si affermò definitivamente come principale valuta di riserva, nonché quale strumento del commercio internazionale e finanziario. La sterlina rimase dignitosamente a far presenza, come capiterà allo yen alcuni decenni dopo e più tardi ancora al giovane euro e al giovanissimo yuan, che solo di recente ha iniziato a muovere i suoi primi passi nel Grande Gioco valutario.
Ma la circostanza dirimente, al di là delle riserve internazionali, è che i mercati contano in dollari ogni cosa. La valuta USA è di fatto, se non di diritto, la valuta internazionale. Il dollaro nel tempo ha consentito agli Usa di mantenere quell’esorbitante privilegio che già negli anni ’60 indignava le élite francesi. Gli Stati Uniti, a differenza degli altri paesi, non hanno bisogno di guadagnare o farsi prestare dollari per finanziare i propri deficit commerciali, perché li emettono. E non c’è solo questo. Washington mantiene un attivo sulla parte corrente della bilancia dei pagamenti, nella sezione dei redditi da investimenti, malgrado la posizione netta degli investimenti USA sia negativa da moltissimo tempo.
A ben vedere, tuttavia, questo “privilegio” nazionale ha giovato molto alla causa della crescita internazionale. Proprio come accadde con la sterlina ai tempi della prima globalizzazione, dall’ultimo trentennio del XIX secolo fino alla prima guerra mondiale, il dollaro ha consentito nel secondo dopoguerra uno sviluppo notevolissimo dei commerci di beni e di capitali. La lingua franca del dollaro ha rimpicciolito il mondo, e così ha favorito i processi di globalizzazione. Giocoforza chiedersi se le pulsioni de-globalizzanti che spirano dall’Occidente, a cominciare proprio dagli Stati Uniti, ci porteranno ad assistere al tramonto dell’egemonia del dollaro nei mercati valutari. De-dollarizzazione equivale a de-globalizzazione?
Rispondere a queste domande è compito della storia, ovviamente, ma possiamo iniziare a raccogliere alcuni indizi. Ricordando, ad esempio, che a settembre scorso c’è stata la prima consegna fisica di greggio basata su un future denominato in valuta cinese. Oppure che agli inizi di ottobre il ministro delle finanze russo, Anton Siluanov, ha parlato di un piano per de-dollarizzare l’economia dal paese, “incoraggiando i partner della Russia a usare le loro valute nazionali”. Dichiarazione che ha subito fatto tornare alla memoria quella dell’inizio di settembre del presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker nella quale si criticava l’uso spropositato di dollari nelle transazioni energetiche che l’Europa ha con varie economie euroasiatiche. Proprio in quei giorni, peraltro, l’Alto Rappresentante europeo agli affari esteri Federica Mogherini ipotizzava la creazione di un veicolo finanziario per regolare le transazioni con l’Iran una volta che fossero entrate in vigore le sanzioni Usa. Gli esempi potrebbero continuare, ma la cornice è evidente. La pulsione verso il multipolarismo politico ne sta generando una di eguale portata strategica verso un mondo multi-valutario, dove non sia più il dollaro la valuta egemone. O almeno non più l’unica.
Sicché quello che sembrava un argomento esotico – la de-dollarizzazione dell’economia internazionale – inizia ad essere ormai contemplato come una possibilità concreta. Un articolo recente pubblicato da Bruegel, pensatoio di stanza a Bruxelles, riepiloga lo scenario e fa comprendere benissimo quanto le tensioni internazionali abbiano contribuito a generare queste spinte centrifughe dal dollaro.
Per la Russia, ad esempio, uno dei fattori principali sono le sanzioni imposte da Trump, e altrettanto è accaduto all’Iran, che però ha la ventura di essere partner importante di molti paesi europei e soprattutto della Cina. Quest’ultima, poi, vive un dilemma finanziario di non semplice soluzione. Pechino ha bisogno di molti dollari per saziare la sua fame di materie prime e al tempo stesso vuole internazionalizzare la sua valuta preparandosi alla convertibilità. Un passaggio politico che segnerebbe l’ammissione definitiva della Cina al club ristretto delle economie globali che esprimono anche una valuta di riserva. In parte questo passaggio è stato compiuto nel 2015, quando il FMI ha incluso la moneta cinese nel basket che compone i “diritti speciali di prelievo” (DSP), la moneta di conto emessa dal Fondo. Ma mentre la sorte internazionale dello yuan è legata a quella della sua futura convertibilità, una moneta teoricamente in grado di far concorrenza al dollaro c’è già: l’euro.
La valuta europea potrebbe rappresentare l’elemento di collegamento fra le istanze di alcuni paesi che vogliono de-dollarizzarsi (si pensi alla Russia) e il sistema finanziario internazionale, trovando nel commercio lo strumento ideale dove esercitarsi. Ha senso che l’Europa paghi in dollari la sua spesa energetica che si indirizza in buona parte fuori dagli USA? L’euro peraltro denomina già molte transazioni di beni e di capitali in giro per il mondo. Per farsene un’idea si può consultare il rapporto sull’uso internazionale dell’euro che la BCE pubblica annualmente sul proprio sito. L’ultima edizione (giugno 2018) fotografa un utilizzo della valuta europea ai minimi storici, anche se rimane saldamente al secondo posto nel sistema monetario internazionale.
L’euro inoltre ha già una posizione di tutto rispetto nel sistema globale dei pagamenti. Ma se l’eurozona portasse a compimento l’unione bancaria e l’unione del mercato dei capitali la valuta comune potrebbe diventare un concorrente ancor più temibile per il dollaro. Ai fini del nostro discorso, tuttavia, ciò che rileva è la quota di fatturazione dei beni esportati dalla zona euro verso paesi extra-UE, per lo più grazie ai paesi dell’Europa orientale, che è arrivata a superare il 57% nel 2017, a fronte di un 45,2% di beni importati da extra-UE denominati in euro. Il commercio, insomma, si conferma come il veicolo principale dell’internazionalizzazione dell’euro. Un ruolo peraltro in crescita.
Ecco perché Juncker ha definito “assurdo che l’Europa paghi l’80% della sua bolletta energetica – che è di 300 miliardi di euro – in dollari quando solo il 2% del suo import energetico arriva dagli Stati Uniti”. L’assurdo economico ha una ragione politica (e storica) evidente che Juncker non può non conoscere. Tale dichiarazione perciò ha senso solo se la si inquadra nelle difficile partita che l’Ue sta giocando per ritagliarsi un ruolo politico internazionale coerente con il suo peso economico. Ma se si ricorda che un terzo della sua bolletta energetica l’UE la paga alla Russia, ecco che la provocazione di Juncker assume una fisionomia più comprensibile.
Gli osservatori stimano in 230 miliardi di dollari annui il flusso commerciale (import+export) russo-europeo, con la Russia saldamente al primo posto come primo fornitore di gas e petrolio, beni che pesano il 29% dell’import europeo complessivo. Questo flusso, pure se con alti e bassi, è rimasto stabile nell’ultimo decennio e non è quindi esagerato definirlo uno dei punti fermi del commercio internazionale. E’ del tutto ovvio chiedersi cosa impedisca alla Russia di farsi pagare in euro gli oltre 100 miliardi (di dollari) annui che l’UE le corrisponde per la vendita di risorse energetiche. Una risposta “politica” è arrivata nel maggio scorso, sempre da Anton Siluanov, nel corso dell’International Forum di San Pietroburgo. “La possibilità di passare dal dollaro all’euro nei regolamenti dipende dalla posizione dell’Europa nei confronti di Washington. Se i nostri partner europei dichiarassero la loro posizione inequivocabilmente, potremmo sicuramente trovare un modo per utilizzare la moneta comune europea per i regolamenti finanziari”.
Il problema quindi rivela la sua natura squisitamente politica. Pagare in dollari, per l’UE, è innanzitutto una scelta di campo che deriva dalla lunga consuetudine fra i due continenti. Consuetudine che finora è stata più forte delle esigenze commerciali e persino della geografia. Ma pure al netto del vincolo politico, le complessità economiche sono parecchie. I mercati del dollaro sono più liquidi e più profondi di quelli in euro. Inoltre i trader dovrebbero incorporare un rischio cambio maggiore nei contratti, con ricadute implicite sui prezzi. E’ probabile insomma che una banca o un’azienda voglia tutelarsi contro il rischio di oscillazione del cambio dell’euro o del rublo rispetto al dollaro a fronte della circostanza che i principali benchmark petroliferi (WTI e Brent) sono quotati in dollari.
Ma è proprio a questo punto che è entrata in gioco la Cina, che ormai ha acquistato un peso specifico rilevante nei mercati delle commodity a causa della sua “fame” di materie prime. Il secondo round di sanzioni volute dagli Usa contro l’Iran consente già di capire che questo evento, in sé non certo determinante nell’ampio contesto delle relazioni internazionali, ha un sotto-testo economico assai interessante da osservare.
Le sanzioni hanno fatto riemergere con prepotenza l’uso politico che gli USA fanno del dollaro quando lo ritengono necessario. L’Iran vende petrolio e quindi genera flussi di denaro. Il problema è che non si sa bene come farà l’Iran a vendere un bene reale solitamente quotato in dollari una volta che il suo mondo finanziario verrà tagliato fuori dal sistema finanziario denominato in dollari. Non è un problema banale, soprattutto per la Cina che del greggio iraniano è la prima acquirente. Il comportamento di Pechino non è di semplice lettura. Alcune cronache riportano che la Cina si sarebbe allineata a Washington, e avrebbe già tagliato la domanda di greggio dall’Iran. In particolare Pechino avrebbe ordinato alla Banca di Kunlun di smettere di ricevere pagamenti dall’Iran. La banca di Kunlun, controllata dal gigante cinese CNPC, è stata il principale veicolo di intermediazione finanziaria fra la Cina e l’Iran nel periodo 2010-15, anche se l’Iran era già soggetto al precedente ciclo di sanzioni. Nel 2012, di conseguenza, la banca cinese fu sanzionata dal Tesoro USA, esclusa dai circuiti di pagamento denominati in dollari e “costretta” a regolare i suoi pagamenti in euro e yuan. Cosa è cambiato dal 2012 a oggi? Forse la tensione crescente con l’amministrazione Trump può aver indotto la Cina a una maggiore prudenza rispetto al passato. O magari le mosse cinesi erano finalizzate ad ottenere la dispensa di sei mesi, come poi è in effetti accaduto, dall’applicazione delle sanzioni.
Ma, al di là del caso Iran, rimane il fatto che la Cina spende ogni anno circa 350 miliardi di dollari per comprare le materie prime di cui ha bisogno, a cominciare ovviamente dal petrolio. Perché la sua compravendita sia possibile, deve poter incassare e spendere dollari. L’ostilità statunitense, in tal senso, è un duplice problema per i cinesi. Da un lato gli Stati Uniti comprano ogni anno dai cinesi prodotti per quasi 500 miliardi. Dall’altro questi pagamenti sono regolati dal sistema bancario che scambia dollari, l’accesso al quale, di conseguenza, è vitale per la Cina. Sottrarsi a questo giogo, che è innanzitutto finanziario, non è per niente semplice anche per la circostanza che la valuta cinese non è ancora pienamente convertibile.
E questo è il punto saliente. La banca centrale australiana – l’Australia è un partner commerciale significativo per la Cina – ha dedicato di recente uno studio all’internazionalizzazione dello yuan, arrivando alla conclusione che la valuta cinese sia ormai pronta a emergere come valuta di peso regionale. Ovviamente “un maggiore uso dello yuan a livello internazionale potrebbe accompagnare l’apertura del conto capitale e la riforma del mercato finanziario in Cina”, spiega la banca. Proprio l’Australia sarebbe il primo paese anglofono a “attrarre anche un maggiore volume di flussi finanziari dalla Cina”. “Uno yuan più internazionalizzato dovrebbe assumere un ruolo più prominente nelle transazioni economiche e finanziarie australiane”, osserva la banca.
Se mai succederà che lo yuan sia libero di fluttuare e di circolare, quindi, il gioco multivalutario non sarà più soltanto un astruso passatempo da specialisti. Oltre all’euro, che già è una realtà consolidata, ci sarebbe un notevole aumento dell’uso internazionale della moneta cinese favorito proprio dalla grande voracità di materie prime di Pechino. La Cina, che ha già quotato in valuta nazionale molte commodity e ha lanciato anche un future sul petrolio che ha dimostrato di funzionare bene, avrebbe uno strumento in più per convincere i suoi venditori di materie prime (che sono russi, centroasiatici, mediorientali, australiani e africani) ad accettare lo yuan come moneta di pagamento, forte del fatto che è una grande consumatrice di materie prime e una grande creditrice di molti di loro. Le cronache hanno riportato di recente di un accordo Cina e Pakistan per usare lo yuan invece del dollaro nei pagamenti bilaterali. E in Africa la valuta cinese ormai è ospite fissa delle riserve valutarie di moltissime banche centrali.
Complessivamente l’uso della valuta cinese per i pagamenti transfrontalieri, secondo quanto riferito di recente dal presidente della Bank of China, Liu Liange, al China International Import Expo di Shangai, “è arrivato a 4,26 trilioni di yuan nei primi tre mesi del 2018, il 60% in più rispetto allo stesso periodo di un anno fa”. Con uno yuan convertibile e l’euro ampiamente rodato dai mercati la sfida al dollaro sarebbe molto più che un’ipotesi. Sarebbe nei fatti. E l’Europa dovrà scegliere da che parte stare. Che vuol dire anche decidere con quale valuta pagare le proprie importazioni. Soltanto allora scopriremo se il tramonto del dollaro coincide con quello della globalizzazione. O se, semplicemente, ne prepara un’altra. Come è accaduto in un altro secolo con la fine dell’egemonia della sterlina.