Negli ultimi mesi, sia in Nord Africa che nel Vicino Oriente è stata messa in opera una simile operazione di rinnovamento legislativo per migliorare la condizione delle donne; in special modo, l’obiettivo concreto era quello di abrogare vecchie leggi che consentivano al colpevole di uno stupro di sfuggire la pena sposando la propria vittima. A partire dal 26 luglio 2017 queste leggi sono state revocate dai parlamenti di Tunisia, Libano (1 agosto), e infine Giordania. Grande rilevanza mediatica, nello stesso periodo, ha avuto la fine del divieto di guidare un’automobile per le donne saudite firmato da re Salman alla fine di settembre 2017.
Ad un primo sguardo, i nuovi provvedimenti hanno fatto pensare ad una svolta “femminista” di alcuni leader, impegnati nel cambiare uno dei cardini sociali dei loro stati e dei loro regimi, magari allo scopo di influenzare tutto l’assetto politico della regione. Con un’analisi più attenta però si possono mettere in luce tutte le contraddizioni che hanno portato a tali innovazioni legislative, spesso in effetti utilizzate strumentalmente per mettere in sordina altri, insidiosi conflitti interni. Senza tuttavia dimenticare che, quali che siano le motivazioni reali del cambiamento, è sempre positivo che la legislazione di un paese compia passi in avanti in tema di diritti civili.
Il quadro mediorientale offre, da questo punto di vista, un panorama piuttosto omogeneo. In quasi tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo le donne non godono delle stesse libertà politiche e sociali degli uomini. Le famigerate leggi sullo stupro che permettono il matrimonio riparatore risultano ora abrogate, appunto, in Libano, Giordania e Tunisia (oltre che in Marocco già dal 2014), ma sono ancora in vigore nella vicina Libia. In Algeria, alla fine del 2016, è stato finalmente stabilito il principio che la violenza contro le donne è un reato, creando così le condizioni normative per perseguire la violenza domestica e in generale quella di genere. Con un dossier pubblicato agli inizi del 2015, Middle East Eye riporta che nel solo 2014 in Algeria la polizia giudiziaria aveva ricevuto 7000 denunce di violenze domestiche, che ogni anno causano la morte di un numero stimato tra 100 e 200 donne. Non è stato questo l’unico progresso, dal punto di vista della legislazione: l’introduzione di quote rosa nelle liste elettorali in Algeria e Tunisia ha rappresentato un passo in avanti importante sul piano politico-culturale. Un altro esempio positivo da ricordare – in un contesto assolutamente patriarcale – è la fine del divieto per le donne saudite di guidare.
Tuttavia, molti di questi progressi nascondono in realtà una doppia chiave di interpretazione. Sono spesso portati avanti, dalle classi dirigenti al potere, allo scopo di mettere in difficoltà i rispettivi oppositori politici, rinfrescando regimi illiberali con un’ipocrita facciata di ‘modernità’.
La Tunisia e l’Egitto, con le dovute differenze, sono due esempi in cui l’apparenza “femminista” della legislazione tende a tramutarsi in uno strumento repressivo del dissenso.
La situazione è sicuramente più grave in Egitto, benché le organizzazioni che lottano per i diritti delle donne vi siano una realtà consolidata fin dalla metà degli anni Novanta. Uno studio pubblicato dalla Fondazione Thomson Reuters nel 2013 (che prendeva in esame 22 paesi di lingua araba) eleggeva l’Egitto come peggiore paese in cui vivere sul piano dei diritti delle donne; le egiziane godono di un formale diritto di accesso alla vita pubblica, ma restano largamente sottorappresentate. Un’offensiva repressiva contro queste organizzazioni, finite nel mirino del governo di Al-Sisi come “ong finanziate dall’estero” e quindi accusate di complottare contro il governo, si è avuta all’inizio del 2017.
Più sfumata la situazione in Tunisia, Paese che di recente ha varato leggi di emancipazione femminile. Negli ultimi mesi del 2017 il Presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, dopo aver abrogato le leggi sulla violenza sessuale, ha dato il via libera all’abolizione del divieto di matrimonio interreligioso per le donne tunisine e ha anche promesso una più ampia revisione delle leggi sull’eredità, che vedevano la donna in posizione sfavorevole nei diritti di successione rispetto all’uomo.
Bisogna però ricordare che l’anziano presidente – con una lunga carriera politica alle spalle sia sotto il presidente Bourguiba che sotto il deposto dittatore Ben Ali – aveva promesso ben più ampie riforme economico-sociali, come il graduale passaggio di potere dal governo centrale alle realtà locali. Queste riforme, che avrebbero comportato un vero cambiamento nella politica e nell’amministrazione tunisina, sono state accantonate; in loro assenza, le leggi per le donne hanno assunto la funzione di contentino per l’opinione pubblica.
Le elezioni municipali in Tunisia, che per molti osservatori rappresenterebbero il vero elemento di discontinuità rispetto alla corruzione e alla connivenza della politica del passato pre-rivoluzionario, vengono ormai rinviate di continuo, con nuove date fissate e mai rispettate. Ultima scadenza decisa: marzo 2018. Una campagna dal nome “Parfait”, cofinanziata da l’Unione Europea e il ministero tunisino per le Donne, la famiglia e l’infanzia, è stata lanciata alla fine di novembre 2017, per incoraggiare la partecipazione delle donne alle municipali (se ci saranno). In realtà, per alcuni analisti, queste mosse del presidente e della sua cerchia – di cui fa parte il ministero per le Donne – sono mirate a mettere in difficoltà gli islamici moderati di Ennhada, che controllano i dicasteri più importanti del governo, più che all’avanzamento della causa femminista.
In questa chiave – destabilizzare la posizione di Ennhada, partito uscito vincente dalla rivoluzione tunisina – si potrebbero interpretare anche le recenti mosse degli Emirati Arabi Uniti che hanno raffreddato le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Il tentativo sarebbe quello di favorire quelle forze tunisine nei media così come nel partito Nidaa Tounes del presidente Essebsi, che sono più vicine alle posizioni politiche “anti-islamiste” degli Emirati. Gli Emirati hanno vietato l’imbarco sui voli della propria compagnia di bandiera, Etihad, e di transitare nel proprio territorio alle donne tunisine, a seguito di una informativa dei loro servizi di sicurezza su una possibile minaccia terroristica.
L’ipotesi di legame diretto tra donne e terrorismo era stata già usata per limitare la libertà di circolazione nell’est della Libia dove, nel febbraio 2017, le autorità militari da Derna a Ben Jawwad avevano vietato alle donne sole di meno di 60 anni di viaggiare da sole – a causa di presunti legami tra “le donne” e i servizi di intelligence stranieri. La situazione delle donne libiche non è migliorata dopo la caduta di Muammar Gheddafi, il cambio di regime e la guerra civile. In molti lamentano addirittura un peggioramento, senza per questo dover rimpiangere il defunto dittatore.
Per molti osservatori la guerra civile è un facile pretesto per dimenticare la condizione femminile nel paese. Sebbene la dichiarazione costituzionale del 3 agosto 2011 assegni loro una rappresentanza parlamentare del 25%, le donne libiche occupano solo il 17% dei seggi. La situazione è più difficile nell’est del paese e nella città di Sirte, zone finite sotto l’occupazione dello Stato Islamico tra il giugno 2015 e il dicembre 2016, dove le donne hanno subito il divieto di circolare liberamente e l’imposizione di un codice di abbigliamento.
Spesso la cosiddetta “questione femminile” è vista nel mondo arabo come un tema accessorio, e alcuni avanzamenti legislativi nascono soprattutto da un contesto di opportunismo politico. Ma non bisogna sottovalutare l’importanza intrinseca delle riforme. Cambiare le leggi di successione in Tunisia o dare la possibilità di guidare alle donne saudite sono atti che possono col tempo mutare i rapporti di forza all’interno della società e favorire quei cambiamenti che in molti auspicano, sia in nome dei diritti e dell’uguaglianza, sia per gli equilibri socio-politici della regione e il contesto internazionale.