Le elezioni europee non hanno sdoganato quella marea “sovranista”, principalmente di estrema destra, che molti osservatori paventavano. La maggioranza degli elettori ha scelto forze pro-integrazioniste, che credono nell’Unione Europea come strumento per il raggiungimento degli obiettivi di convivenza e benessere. Non solo: queste elezioni hanno visto un’affluenza generalmente in crescita, con una partecipazione giovanile senza pari negli ultimi vent’anni. Sono i giovani – soprattutto – che hanno regalato ai Verdi risultati mai raggiunti prima, tirando la volata alla componente tedesca che, con il 20%, ha sorpassato i socialisti dell’SPD affermandosi come seconda politica forza del paese. Forse non è un caso che si sia trattato delle prime grandi elezioni dopo l’apparizione sulla scena mediatica di Greta Thunberg.
Paragonabile al successo dei Verdi è quello del raggruppamento liberale che, nel nuovo gruppo guidato da Emmanuel Macron, conterà oltre cento eurodeputati. Autoproclamatisi “ago della bilancia”, potranno in effetti giocare un ruolo importante negli equilibri del prossimo Parlamento e nella partita delle nomine.
I popolari e i socialisti si sono riconfermati – rispettivamente – prima e seconda forza dell’europarlamento. I partiti del PPE hanno compensato il calo nei paesi occidentali con un buon risultato in Europa centro-orientale, mentre la frana dei consensi dei partiti social-democratici ha subito una battuta d’arresto. La via intrapresa dal premier spagnolo Pedro Sánchez, fresco di elezioni vittoriose in patria, e dal PS portoghese, entrambi vincitori nei rispettivi paesi, fornisce anche indicazioni per uscire dalla crisi – identitaria, concettuale e di elaborazione, prima che elettorale – che ha caratterizzato i progressisti europei nelle ultime due decadi almeno.
In totale, le forze convintamente europeiste possono contare su circa 500 dei 751 seggi. Il fronte sovranista-euroscettico si presenta poi tanto articolato quanto diviso. La Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen saranno gli attivisti di maggioranza di un gruppo di estrema destra (ENL), il PiS che governa la Polonia si trovano in quello dei nazionali-conservatori (di cui entreranno a far parte lo spagnolo Vox e Fratelli d’Italia) e Viktor Orbán – di nuovo geloso del suo posto nel PPE, dopo aver visto i risultati elettorali – si è affrettato a gelare Matteo Salvini: “nessuna alleanza in Europa”. Infine, sembrerebbe proprio che Nigel Farage – autore di un vero capolavoro politico col suo Brexit Party – voglia rimanere in un gruppo autonomo. Al di là degli slogan, all’interno della compagine sovranista pare assai difficile la composizione degli interessi nazionali su temi quali economia e migrazione.
Business as usual quindi? Assolutamente no, solo un’analisi grossolana può portare a questa considerazione.
Intanto, per la prima volta, la maggioranza del Parlamento europeo non può fondarsi sulla storica Grosse Koalition tra popolari e socialisti, che saranno costretti a includere i liberali, e forse anche i Verdi. La Brexit indebolirebbe infatti i gruppi liberale e socialista, mentre l’uscita di Orbán indebolirebbe i popolari: la maggioranza a tre, già risicata, lo diverrebbe ancora di più. Il prezzo dell’ingresso dei Verdi in maggioranza sarebbe – nelle parole di Philippe Lamberts, co-presidente dei Verdi europei – un segno di discontinuità nell’impostazione di tutta la politica europea, segnato da transizione ecologica e giustizia sociale.
C’è un’altra prima volta: non è solo attorno al centro che si potranno costruire accordi parlamentari. Sia a sinistra che a destra ci sarebbe (e forse ci sarà) la tentazione di costruire maggioranze alternative o di usare questa minaccia per tentare di influenzare la legislazione europea – il cui esito sarà in ogni caso molto meno scontato e prevedibile che in passato. Ma mentre una coalizione delle destre è resa praticamente impossibile dai numeri, l’”alleanza progressista” dalla sinistra radicale ai liberali è un’opzione numericamente possibile, anche se poggiata su numeri ristretti, già lanciata dallo Spitzenkandidat socialista, l’olandese Frans Timmermans, e fortemente sostenuta anche dal premier greco Alexis Tsipras, punto di riferimento del gruppo della sinistra radicale.
Il risiko delle nomine
La maggioranza parlamentare si interseca infatti con le nuove cariche da definire. Oltre al Presidente del PE, sono in ballo altre quattro poltrone fondamentali: Presidente della Commissione e Alto rappresentante, Presidente del Consiglio europeo e della BCE (il mandato di Draghi scadrà il 31 ottobre). Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk (PPE), intende considerare i diversi incarichi come parte di un pacchetto unico, in modo da mantenere un bilanciamento politico, geografico e di genere. Il match preliminare svoltosi il 28 maggio durante la cena tra capi di Stato e di governo ha testimoniato che non sarà una partita facile né breve.
L’esponente della CSU bavarese Manfred Weber è il candidato del gruppo più numeroso, appunto quello popolare, ma a Macron, forte della pattuglia liberale in Parlamento, sono invisi tanto il sistema dello Spitzenkandidat – su questo fa asse addirittura con il gruppo di Visegrad -, quanto il politico bavarese. E la smentita tardiva dell’idea di un’alleanza organica del PPE con le forze alla sua destra non permetterà certo a Weber di recuperare il sostegno del Presidente francese. Anche nel Consiglio europeo le proporzioni giocano a favore di quest’ultimo: nove esponenti liberali, nove popolari e cinque socialisti. Benché ancora la Merkel non abbia fatto mancare il sostegno ufficiale del PPE alla sua candidatura, a Weber viene ormai attribuita – al più – l’opportunità di guidare il Parlamento europeo.
Ancora una volta sarà decisiva la dialettica tra le due sponde del Reno. Da Parigi Macron punta a imprimere un rinnovamento alla strategia politica dell’UE dei prossimi anni. Rinnovamento alla francese a cui Angela Merkel, guardiana dell’attuale assetto istituzionale e del consenso alle politiche europee made in Berlin, guarda con sospetto.
Per ribadire la centralità del Parlamento nella partita, però, il 29 maggio la Conferenza dei presidenti dei gruppi politici ha emesso una dichiarazione che rifiuta nei fatti l’idea di una nomina automatica a Weber perché nasconde un via libera, oltre che al politico bavarese, anche a Timmermans (che della Commissione è già vice presidente), e alla liberale danese Margrethe Vestager, attuale commissario europeo alla Concorrenza. Fuori dai giochi sembrerebbe invece, sulla base del testo, il francese Michel Barnier, negoziatore capo per la Brexit, a lungo ritenuto il vero candidato popolare, in quanto avrebbe l’avallo di Macron.
Il presidente francese pare voler approfittare fino in fondo del ruolo di kingmaker che i risultati del voto gli consentono. Macron sembra, in questa fase, più propenso ad un’alleanza progressista, che promuoverebbe Timmermans (o, in seconda battuta, Vestager), in alleanza con Pedro Sánchez. Per costruirla, i due hanno avuto già molti incontri e hanno organizzato un pranzo a cinque a cui sono stati invitati il premier socialista portoghese António Costa e i premier liberali olandese e belga Mark Rutte e Charles Michel. Un pranzo che Merkel pare non aver affatto apprezzato. Un accordo “dai liberali all’estrema sinistra” (il virgolettato è di Tsipras) è certamente complicato, per via delle posizioni dell’estrema sinistra spesso all’opposizione di socialisti e liberali negli ultimi anni, e per la riluttanza di alcuni Verdi (francesi soprattutto) ad un’alleanza con i liberali. Ma non è da escludersi completamente uno scenario in cui il prossimo Presidente della Commissione non sia espressione del principale gruppo politico. Molto più difficile è che il PPE venga davvero tagliato fuori dalla maggioranza.
In ogni caso, se il PPE dovesse davvero perdere la Presidenza della Commissione, ai popolari toccherebbe oltre alla Presidenza del Parlamento (si è detto di Weber) con tutta probabilità anche la carica di Alto rappresentante. A succedere a Federica Mogherini, dunque, non potrebbe essere Josep Borrell, socialista e attuale ministro degli Esteri spagnolo, potenziale candidato.
Merkel pare aver smentito le voci che la davano interessata alla Presidenza del Consiglio europeo. Per questa carica sembrerebbero oggi in lizza la lituana Dalia Grybauskaitė (ex Commissaria europea al Bilancio, indipendente) e Mark Rutte.
La vulgata vuole poi che la Germania miri alla presidenza della Banca centrale. Un tedesco a Francoforte, però, paradossalmente, rischierebbe di limitare il margine di manovra del suo Stato, perché sarebbe costretto al compromesso tra le istanze dei banchieri centrali, privandosi della possibilità di criticare eventuali misure espansionistiche. Potrebbero beneficiare di questa situazione il governatore della Banca di Francia François Villeroy o quello finlandese, Olli Rehn (già Commissario europeo per dieci anni con Barroso).
L’Italia oggi esprime tre delle cinque cariche: oltre a Mogherini, Antonio Tajani al Parlamento e Mario Draghi alla Banca Centrale. Ma il nostro paese stavolta si avvia ad essere tagliato fuori dai giochi che contano. Nessuno dei due partiti al governo a Roma è apparentato con uno dei gruppi-chiave per decidere le nomine nell’Unione. Tanto meno nessun politico italiano è oggi nella posizione di determinare gli indirizzi di quei gruppi e trasformare la propria influenza in posizioni di potere nelle istituzioni europee, come invece accade al francese Macron o allo spagnolo Sánchez.
L’imperativo del cambiamento
Proprio da Sánchez, come si è accennato, potrebbero arrivare buone notizie per tutte le forze progressiste europee. In Spagna la sinistra è tornata ad affrontare di petto i temi sociali – a lungo ritenuti ancillari e fatalmente perdenti di fronte alle necessità del mercato – riappropriandosene quando in tutta Europa (ad esclusione del Portogallo) la destra estrema avanzava facendoli suoi. Questi sono infatti stati abbandonati a lungo dalle forze socialiste e social-democratiche in generale per subalternità culturale al dogma della globalizzazione, e in Europa per l’incapacità di opporsi all’ordo-liberalismo tedesco.
Angela Merkel – che ha governato invece la Germania compiendo anche scelte coraggiose – ha retto praticamente da sola il peso dell’Europa per un ventennio garantendole stabilità, è vero. Ma una stabilità che si è tradotta in un sostanziale, timoroso immobilismo nelle scelte politico-economiche; e ciò avveniva proprio di fronte a grandi cambiamenti economici e sociali in tutto il mondo, mentre vicino ai confini europei Africa e Medio Oriente entravano in una fase di grande instabilità, con evidenti ed inevitabili ripercussioni su questa sponda del Mediterraneo. Il paradigma dell’austerity è oggi messo in discussione a tutti i livelli, ma già nel 2013 Christine Lagarde, direttrice dell’FMI, aveva affermato che sulla questione greca erano stati fatti molti errori ed imposte condizioni troppo severe. Ancora, Juncker ha ammesso recentemente che la Germania ha violato il Patto di stabilità 18 volte, senza che le sia mai stata minacciata né imposta alcuna sanzione – un trattamento non certo uguale a quello riservato alla stessa Grecia, o alla Spagna, o all’Italia. Inoltre il surplus commerciale tedesco, invece che servire da spinta per l’economia europea – nella logica inaugurata con l’istituzione dei fondi strutturali – ha finito per scavare solchi sempre più profondi dentro l’UE mettendone a rischio la coesione economico-sociale.
La responsabilità principale è però di chi non ha saputo contrastare questa impostazione, fallendo nell’impegno per un’Europa sociale e solidale costruita sulla base di un disegno strategico. Anche la questione migratoria – benzina sul fuoco dei sovranisti – è stata per troppo tempo elusa, o trattata come una questione di mercato – ricordiamo l’accordo con la Turchia, alla quale l’UE ha versato 6 miliardi di euro per “fare il lavoro sporco” e bloccare la rotta balcanica dei migranti.
Proprio a Merkel, Barack Obama, al termine del suo secondo mandato presidenziale, aveva affidato la fiaccola di “guardiano della democrazia liberale”. In Europa però non si è visto nulla di paragonabile alla spesa pubblica promossa dal leader statunitense in investimenti e welfare per correggere gli effetti della crisi e rilanciare l’economia e il sistema USA.
Di questo, di politica e di progettualità (che tenga conto delle trasformazioni della nostra epoca e dei rischi per il nostro pianeta) ha bisogno l’Europa, ed è questo che i cittadini hanno chiesto andando alle urne. La classe politica europea dovrà saper rispondere, e rispondere a tono.