Democrazia digitale: chi ci rappresenta davvero?

I cambiamenti sociali si possono affrontare solo se si creano un clima e un’identità collettiva che diano significato alle iniziative messe in atto. Se una comunità non ha una sua identità e un senso di appartenenza forte, sia che si faccia una riforma fiscale, sanitaria o magari del lavoro, tutti i provvedimenti presi rischiano di non durare nel tempo.

Oggi è molto difficile trovare leadership nuove che abbiano le conoscenze e le capacità per favorire cambiamenti di tipo profondo e duraturo. Assistiamo a moltissimi modelli di quella che si potrebbe chiamare “autorganizzazione” di fasce significative della popolazione: gruppi di individui si sostituiscono a quelli che dovrebbero essere gli organismi di governance, organizzando iniziative concrete a beneficio della collettività e combinando insieme, come direbbe Clay Shirky, nuove tecnologie e generosità umana. Vengono utilizzate le varie piattaforme di internet, ma anche quella “economia del dono” e quel senso di comunità che le tecnologie hanno risvegliato in noi in modalità virtuale, ma che oggi sempre più spesso diventano reali e concreti nella risoluzione dei problemi.

In India, la città di Gurgaon (circa 170.000 abitanti, nei pressi di Nuova Delhi) è un esempio interessante di autorganizzazione. È un caso concreto di come le persone possono generare sviluppo nonostante le disfunzioni governative. Questa città possiede 26 centri commerciali, negozi di lusso, 7 campi da golf, ma non possiede un sistema di fognature funzionante, né acqua potabile e marciapiedi pubblici, così come strade dignitose e mezzi pubblici decenti. Ma la presenza dei negozi e delle auto di lusso la fanno considerare una sorta di “New India”. È stata definita, in modo lucido e sintetico, contemporaneamente un microcosmo di dinamismo indiano e di disfunzioni.

Gurgaon è caratterizzata da mancanza di servizi pubblici, da estesa corruzione ed inefficienza governativa. Nonostante tutto ciò, i settori privati insieme ai suoi cittadini si sono impegnati per cambiare la città: così, per sopperire all’assenza dell’acqua sono stati attivati dei pozzi d’acqua privati; per garantire il trasporto pubblico sono stati messi a disposizione più di 100 bus e taxi privati; per combattere il crimine si sono create delle agenzie private di sicurezza. Aziende come Infosys e Wipro hanno messo a disposizione della città i loro generatori di energia. Quest’impegno ha fatto si che Gurgaon sia diventata uno dei distretti indiani in più rapida crescita.

Casi come questo suggeriscono che la democrazia sta oggi attraversando una fase assolutamente nuova. Da una parte, quella classica e “rappresentativa” è profondamente in crisi a causa di una burocratizzazione che le impedisce di essere efficiente e che a volte si intreccia con la disonestà e l’inefficacia dei suoi rappresentanti. Dall’altra, la nuova dimensione tecnologica offre ai cittadini la possibilità di disintermediare i processi di rappresentanza e di andare diretti al cuore dei problemi tentando di risolverli in prima persona.

Un altro esempio importante in questo senso l’abbiamo avuto nel 2008 con le vicende dell’Islanda, dunque in Europa: l’esperienza dell’isola è stata definita “una rivoluzione silenziosa e gentile”, che ha portato gli islandesi a far dimettere il governo e a formare un’assemblea costituente per riscrivere la costituzione. L’Islanda, nei precedenti 15 anni di crescita economica, si presentava come uno dei paesi più ricchi del mondo, ma la crisi del 2008 fece crollare l’economia della nazione e il suo modello di “neoliberismo puro”.

Fu in questo clima di depressione che i cittadini presero coscienza del problema e con coraggio diedero vita a una partecipazione attiva sulle scelte governative, attraverso un metodo innovativo: venne eletta un’assemblea costituente composta da 25 cittadini – scelti, tramite regolari elezioni, da una base di 522 che avevano presentato la candidatura. Per candidarsi era necessario essere maggiorenni, avere l’appoggio di almeno 30 persone e non essere tittolari della tessera di un qualsiasi partito. Ma la vera novità fu il modo in cui era stata redatta il nuovo documento costituzionale, quasi una nuova Magna Charta per il XXI secolo. “Io credo – disse Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio costituente – che questa sia la prima volta in cui una costituzione viene abbozzata principalmente in Internet”. I lavori dell’assemblea venivano in effetti trasmessi in streaming e i cittadini potevano intervenire in qualsiasi momento con proposte e domande. Non più quindi stanze del potere chiuse e buie ma aperte a tutti.

È importante sottolineare come la trasparenza possa servire a migliorare i sistemi tradizionali su cui poggiano i governi e ad avere maggior supporto e fiducia da parte dei cittadini. Le strutture governative, cioè, accrescono la propria legittimità sostanziale aprendosi alla partecipazionee e alla condivisione con i cittadini. A questo proposito, Don Tapscott e Anthony Williams hanno delineato nel loro libro “Macrowikinomics” cinque criteri da cui partire:

  1. Creare una cultura della trasparenza
  2. Costruire piattaforme per la partecipazione
  3. Promuovere il dialogo e il miglioramento continuo
  4. Proteggere il pubblico interesse
  5. Organizzare l’azione collettiva nell’industria.

Nel suo ultimo libro “Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico”, David Van Reybrouck suggerisce addirittura di abolire le elezioni tradizionali e di selezionare i componenti delle assemblee legislative tramite sorteggio, per combattere la tendenza registrata negli ultimi anni di una sfiducia nelle classi politiche e di un sempre maggiore astensionismo.

La sua proposta è avvalorata da cinque esempi fra i molti processi partecipativi di questi ultimi anni, che si distinguono, perché più audaci, determinanti per gli effetti e di portata nazionale: due casi in Canada, uno in Olanda, uno in Islanda e uno in Irlanda. Come sostiene il giornalista e ricercatore belga, “Tutti hanno avuto luogo nell’ultimo decennio; tutti hanno ottenuto un mandato temporaneo e un budget considerevole dalle autorità pubbliche; tutti hanno riguardato questioni estremamente importanti, come la riforma della legge elettorale o perfino della Costituzione. Si era proprio nel cuore della democrazia. Queste iniziative avevano tutt’altra dimensione rispetto a quelle che miravano a far discutere i cittadini di eolico o di pannocchie”.

La semplice idea di Van Reybrouck è chiedere ai cittadini di esprimere un parere dopo un’esplorazione congiunta, una discussione e l’acquisizione del parere di esperti; un metodo che ricorda le sperimentazioni sulle “cellule di pianificazione” dello studioso James Fishkin, autore del volume del 1995 “The Voice of the People: Public Opinion and Democracy” (Yale University Press). A partire dal 1988, Fishkin aveva cercato di introdurre elementi di autentica deliberazione popolare nel meccanismo elettorale americano, mettendo alla prova i candidati in un modo del tutto nuovo.

Come dice ancora Van Reybrouck, il XXI secolo conta un grande numero di democrazie – secondo i calcoli più accreditati ben 117 democrazie elettive, di cui 90 “effettive”, su un totale di 195 Paesi; ma altrettanto grande è la crisi di fiducia provata dai cittadini nei confronti delle istituzioni, quasi ovunque nel mondo.

Oggi è dunque possibile mettere in atto forme di democrazia diretta, senza gettare totalmente alle ortiche le istituzioni consolidate della democrazia moderna? Senz’altro sì dal punto di vista tecnico, ancora no in termini legislativi e di processi istituzionali. Ma se i governi non sapranno quanto prima diventare loro stessi protagonisti di un nuovo modo di governare, allora rischiano seriamente di veder svuotata la propria funzione; e in questo caso vedremo emergere nuove forme di democrazia volte soprattutto alla risoluzione dei problemi di base delle varie comunità.

 

 

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