[L’articolo di Marta Dassù sulla relazione tra democrazia, stato-nazione e globalizzazione]
[La risposta di Paolo Savona]
[Il commento di Andrea Montanino su un’integrazione europea selettiva]
[Riccardo Perissich sulle soluzioni pragmatiche al “trilemma”]
Decoupling, letteralmente “disaccoppiamento”, è ormai parola corrente in molti ambiti della politica internazionale. Negli ultimi anni, è stata utilizzata dall’Economist per definire la crescita sostenuta dei paesi in via di sviluppo e contrapporla al vistoso rallentamento dell’Occidente. Nel pieno della crisi, il termine è stato spesso utilizzato per descrivere il funzionamento asimmetrico delle grandi piazze finanziarie.
Oggi questa parola tende ad assumere un significato ancora più generalista. In molti sostengono che la marea della globalizzazione – sincronizzando sempre di più i mercati mondiali – sembra portare un crescente divaricamento, un decoupling appunto, fra le due sfere della politica e dell’economia. A livello nazionale, la prima non sembra più capace di dirigere la seconda e, viceversa, l’andamento dell’economia non sembra più determinare la dinamica elettorale, quantomeno nelle democrazie avanzate.
Il populismo nazionalista, che credevamo essere una semplice malattia figlia della crisi, si sta affermando anche nei paesi che hanno retto meglio l’impatto della congiuntura negativa, come la Germania, dove i cristiano democratici sono stati superati a destra dall’AfD nelle elezioni regionali del Meclemburgo. Negli Stati Uniti, il fenomeno Trump interviene, paradossalmente, nel momento in cui i massici interventi dell’amministrazione Obama sembrano finalmente restituire una ripresa economica duratura.
Da ultimo, è il caso spagnolo a mostrare un profondo scollamento fra politica ed economia. Madrid è da più di otto mesi senza un esecutivo centrale in grado di legiferare. A fine agosto, per la seconda volta, popolari e socialisti, i liberali di Ciudadanos e gli anti-sistema di Podemos, non sono riusciti a trovare la quadra per formare un nuovo governo. Si parla di nuove elezioni, ma non prima di dicembre. Ma nonostante la grave impasse politica, l’economia spagnola continua ad avere una crescita sostenuta. I tassi di rendimento sui titoli di stato sono ai minimi storici e per fine anno si prevede una crescita del 3% del PIL, ben al di sopra di quella degli altri grandi paesi europei.
Il dato disorienta i sostenitori dell’idea che la stabilità istituzionale sia una precondizione essenziale per lo sviluppo economico. Infatti, malgrado il caos politico, la fiducia degli investitori è rimasta solida, come se l’impossibilità del governo di intervenire avesse creato, nel breve termine, un contesto di regole favorevole allo sviluppo di mercato. Non sono in pochi a tessere le lodi di questa sorta di “anarco-capitalismo” tanto simile alle utopie del libertarismo radicale di certi intellettuali americani come Murray Rothbard.
Ad un’analisi più approfondita, però, sono molti i fattori contingenti che contribuiscono a spiegare le fortune della Spagna: il boom dei consumi interni si alimenta di un contesto internazionale caratterizzato dai bassi prezzi energetici che si traduce in un bonus significativo per un paese altamente dipendente dalle importazioni. Non manca, poi, chi sottolinea il perdurante effetto delle riforme introdotte nel recente passato dai popolari di Mariano Rajoy che hanno incrementato la flessibilità in uscita del mercato del lavoro. Tuttavia, è altrettanto unanime fra gli esperti il giudizio che questa situazione non può continuare a rimanere invariata. Dal punto di vista fiscale, lo stato Spagnolo procede con “il pilota automatico” dall’inizio dell’anno e per il 2017 dovranno essere implementati dei tagli per restare all’interno dei parametri europei, pena l’apertura di una procedura di infrazione che peserebbe come un macigno sull’economia spagnola. Malgrado l’euforia, quindi, il ruolo del potere esecutivo resta imprescindibile per rafforzare le basi dell’economia.
Ciò non vuol dire che il decoupling non sia un fenomeno reale e di importanza crescente. L’idea che sia possibile governare – nel bene o nel male – il volano della crescita economica solo a livello nazionale è illusorio, come è illusorio pensare che la politica sia determinata unicamente dai livelli di sviluppo dei singoli paesi. Il caso spagnolo non deve però farci dimenticare che esiste ancora uno spazio importante per il potere esecutivo dei singoli stati per intervenire a mediare fra più piani, quelli della politica e dell’economia. Il rischio è quello di cadere in trappole analitiche che ci impediscono di leggere la situazione delle forze in campo. Ancora pochi anni fa, il Belgio era lodato come isola felice dell’assenza di governo; dopo i sanguinosi attentati di Parigi di quest’anno, ci si è invece affrettati a dichiararlo un instabile stato fallito.
La dimensione esecutiva del potere statale rimane quindi centrale, e non soltanto dal punto di vista securitario. Un’economia nazionale lasciata senza redini può dimostrare un alto dinamismo di mercato sul breve periodo – come dimostra il caso spagnolo – ma una macchina amministrativa funzionante resta essenziale per garantire la stabilità macroeconomica e l’efficienza del settore privato sul medio termine. Senza arrivare a scomodare lo “stato imprenditore” di Marianna Mazzuccato, esiste ancora un ampio spazio di intervento per le politiche governative per orientare e tutelare l’ingrediente più importante per le economie a capitalismo avanzato: l’innovazione.