A fronte delle conseguenze “sistemiche” a seguito della morte di George Floyd, il 25 maggio a Minneapolis, Minnesota, si possono scegliere diversi punti di vista per ricontestualizzare ciò che ha portato a proteste così diffuse: il riemergere carsico del movimento Black Lives Matter, gli effetti politici sulla campagna elettorale e le leadership politiche, la percezione del ruolo della polizia nella società americana, le prime riforme della polizia nel livello locale (una reazione immediata delle istituzioni a quanto sta accadendo). In ogni caso, è necessario analizzare motivazioni contingenti e altre di lungo periodo. Qui ne elenchiamo solo tre.
La prima: la pandemia aveva già esacerbato, sebbene in modo sotterraneo, la frustrazione della comunità afroamericana: i neri si ammalano, muoiono e perdono il lavoro con percentuali molto superiori a quelle della popolazione bianca. Il tema è stato discusso e messo in evidenzia da tutti i media e dalle leadership afroamericane, a sottolineare il razzismo strutturale della società americana; le ragioni di questa disparità sono frutto della diseguaglianza fra le comunità nell’accesso ai servizi sanitari, al telelavoro, persino alla possibilità di muoversi con mezzi privati evitando i così i contatti sociali, etc.
Seconda motivazione: la polizia americana affronta una crisi di sistema. Terza, e strettamente collegata: questa crisi di sistema ha diverse origini, ma la variabile di un rapporto strutturalmente e storicamente sbagliato fra la polizia e le comunità afroamericane – soprattutto dei centri urbani, ma non solo – è stato il detonatore della crisi in atto. Ci occuperemo qui di questa ultima questione, complessa già di per sé.
Razzismo e polizia, radici lontane
Gli intellettuali, i leader e i movimenti afroamericani, nelle settimane successive alla morte di Floyd sono tornati a denunciare l’uso della polizia americana come strumento di regolazione del rapporto fra razze (non solo loro, va detto: non si erano mai visti tanti bianchi alle manifestazioni di Black Lives Matter).
Questa accusa ha prima di tutto un fondamento storico. La storia della polizia americana è una storia relativamente recente, persino per un Paese così giovane: i dipartimenti cittadini delle polizie locali – da Boston (il primo) a New York, passando per Philadelphia e Baltimora – nascono a cavallo della metà dell’Ottocento. Sono caratterizzati da un rapporto molto stretto con la politica che in quelle città significava, molto spesso, contenimento dei newcomers arrivati dal vecchio continente: irlandesi, italiani, slavi. Ciò è vero peraltro ancora oggi: i capi della polizia sono assunti dai sindaci, e l’indirizzo strategico del suo dipartimento è legato alle scelte politiche di un sindaco. Nei quartieri abitati dalle minoranze la polizia ha assunto di frequente comportamenti molto violenti, ed è da sempre nota per gli alti livelli di corruzione: “contenere” quelle aree della città era fonte di consenso e creava posti di lavoro gestiti con modalità clientelari.
Trasferite questo schema nelle città del Sud degli Stati Uniti, sostituite gli immigrati con gli afroamericani, e avrete l’America segregazionista della prima metà del Novecento, quella dei movimenti di Martin Luther King; nella famosa marcia di Selma, in Alabama, nel 1965, la polizia a cavallo utilizzava mazze chiodate contro i manifestanti non violenti, con la compiacenza del sindaco e dei suoi elettori. Aggiungete una lunga tradizione di “milizia popolare” nata per la caccia allo schiavo già nel Settecento (i “paddyrollers”), e troverete le origini di due fenomeni: il Ku Klux Klan e i primi corpi di polizia degli Stati del Sud.
Non stupiamoci se gli afroamericani vedono nella polizia uno strumento di controllo dei bianchi da 400 anni. Ovvero, che vengano accomunati – nell’immaginario nero – gli inseguimenti degli schiavi in fuga, i linciaggi di inizio ‘900 e il pestaggio di Rodney King da parte della polizia, quello che portò ai “riot” di Los Angeles nel 1992.
Diritti civili, conflitti sociali, rendita politica
Dopo il segregazionismo arrivò il Civil Rights Act (a metà degli anni Sessanta) e altre leggi che hanno reso più trasparente e meno arbitrario il comportamento della polizia. E’ evidente che questo non solo non è bastato, ma che la stessa filosofia del law enforcement americano è andata – implicitamente – in direzione opposta. Da una parte sono state prese misure per aumentare la presenza delle minoranze nelle forze dell’ordine e sono state adottate strategie di maggiore controllo dell’azione di polizia (come l’utilizzo di videocamere posizionate sulla divisa di ogni poliziotto in servizio); dall’altra la filosofia del law enforcement ha continuato ad andare in direzione della militarizzazione dei metodi di gestione dell’ordine pubblico. Con ricadute dirette sulla comunità afroamericana.
Se da una parte la richiesta di desegregazione dello spazio urbano da parte delle minoranze portò cambiamenti visibili già alcuni decenni fa, dall’altra i conflitti politici e sociali che l’hanno generata crearono timori nell’elettorato bianco: il riflesso del “law and order” che fu una chiave del successo elettorale di Richard Nixon nel 1968, e una speranza per Trump, che twitta appunto “law and order!” una volta al giorno. Quei timori hanno generato politiche pubbliche e consenso, trainate dall’aumento del tasso di criminalità degli anni ’70. Tolleranza zero, incarcerazioni di massa, aumento delle pene e ipertrofia nell’utilizzo del penale per regolare il disagio sociale, militarizzazione degli apparati di polizia (tramite l’addestramento e l’acquisto di mezzi bellici) e della lotta alla droga. Politiche che hanno finito per coinvolgere soprattutto i quartieri a maggioranza afroamericana e i quartieri poveri della comunità ispanica.
Queste politiche hanno avuto teorie di riferimento: una per tutte quella della “Broken Windows” – elaborata da due scienziati sociali, Wilson e Kelling, nel 1982 – per la quale il disordine sociale è contagioso e si propaga crescendo in modo esponenziale (dalla “finestra rotta” allo spaccio in un battito d’ali).
Tensione permanente
Una città simbolo dell’implementazione di questa politica è stata la New York degli anni Novanta, quella del sindaco Rudolph Giuliani. L’implementazione si è manifestata nell’aumento dei crimini anti-sociali perseguibili penalmente (alcolismo, accattonaggio, il dormire in strada…), tanto che gli arresti per infrazioni lievi, dal ’93 al ’96, passarono da 133mila a 205mila.
La polizia fu organizzata per reagire prontamente nei cosiddetti hot spots, ovvero le zone a maggior concentrazione criminale, anche attraverso la responsabilizzazione diretta dei capi dei commissariati locali (molti arresti negli hot spots come sinonimo di premialità) e politiche aggressive di intervento su strada (il metodo dello stop-and-frisk, “ferma e perquisisci”). I dati delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e civili affermano che queste tattiche siano condizionate dai pregiudizi razziali della polizia: utilizzando sempre New York come caso di riferimento, nel 2019 sono state fermate più di 13mila persone; il 66% è risultata innocente, il 90% era afroamericano o latino (l’uso della pratica dello stop-and-frisk è comunque in forte diminuzione da dieci anni a questa parte; i dati sono stati raccolti dal chapter locale della American Civil Liberty Union). Un dato che fa comprendere come tutto ciò sia motivo di conflitto permanente fra polizia e minoranze.
Nel 2019 – secondo il Washington Post – la polizia ha ucciso più di mille persone. Alcune di queste sono morte sebbene fossero disarmate e un numero limitato di questi interventi – nel corso degli anni – ha generato proteste e conflitti (così è nato Black Live Matters nel 2012). Fino a George Floyd: la sua morte sta portando già ora a modifiche dei sistemi di organizzazione di alcune polizie locali e statali. Questa pare essere, al momento, la vera eredità del movimento nato in questo mese: un cambio di direzione nelle policy di law enforcement di alcune importanti città, di alcuni Stati e persino del Congresso.
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