L’eredità di Nelson Mandela rimane, a un lustro dalla morte, il crocevia del Sudafrica tra passato e futuro. Fattuale e simbolico, questo snodo ha avuto nella vicenda delle dimissioni del Presidente Jacob Zuma (a metà febbraio) una propria plastica rappresentazione.
Zuma lascia il posto a Cyril Ramaphosa (finora vicepresidente), in una successione alla guida del Paese e del suo partito simbolo, l’ANC (African National Congress), che si presta a diverse letture. La prima delle quali, doverosa, è la differenza sostanziale tra il Sudafrica schematico-emotivo che per comodità d’approccio si tende a stilizzare osservandolo dall’esterno, e di contro la complessa dinamica interna fatta di correnti politiche, lobby d’interessi e tensioni etniche. Questi elementi, proprio sfruttando le poderose icone del passato come la figura di Mandela, celano una lotta per il potere che di epico ha poco o nulla.
Infatti, elementi oggettivi sono, comprensibilmente, alla base delle dinamiche di potere attuali; e l’ANC, fondato nel 1912, ha in Mandela il suo emblema ma non la sua espressione univoca. In altre parole, abbiamo Mandela ma il “mandelismo” non è mai nato. E’ stato un capitolo della vita dell’ANC e del Sudafrica all’epoca dell’apartheid e al suo epilogo, ma cronologicamente coincide con l’anagrafe di Mandela stesso.
Queste premesse gettano quindi una luce di estrema concretezza sulla fase di transizione attuale. Un passaggio di poteri che molti commentatori, in questo lasciando intendere la portata per lo meno regionale dell’evento, hanno denominato “Zexit”, cioè Zuma’s exit.
L’ancoraggio alle economie emergenti dei BRIC – divenuti BRICS dopo il 2010 proprio con l’ingresso di Pretoria – alza inevitabilmente la posta in gioco. Se è vero che le traiettorie dei Paesi del club hanno preso direzioni divergenti, il Brasile, forse il più simile al Sudafrica del gruppo, è alle prese con episodi di corruzione capaci di scalzare presidenti in carica e del recente passato; la possibilità che simili episodi investano il Sudafrica è il segno di specifiche contraddizioni non sanate.
a rappresentato, nel corso dei suoi due mandati presidenziali, la classica parabola del leader africano (significativa l’analogia con lo Zimbabwe di Robert Mugabe). Quella di un combattente per l’indipendenza e la democrazia, di formazione marxista, che da fedele rappresentante dell’ala ideologicamente ortodossa del partito-stato finisce con l’essere travolto da accuse di corruzione cronica, elevata cioè a sistema di governo.
Incapace di sciogliere i nodi che lo allacciano alla sua clientela politica, Zuma ha finito per restarne non solo condizionato politicamente, ma svuotato ideologicamente. La contraddizione non poteva quindi essere più stridente, e a queste latitudini al limite del cliché, tra principi egualitari e scorie di una corruzione talmente estesa da insidiare ormai l’intero sistema economico del Paese. L’analogia con lo Zimbabwe infatti va oltre la discutibile condotta morale del singolo, incriminato anche per un caso di violenza carnale.
D’altro canto Cyril Ramaphosa, quasi settantenne ma dieci anni più giovane di Zuma, rappresenta, almeno sulla carta, l’ultima chance per dare un senso compiuto alla legacy di Mandela. L’eredità del grande leader scomparso è, come abbiamo visto, di natura meramente simbolica, ma riveste le dimensioni del mito planetario.
Per Ramaphosa, nato a Soweto negli anni dell’inizio della discriminazione legale nei confronti dei neri e assistente di primo piano dell’eroe anti-apartheid, si parlò infa+tti di mancata successione a Mandela quando Thabo Mbeki venne eletto secondo Presidente del Sudafrica nel 1999 e Zuma suo vice. Quest’ultimo, grazie a una potentissima clientela, mix di clan Zulu e d’interessi della famiglia indiana dei Gupta, iniziò a costruire la propria ascesa al potere culminata con la successione a Mbeki nel 2009 e durata sino ad oggi. Ramaphosa, esponente di un’etnia (Venda) minoritaria rispetto a quella di Zuma (Zulu) o di Mandela (Xhosa), è ora visto come il potenziale pacificatore dei rapporti di forza etnici che da sempre si confrontano all’interno dell’ANC, il più grande e più influente partito politico sudafricano.
Da protagonista nella lotta contro il regime dell’apartheid, l’ANC è dal 1991, dopo che il bando trentennale ai suoi danni fu levato, il partito che s’identifica con lo stato: non è mai sceso sotto il 60% alle elezioni legislative, ed esprime i principali leader nazionali. Ecco perché la similitudine con il partito-stato di Mugabe, ossia un concentrato di socialismo terzomondista e corruzione endemica, con Zuma stava ormai assumendo tratti preoccupanti.
Non a caso Ramaphosa, nella corsa del 2017 per la guida del partito, ha sconfitto Nkosazana Dlamini-Zuma, ex moglie di Zuma, e sua candidata in pectore alla successione presidenziale. Qui il parallelismo con lady Mugabe, già a capo della lega femminile del partito ZANU-PF e tra i candidati alla successione dello storico leader, è davvero marcato.
Per scongiurare un simile scenario, il sistema democratico ferito del Sudafrica è stato capace di una reazione, seppur in extremis, visto che il mandato di Zuma scadeva quest’anno. Gli equilibri parlamentari si sono spostati costringendo quindi il Presidente – che di Mugabe voleva imitare anche il piano di espropriazione delle terre ai bianchi, misura che ha condannato lo Zimbabwe alla rovina – a lasciare le redini al miglior candidato sostanziale ma anche formale (in quanto vicepresidente in carica).
Si tratta di una strategia d’emergenza che accontenta sia la narrazione esterna sia quella interna. Per il mondo Ramaphosa è il pupillo di Mandela, e tanto basta. Per il Sudafrica è un politico che ha dovuto scalare il potere all’interno dell’ANC distinguendosi dall’ortodossia ideologica. Il suo profilo è infatti quello dell’affermato uomo d’affari (ma con un passato di negoziatore) favorevole a riforme economiche liberali e capaci di innescare meccanismi di concorrenza e sviluppo. Un uomo che ebbe il coraggio, sconfitto nelle presidenziali del 1999 da Mbeki, di lasciare la pur sempre fruttuosa carriera politica per dedicarsi a quella d’imprenditore.
Ramaphosa ha vinto le due battaglie, per la guida del partito e quella dello Stato, ma ha ereditato un ANC che guarda ufficialmente alla Cina odierna come modello di sviluppo economico, e una nazione con fondamentali totalmente opposti a quelli della tigre asiatica. Il modello sarà anche Pechino, ma lo spettro è Harare, capitale dello Zimbabwe.
Già in occasione della sua ascesa alla guida dell’ANC, alla fine dello scorso anno, i mercati reagirono con ottimismo e molti analisti, con ragione, videro nel trionfo le premesse per la transizione al potere. Il nuovo Presidente dialoga col Vietnam, dinamico paese del sudest asiatico non allineato alla potenza cinese, e ha fatto un viaggio d’affari a Singapore, per studiarne il modello organizzativo iper-razionale e meritocratico.
Sarà una pura coincidenza, ma all’ultima edizione del World Economic Forum di Davos è stato lui, e non Zuma, a rappresentare il Sudafrica. Si è trattato, capiamo oggi, di un passaggio metaforico del testimone capace di concretizzarsi nel giro di poche settimane. Il dopo Mandela, a quasi vent’anni dalla sua uscita dal potere, può forse iniziare.