Cryptovalute: il vaso di pandora dell’innovazione finanziaria

Nella finanza (ma non solo) è iniziata l’era delle grandi transizioni. Un mondo nuovo fatto di tecnologie digitali esponenziali dove è sempre più difficile comprendere quali siano i confini dell’innovazione finanziaria rispetto al mercato e all’economia reale.

I nuovi prodotti della finanza strutturata e della finanza virtuale rappresentano territori inesplorati che vanno compresi e approfonditi da parte di tutti perché generano straordinarie asimmetrie informative con il sistema complessivo degli investitori, anche quelli professionali e qualificati. Un mondo mai visto prima che va conosciuto e gestito compensando le asimmetrie senza appiattirne i reali processi innovativi che ci condurranno nel futuro.

Restano probabilmente valide le basi su cui è costruita la finanza, ben note fin dai tempi della Bibbia – nel Libro dei Proverbi dell’Antico Testamento si legge “Accumulata in fretta, svanisce la ricchezza. Chi ammassa piano piano si fa ricco e va lontano”. Ma certamente stanno cambiando molte altre cose.

 

Il mondo della finanza decentralizzata e il dilemma dei mercati

Pensiamo, ad esempio, alle cryptovalute. Un contesto in rapida evoluzione dove è ormai difficilissimo distinguere, con certezza tecnica e giuridica, in che cosa oggi consistano legalmente la moneta e i prodotti finanziari perché il sistema degli operatori, sia qualificati che retail, rischia di usare metriche di valutazione molto diverse da quelle normative e di mercato.

E’ una mutazione profonda che impatta in maniera straordinaria il funzionamento e la diffusione degli strumenti crypto e che accompagna lo sviluppo della platform economy di tipo finanziario. Ponendo così importanti problemi al sistema bancario, ai regolatori e al potere quasi “assoluto” delle banche centrali sulle valute che si perpetuava dalla fine degli accordi di Bretton Woods del 1971.

Ecco un nuovo bivio generato dall’innovazione. Di cosa stiamo parlando? Valute e, dunque, mezzi di scambio, o veri e propri strumenti finanziari? È comunque un grande Vaso di Pandora, un dilemma non facile da risolvere perché esiste un mondo parallelo, di cui spesso ci sfuggono i contorni, che gravita intorno alle cryptovalute, a cominciare dai Bitcoin, inventati nel 2009 da questo fantasma del mondo tecnologico e finanziario che risponde al nome di Satoshi Nakamoto – la cui reale identità è tuttora misteriosa.

Se volessimo trovare una prima definizione, una cryptovaluta è un asset basato su una blockchain, ovvero un registro condiviso, distribuito e immutabile perché ogni operazione fatta è garantita dalla crittografia, non è modificabile, ed è vera perché è eseguita in tempo reale (forse), ed è riconoscibile da tutti i nodi della Rete.

A partire da tale contesto, il Bitcoin è il termine che identifica sia la cryptovaluta più importante, sia il sistema di blockchain collegato. Lo stesso può dirsi per le altre criptovalute. Ne nominiamo solamente alcune, ma sono tantissime. A partire da quelle che girano sulla piattaforma Ethereum per arrivare a Cardano, Solana, Xrp, Polkadot, Zcash, Monero, Avalanche, Litecoin, Chainlink, Polygon, Algorand.

Mettiamo subito un punto fermo: il problema dell’evoluzione delle cryptovalute private non è solo quello della specifica “non moneta” o “strumento finanziario alternativo” che minaccia il potere costituito (non c’è una banca depositaria, né un prestatore di ultima istanza), ma è invece la logica (l’algoritmo) che la genera: questo è di natura consensuale, diversificata e, soprattutto “bottom up”. Siamo nel campo della “finanza decentralizzata” – decentralized finance, o DeFi.

Un mondo anarchico e non conforme alle normative precostituite dei mercati che una parte degli operatori considera pericoloso. E, dunque, dal 2016, nel mondo dei regolatori c’era una crescente preoccupazione per la proliferazione di cryptoasset dove la volatilità era altissima e la liquidabilità certa per le piccole somme, ma scarsa per le grandi.

Poi, nel 2022, è arrivata la grande crisi del sistema Crypto.

 

La grande crisi del sistema Crypto e il dilemma della liquidità

Per comprendere perché si è scatenata la grande crisi del sistema Crypto (ma anche quella del sistema finanziario tradizionale) nel 2022, dobbiamo ricordare a noi stessi una riflessione di base di cui eravamo consapevoli da tanto tempo, anche se avremmo voluto continuare a dimenticarla, per vivere per sempre nel fantastico mondo dell’helicopter money – grandi immissioni di liquidità nel sistema monetario, o Quantitative Easing.

È vero che il “whatever it takes” di Mario Draghi (e degli altri banchieri centrali nel secondo decennio di questo secolo) ha salvato l’euro e un sistema di equilibri nelle piattaforme monetarie delle grandi banche centrali. Ma è altrettanto vero che la moltiplicazione a dismisura della moneta reputazionale delle banche centrali ha generato profonde distorsioni nei mercati finanziari.

Era un provvedimento “booster” che poteva aver ragione di essere in orizzonti limitati nel tempo per sopperire a crisi momentanee dei mercati e dell’economia reale ma che, portato oltre i limiti temporali dell’intervento emergenziale, ha generato un mondo virtuale in cui, per dirla con una metafora dantesca:

 

  1. le azioni erano il Paradiso perché, grazie all’enorme quantità di moneta, sembrava che le quotazioni dovessero crescere (mediamente) quasi per sempre;
  2. le obbligazioni erano il Purgatorio perché i rendimenti erano bassissimi (o, addirittura, negativi) ma chiunque avrebbe potuto continuare a emetterne ulteriori perché c’era comunque una liquidità sovrabbondante che doveva trovare un rendimento alternativo ai tassi negativi delle grandi banche centrali;
  3. soprattutto, non esisteva l’Inferno perché esistevano le banche centrali stesse che continuavano a stampare “ad libitum”, eliminando quasi tutti i rischi di mercato per qualsiasi investimento possibile e realizzabile, compresi quelli alternativi in crypto.

 

Un sistema parallelo alla realtà, un metaverso finanziario che ha vissuto per molti anni perché dopato da tassi negativi e un WACC (Weight Average Capital Cost, Costo medio del Capitale) inesistente in termini di rischio/rendimento comparativo di un investimento alternativo. In altri termini, per qualsiasi operatore valeva la pena di rischiare l’investimento in azioni o in crypto perché quasi tutte le alternative erano equivalenti in termini di rischio o meno convenienti come rendimento.

E’ stato un nuovo “mondo di mezzo” senza track record e serie storiche dove il futuro non era scritto, e dove il sistema sembrava libero dalle politiche fiscali dei Governi e dalle politiche monetarie delle grandi banche centrali, con la finanza decentralizzata che s’imponeva come modello alternativo in uno spazio nuovo e libero da condizionamenti.

 

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Senza poi dimenticare che l’euforia degli ultimi tre anni è stata alimentata anche dalla peculiare situazione creata dalla pandemia che, chiudendo tutti in casa, ha spinto molte persone a passare più tempo su device elettronici senza alcuna intermediazione. La disintermediazione, la scarsità di barriere all’entrata, l’anonimato, l’assenza di un’autorità centrale sono fattori che hanno creato la sensazione di una finanza “prêt-à-porter” per tutti. “Uno vale uno” nel mondo finanza decentralizzata significa che chiunque potrebbe fare il mercato come un banchiere centrale.

Praticamente, il mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie. Poi il tempo è cambiato, Sono arrivate l’inflazione (da domanda per USA o da costi dell’energia per l’Europa), la guerra e, a seguire, la stretta monetaria di FED e BCE e delle altre banche centrali. Ecco che il WACC è cambiato profondamente e, con lui, le alternative in termini rischio/rendimento sull’investimento (in particolare) in cryptovalute.

Ed ecco i fallimenti di piattaforme e prodotti crypto del 2022. L’exchange Celsius, la stablecoin Terra USD e, nell’ultimo periodo, la super-crisi di FTX. Mentre il destino di Gemini e Genesis ancora non è chiaro. Per non citare le numerose altre piattaforme che, negli ultimi mesi, hanno bloccato i prelievi: CoinFlex, Babel Finance, Zipmex e Vauld. E le quotazioni del Bitcoin al 30% rispetto ai massimi.

Intanto, però, molti hanno capito una cosa fondamentale. In assenza di un prestatore di ultima istanza (banca centrale con moneta avente corso legale) o di una banca depositaria (per la validità riconosciuta del portafoglio di investimenti), gli investimenti in crypto hanno problemi perché

 

  1. non sono liquidi o liquidabili (soprattutto se consistenti in termini assoluti: vedi la crisi delle più importanti piattaforme di exchange);
  2. sono invece fortemente rischiosi in termini di investimenti alternativi a maggior rendimento e minor rischio se i tassi non sono negativi.

 

Quali altri orizzonti allora? Qualcuno potrebbe pensare al Bitcoin che, pur nella crisi profonda, ha ancora un valore ragguardevole sul mercato. Ma qui entra in gioco l’altro grande pilastro delle valutazioni finanziarie: il tempo in assoluto e, nel momento attuale, il tempo relativo in termini di costi dell’energia.

Il valore di Bitcoin risulta infatti in questo momento molto inferiore al costo di produzione. D’altra parte, per assicurare l’operatività e la sicurezza delle transazioni è necessaria un’elevata potenza di calcolo. I “miners” (minatori) – che di fatto sono l’equivalente decentralizzato della zecca che stampa moneta – la mettono a disposizione del sistema e, per scegliere il computer che gestirà il pagamento viene ogni volta indetta una vera e propria gara: a vincerla è chi riesce a risolvere un problema matematico complesso prima degli altri.

 

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Per riuscire a spuntarla i miners investono in nuovi macchinari e potenza di calcolo, che richiedono una quantità di energia crescente. In premio ci sono i nuovi Bitcoin “estratti”: il computer che effettuerà la transazione e aggiungerà dunque un nuovo blocco alla blockchain verrà ricompensato con una somma in nuovi Bitcoin. Ma più Bitcoin vengono estratti, più il sistema richiederà crescente potenza di calcolo per gestire le transazioni. E il prezzo più che dimezzato, dopo la stretta delle grandi banche centrali, contribuisce ad assottigliare i ricavi.

Ecco perché i Bitcoin sono in crisi come tutte le altre crypto.

 

Dalle cryptovalute private alle Central Bank Digital Currencies (CBDC’s)

Ecco il film che stiamo vedendo. Stretta monetaria, costi dell’energia alle stelle, crisi delle piattaforme di exchange, quotazioni delle crypto in caduta libera. In altre parole, una storia che racconta il nuovo inferno del mondo della finanza decentralizzata. Siamo al momento del “game  over” per il mondo crypto?

Purtroppo, o per fortuna, non è tutto così semplice. Il ruolo decisivo di chi stampa valuta è fuor di dubbio, al punto che vale ancora oggi l’osservazione del Barone Nathan Rothschild: “Datemi il controllo della valuta di una nazione e non mi interessa nulla di chi faccia le leggi”.

Oggi il problema strategico è quello del governo sulla moneta e sugli investimenti ma non solo. Il rischio che i privati comincino a batter moneta ha certamente accelerato il processo di creazione delle valute digitali delle grandi banche centrali al fine di evitare “vuoti di potere” monetari e fiscali. Ma il vero tema centrale rimane quello del governo dei dati, il vero oro del futuro.

Ecco perché i grandi banchieri centrali (che ora “gongolano” per la crisi del mondo crypto) non possono stare tranquilli. Perché, se è vero che i futuri dollari, euro o yen digitali sarebbero di immediata percezione reputazionale in termini di sicurezza rispetto agli altri cryptoasset, anche le CBDC’s pongono comunque temi innovativi rispetto ai tradizionali mercati finanziari, come i problemi strategici di privacy perché, per quanto pseudoanonimizzate in termini di dati, sono in realtà sempre tracciabili.

 

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Un mondo in cui, le banche centrali (e gli Stati) sarebbero in grado di raccogliere anche informazioni in precedenza non disponibili, giungendo a un’inedita e più profonda identificazione degli utenti e della capacità dei flussi di pagamenti. E dunque, se usate in modo improprio, le CBDC’s potrebbero favorire una concentrazione senza precedenti di informazioni e una deriva verso quello che viene definito “capitalismo di sorveglianza”.

Si pensi, ad esempio, al potere inquisitorio di un’eventuale Agenzia delle Entrate (le tasse o la riscossione delle cartelle applicate direttamente sui wallet digitali) o delle stesse banche centrali in termini di tassi negativi applicati top-down su tutti i depositi laddove, con le monete fisiche, tali provvedimenti possono essere facilmente elusi ritirando contanti per stoccarli altrove.

Ecco perché lo sviluppo di una regolamentazione del mondo complessivo delle monete digitali è ancora in fase iniziale. D’altra parte, come ha detto Robert Kiyosaki, se l’investitore non è esperto, qualsiasi suo investimento sarà rischioso. E, quindi, ad essere rischioso non è l’investimento, ma l’investitore.

Un paradosso da tenere in adeguata considerazione e un motivo in più per diffondere la conoscenza sulla DeFi e sulle valute digitali. Aumentando così la consapevolezza degli investitori per un futuro che ha ancora molti territori inesplorati da approfondire.

 

 

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