Un sistema di controllo sociale pensato dal regime per ragioni politiche, ha favorito la vittoria contro Covid. Ha avuto un peso, naturalmente, anche l’impronta confuciana della società. In Cina, come del resto a Taiwan, Singapore e Corea del Sud – democrazie asiatiche dove il virus appare sotto controllo – l’individuo si concepisce anzitutto come parte di una comunità più vasta: i diritti dei singoli possono essere sacrificati alla sicurezza collettiva. Numero stratosferico di tamponi e divieto assoluto degli spostamenti interni hanno fatto il resto, assieme all’esperienza già maturata di fronte alla SARS un paio di decenni fa.
La Cina si è così liberata del virus globale di cui è stata all’origine più in fretta di quanto non siano in grado di fare le democrazie occidentali. Ed oggi resta chiusa in modo ermetico ai potenziali untori dall’estero: il sistema di ingressi è così rigido da costituire un deterrente. Chi arriva nella Repubblica Popolare viene scortato per due settimane nei cosiddetti alberghi Covid: di fatto viene isolato o meglio deportato in isolamento. Lo stesso vale in senso inverso: ai cinesi è proibito viaggiare all’estero. La Cina del dopo Covid si raccoglie così nel proprio mondo, l’Impero di Mezzo.
Metodi appena più morbidi, ma altrettanto efficienti nei tracciamenti, sono stati applicati nelle democrazie asiatiche, dove vige una disciplina sociale senza paragoni in Occidente. La “influenza cinese”, per usare la terminologia di Donald Trump, non è più un problema dominante in larga parte dell’Asia orientale.
La guerra al virus sperimentata dalla Cina è fondata su misure così drastiche da non essere replicabili nelle società occidentali, dove la curva di Covid è ancora in ascesa. Non è replicabile né la stretta assoluta da parte di un regime autoritario, né i mezzi con cui è stata esercitata, né il grado di disciplina sociale. Ma resta l’indicazione generale: la battaglia sul fronte sanitario costituisce una delle condizioni della ripresa economica. Il rimbalzo dell’economia cinese è ormai realtà. Anche facendo la tara su statistiche di cui è impossibile fidarsi, la Cina sarà l’unica delle grandi economie ad avere un segno positivo accanto agli indici di crescita del 2020. Per gli Stati Uniti e per l’Europa il segno sarà negativo (ma con una performance migliore dell’economia americana).
Tutto questo non significa che l’Impero di Mezzo si avvii a diventare la nuova America, la potenza dominante del XXI secolo.
L’impatto congiunto delle due grandi crisi degli ultimi vent’anni – la crisi finanziaria del 2007/2008 e l’emergenza sanitaria attuale – ha accorciato la distanza fra la superpotenza del XX secolo e lo sfidante asiatico. Ma l’esito della competizione in corso per l’egemonia mondiale non è scontato, perché l’America, Trump o non Trump, può ancora fare leva sul proprio dinamismo, sulla forza internazionale del dollaro e sull’esistenza di un sistema di alleanze che Pechino non ha.
Mentre la Cina presenta ancora una serie di fragilità strutturali spesso trascurate dalle analisi; che l’impatto di Covid potrebbe complicare. Pechino è in effetti di fronte a un dilemma di fondo: deve riuscire a spostare le leve della crescita dagli investimenti statali (che stanno sostenendo il rimbalzo attuale) e dall’export (da cui ancora dipende circa il 20% del PIL) verso il consumo interno; ma deve farlo in condizioni rese più difficili e in tempi resi più rapidi proprio dalle conseguenze della pandemia globale, che ha accentuato la crisi della vecchia globalizzazione e aumentato la diffidenza internazionale nei confronti della Repubblica Popolare. Il ripensamento di America ed Europa sulla vulnerabilità delle catene globali del valore è un segnale chiaro.
Non sarà più, nel dopo Covid, il secolo americano. Ma non sarà neanche, così facilmente, il secolo cinese. Sarà più realisticamente il secolo del Pacifico, se non altro nel senso che la competizione geopolitica fra Stati Uniti e Cina si scaricherà anzitutto nei mari dell’Asia orientale, con il rischio possibile e tragico di un incidente su Taiwan. Ossia sull’altra Cina, che Pechino vede come unico modello alternativo al comunismo/capitalismo della madrepatria.
L’Europa sarà un terreno forse non primario, ma comunque decisivo, del confronto epocale fra America e Cina. Che vinca Trump o vinca Biden, la politica estera americana resterà concentrata sul problema di come affrontare la Cina, vista ormai da repubblicani e democratici come il principale avversario: l’idea, dominante negli anni ’90, che la Repubblica popolare potesse diventare un “azionista responsabile” del sistema internazionale disegnato dall’Occidente, è ormai abbandonata e sepolta.
Una eventuale presidenza Biden tenterebbe probabilmente di costruire un consenso euro-atlantico (e indo-pacifico) sul contenimento della Cina. Gli europei dovranno scegliere come collocarsi. E ne sono coscienti: l’epoca della ingenuità sulla Cina è stata anch’essa travolta dalle due grandi crisi del secolo.
Soluzioni facili, su temi che vanno dal controllo della tecnologia alla protezione della proprietà intellettuale, tuttavia non esistono: sicurezza e valori democratici spingono gli europei verso il principale alleato occidentale, di cui si fidano però meno che in passato; la Cina è un rivale “sistemico” – questa la definizione ufficiale dell’UE – ma resta un partner commerciale primario, per la Germania anzitutto.
La preferenza europea sarebbe di gestire la sfida cinese attraverso regole e istituzioni multilaterali, a cominciare dal WTO; che però sono in crisi e andrebbero riformate. Una presidenza americana democratica potrebbe essere più incline a muoversi in questo senso; ma forse non quanto vorrebbero gli europei.
Il gioco globale si è già fatto più duro ed appare più rapido di quanto permettano i ritmi lenti della politica europea. La partita strategica sarà dominata direttamente, nel bene e nel male, dai due grandi attori del Pacifico. L’Europa farebbe un errore grave se pensasse che la Cina, dopo avere sconfitto Covid, sia anche la vincente obbligata nel mondo post-Covid.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Repubblica del 24 ottobre 2020