Cosa sono davvero i Big Tech

Tassare, regolamentare, disaggregare. I grandi player digitali sono da anni oggetto degli strali di alcune élite politiche e intellettuali, tanto quanto sono la quieta e costante prassi d’uso quotidiano di miliardi di utenti. Le due grandi pestilenze di questi ultimi anni, il Covid-19 e il populismo, ne hanno esaltato il ruolo. Il virus biologico della pandemia li ha fatti scoprire come strumenti fondamentali per garantire la continuità dei servizi essenziali, dalla scuola alla pubblica amministrazione, e per rendere possibile il miracolo delle innovazioni scientifiche come quella del vaccino a mRNA con i loro algoritmi di intelligenza artificiale. Il virus culturale del populismo nazionalista, li ha utilizzati come armi improprie per la disseminazione di fake news e la manipolazione eversiva delle coscienze.

Croce e delizia della modernità, le piattaforme digitali sono passate in pochissimi anni da semisconosciute start-up per nerd a presunti dominatori dei mercati mondiali, sbrigativamente definiti monopolisti, grandi fratelli, padroni del mondo, spesso dagli stessi media tradizionali che li hanno prima ignorati, poi snobbati e infine temuti e denunciati come pericoli pubblici.

Infatti quando, dopo aver fatto registrare colossali perdite contabili per i primi anni della loro storia a causa di massicci investimenti tecnologici, hanno cominciato a macinare utili fino a diventare le star delle borse mondiali, le lamentele – e le invidie – per i loro guadagni definiti eccessivi, se non predatori, hanno cominciato a essere rilanciate dai media tradizionali: quotidiani, periodici, televisioni. Peccato che pochi di loro abbiano evidenziato, come imporrebbe un’antica regola deontologica del giornalismo, il fondamentale conflitto di interessi che caratterizza la copertura mediatica indirizzata ad attori concorrenti sullo stesso mercato, quello della pubblicità.

 

L’INFONDATA ACCUSA DI MONOPOLIO. In questo contributo si evidenzia che le definizioni economiche di monopolio e di essential facility, argomenti necessari per poter invocare con qualche fondamento logico eventuali interventi regolatori contro le piattaforme digitali, non risultano sufficientemente dimostrate, né logicamente né empiricamente.

In premessa, tuttavia, si deve far presente al lettore che la copertura dei media tradizionali sul tema, qualora non dovesse evidenziare con chiarezza la fondamentale condizione di conflitto di interessi che caratterizza gli editori analogici nel criticare le piattaforme digitali, andrà semmai derubricata a comunicazione commerciale comparativa se non addirittura a pubblicità negativa ingannevole, e non certo confusa con buon giornalismo. Una trasmissione tv che invochi la “web tax” su Google o un giornale che chieda di imporre regolamentazioni su Twitter, ma che nel contempo ometta di far presente ai lettori che con tale intervento ha l’effetto di danneggiare un diretto concorrente, merita una censura deontologica e forse un intervento regolatorio ben più giustificato delle richieste, spesso pretestuose, di ricorrere all’intervento dello Stato contro questi presunti usurpatori dello spazio digitale.

Vediamo perché. Chi definisce superficialmente come monopolisti attori come Apple o Amazon non ha evidentemente la corretta comprensione dei rispettivi mercati rilevanti. Apple ha, a fine 2020, l’11,8% di quota di mercato mondiale degli smartphone in volume, circa della metà di Samsung, e copre il 6,7% del mercato dei personal computer, mentre HP e Lenovo hanno quote quasi quadruple. Il fatturato e-commerce di Amazon è circa un quarto del totale dei primi tre player cinesi (Alibaba, jd, Pinduoduo) e comunque anche negli Stati Uniti e in Europa rappresenta pochi punti percentuali del totale del mercato retail. Considerando il mercato pubblicitario globale, che raccoglie tutti i mezzi e dove la televisione ha ancora la quota di mercato maggiore, Google si attesta al 25% del totale, mentre Facebook si ferma al 13%. Se poi si guarda alla dimensione geografica, si nota che il 90% degli utenti di Facebook è fuori dagli Stati Uniti, con l’India primo paese in assoluto. Il numero di consegne giornaliere di JustEat è meno di un ventesimo del player cinese Meituan. La Cina e l’India hanno, singolarmente prese, molto più traffico dati su mobile di Europa e Nord America messe insieme. Ciascuno dei grandi player digitali è indiscutibilmente oligopolista nei rispettivi mercati, e spesso con un significativo potere di mercato: quindi merita attenta supervisione ex post da parte delle autorità di mercato. Ma parlare di monopolio è – almeno in base ai dati attuali – del tutto infondato.

L’argomento che attribuisce ai grandi player il ruolo di inibire l’innovazione si scontra con dati empirici che dimostrano l’esatto contrario: la creazione e il funding di startup tecnologiche sono quasi quadruplicati in dieci anni, e la nascita di nuovi “unicorni” dal valore che supera il miliardo di dollari si è semmai estesa notevolmente dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’India.

L’effetto paradossale ottenuto dal furore regolatorio di molti politici e commentatori superficiali è che, con singolare eterogenesi dei fini, i primi ad associarsi nel richiedere maggiore regolamentazione dei mercati digitali sono in realtà gli stessi grandi player oligopolistici. La regolamentazione, in effetti, finisce sempre per favorire le grandi aziende. Le norme sono sempre più complicate e averci a che fare richiede stuoli di legali e specialisti, impone di modificare le road map di sviluppo tecnologico, e di gestire enormi responsabilità legali nei confronti dei clienti finali che solo le grandi corporation si possono permettere di sopportare. La regolamentazione ha quasi sempre l’effetto di alzare le barriere all’ingresso, ostacolando i challenger. I settori più regolamentati, comeil bancario, l’automobilistico e il farmaceutico, hanno visto negli ultimi decenni forti processi di consolidamento e un debole flusso di nuovi entranti. Inoltre, in termini economici, una cosa emerge con grande evidenza: la regolamentazione è una forma di tassa iniqua, in quanto fortemente regressiva, ovvero è un’imposta informale che incide per una quota maggiore sugli attori più piccoli. Per esempio, l’incidenza dei costi di compliance sui costi totali nelle piccole istituzioni finanziarie è più del triplo di quelle di grandi dimensioni.

 

INFRASTRUTTURE ESSENZIALI? Veniamo ora all’altra argomentazione fallace avanzata da molti commentatori, ovvero che le piattaforme digitali, in particolare i social media, vadano considerate infrastrutture essenziali e quindi non possano negare i diritti di accesso e di espressione della libertà di opinione agli utenti. Tale diatriba si è fatta particolarmente vivace con gli ultimi avvenimenti accaduti nel corso della campagna presidenziale e del cambio di amministrazione negli Stati Uniti. Molti hanno colto l’occasione per invocare l’intervento della legge al fine di togliere alle piattaforme il potere di negare l’accesso ai propri servizi ai personaggi politici, nella convinzione che ciò costituisca un’inaccettabile limitazione del diritto di espressione. Anche qui si evidenza una singolare eterogenesi dei fini: la sfida delle democrazie liberali sarebbe semmai quella di difendere gli strumenti che favoriscono la libertà di parola dall’interferenza e dai ricatti del potere politico.

Chiedere di imporre obblighi pubblici in capo a una piattaforma tecnologica che ospita un social media richiede inoppugnabili ragioni tecniche ed economiche, prima ancora di diventare argomento di valutazione giuridica. Bisognerebbe infatti riuscire prima a dimostrare che un social media costituisce una “infrastruttura essenziale”, ovvero una essential facility, tale da non avere alternative praticabili per una terza parte che desiderasse di accedere a un servizio analogo. Le tre condizioni, tutte necessarie, affinché una risorsa possa essere considerata essential facility sono l’insostituibilità e l’essenzialità per lo svolgimento di una specifica attività, e l’assenza di ragioni obiettive che giustifichino il diniego all’accesso.

Per esemplificare, prendiamo proprio il caso della piattaforma Twitter e proviamo a dimostrare che essa costituisca una essential facility necessaria a garantire l’esercizio del diritto alla libera espressione da parte, per esempio, di un importante soggetto politico.

Le condizioni di essenzialità e insostituibilità non sembrano dimostrabili. Non solo il politico dispone di molti modi diversi per esprimersi liberamente (che è il vero diritto da tutelare), ma ha accesso a numerosi strumenti per far arrivare il proprio pensiero a grandi masse di persone – il che semmai costituisce una legittima aspirazione, ma non certo un diritto umano fondamentale meritevole di tutela pubblica tale da imporre obblighi di legge a terzi. Per esempio, il politico in questione può usare un sito web, un blog, una app, uno dei molti altri social media ad accesso gratuito, una piattaforma di podcast e/o di video, una mailing list, un sistema di messaggistica. Nel caso di un soggetto istituzionale, inoltre, l’accesso ai media tradizionali è ampiamente disponibile. La diffusione mondiale dei social media è di circa il 51% della popolazione adulta, quella di radio e televisione sfiora il 100%. Twitter ha un reach di circa il 5% della popolazione mondiale, con 350 milioni di utenti attivi, che sono poco più di un quarto di quelli di WeChat, e si colloca intorno al diciassettesimo posto nella classifica dei social network più diffusi, tra i quali almeno una ventina sono quelli con oltre 300 milioni di utenti. Il numero di ore dedicato alla tv e ai media tradizionali (35 ore/settimana) è tuttora molto maggiore di quelle dei singoli social media (13 ore/settimana). Secondo Statista, l’emergenza Covid ha fatto aumentare il tempo dedicato alle news del 36%, e il consumo di video streaming (Netflix et al) del 27%, mentre l’uso dei social media è aumentato del 21%. In Italia, ma anche negli Stati Uniti, la televisione rimane in assoluto la fonte di informazione politica dominante, in proporzione di un multiplo rispetto a qualsiasi singolo social media, secondo ISTAT. I numeri smentiscono dunque chi parla di monopolio, sia pure dell’attenzione umana, in merito a una specifica piattaforma digitale.

Insomma né Twitter, né alcuna altra singola piattaforma di social media, può dirsi essenziale e insostituibile, tale da essere considerata essential facility. Quanto all’assenza di ragioni obiettive per negare l’accesso, nel caso che ha coinvolto Donald Trump, Twitter ha giustificato la decisione di sospensione con la violazione, giudicata tale a parere unilaterale della piattaforma, dei termini d’uso da parte dell’account. Per quanto non sempre trasparenti, nonché ampiamente discrezionali e asimmetriche, tali ragioni obiettive sono pienamente ricomprese nel contratto d’uso liberamente sottoscritto da ciascun utente al momento di attivazione dell’account.

Essendo indimostrabile l’interesse pubblico a garantire a un soggetto politico l’accesso a una specifica piattaforma, in quanto non assimilabile a una essential facility, bisogna riportare la discussione nel campo dei liberi rapporti tra privati. Non ci sono quindi gli elementi logici, prima ancora che semantici, per definire la scelta di Twitter un atto di censura.

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I RISCHI DI UNA REGOLAMENTAZIONE CONTROPRODUCENTE. I social media sono stati uno straordinario strumento di inclusione e partecipazione, nato nelle democrazie liberali e tuttora osteggiato dai regimi autoritari. Chi ama la libertà deve sforzarsi di garantirne il pluralismo e la trasparenza, contrastando eventuali eccessi monopolistici. Ma come il diritto pubblico deve prevenire l’abuso di posizioni dominanti e garantire semmai l’accesso alle infrastrutture essenziali propriamente dette, il diritto privato va applicato nei casi di abuso dei termini di servizio da parte di utilizzatori che attentino alle stesse regole democratiche che hanno consentito la nascita dei social media. Se non viene garantito il principio di rispetto delle pattuizioni private, si minano le fondamenta stesse della democrazia liberale e della rule of law. Semmai serve prevenire l’abuso che di tali patti fanno gli autocrati, minacciando ritorsioni ai media come peraltro più volte fece proprio Donald Trump nei confronti di Twitter, prospettando chiusure e ritorsioni tramite decreti esecutivi. Per gli utenti, sottoscrittori di un patto privato, è doveroso chiedere criteri e procedure più trasparenti e accountability delle scelte di sospensione degli account.

Ma è una negoziazione tra utilizzatori, rappresentati dalle associazioni di tutela dei consumatori, e le piattaforme. Se i social media non rispondono alle legittime richieste degli utenti, la sanzione più efficace è abbandonarli e utilizzare altri servizi. A ciò servono una concorrenza vivace e la sorveglianza delle istituzioni antitrust. Ma invocare la mano dello Stato per proteggere il diritto di un politico di utilizzare illegittimamente un servizio privato è alquanto paradossale. In termini economici, il pericolo nel classificare un social media come infrastruttura essenziale o nel prescrivere obblighi di servizio universale è quello di una profezia autoavverante. L’atto stesso di imporre vincoli di “pubblica utilità” a una particolare piattaforma tende a caratterizzarla come scelta preferita, se non unica, nel suo mercato di riferimento. La regolamentazione può finire con l’imporre sulle piattaforme emergenti, de facto se non de jure, elevati costi di compliance legale che finiscono col limitare l’innovazione e la concorrenza.

L’intervento pubblico rischia di trasformare in monopolio anche ciò che monopolio non è, alzando le barriere all’ingresso per i concorrenti che non possono permettersi il costoso apparato necessario ad applicare i controlli imposti dal regolatore. Trattare i social media come essential facilities minaccia di congelare l’innovazione del mercato e incoraggia gli utenti ad accontentarsi di una piattaforma regolamentata. Peraltro i social media sono quasi universalmente ad accesso libero e gratuito per gli utenti: l’obiettivo del “servizio universale” che motiva molte richieste di regolamentazione dei servizi di pubblica utilità appare quindi già ampiamente soddisfatto in via di principio.

Va peraltro segnalato che il recente Digital Services Act della Commissione europea prevede esplicitamente, all’art. 20, che “le piattaforme online sospendano, per un periodo di tempo ragionevole e previo avviso, la fornitura dei loro servizi ai destinatari del servizio che forniscono contenuti manifestamente illegali”. Per la Commissione europea, infatti, l’uso improprio dei servizi di piattaforme online con contenuti chiaramente illegali o infondati “mina la fiducia e lede i diritti e gli interessi legittimi delle parti coinvolte”. Pertanto, tramite il Digital Services Act, la Commissione ritiene necessario mettere in atto salvaguardie adeguate e proporzionate contro tali fenomeni.

È il possibile abuso di potere di eversori, reali o potenziali, a dover costituire la preoccupazione di chi difende la libertà di espressione. La critica a Twitter e Facebook è semmai di non aver avuto il coraggio di intervenire subito ed efficacemente sugli abusi dei potenti. Il tardivo intervento contro le sistematiche violazioni dei patti di utilizzo da parte di politici senza scrupoli è ciò che deve preoccupare i liberali: certo per la scarsa trasparenza delle procedure di sospensione, che vanno migliorate, ma molto di più per le minacce di ritorsione ricevute. In paesi dove l’autoritarismo non è solo una minaccia ma una realtà, i social media sono vietati, ostacolati o controllati dai locali regimi politici.

È indiscutibile che il potere e l’influenza delle piattaforme digitali siano diventati così onnipresenti da richiedere una riflessione sul loro ruolo in una società democratica che voglia garantire pluralismo e diritti di espressione. Ma per chi assiste allo scempio delle libertà individuali da parte dei regimi autoritari e alla diffusione di fake news effettuata da organi editoriali controllati da partiti e governi, è prioritario proteggere i social media dai potenti, e non certo proteggere i potenti dai social media.

Non essendo (per ora) definibili come monopoli, e tanto meno come essential facilities, le grandi piattaforme digitali sono tuttavia ben più che semplici imprese private e stanno assumendo sempre più il carattere di quasi-istituzioni. Il digitale è già da tempo diventato una forma istituzionale della vita civile, in quanto la tecnologia dell’informazione ormai permea tutti gli anfratti della vita sociale ed economica. Dopo la pandemia, però, il digitale non è più terra promessa della tecnologia ma vera e propria necessità economica e sociale, indispensabile per recuperare produttività e solidarietà perdute.

L’innovazione tecnologica, che prima veniva prospettata come interessante opportunità per i visionari, senza mai imporsi come un’urgente priorità per i pragmatici, dopo lo shock economico della pandemia si trasforma in un’indispensabile, quasi ovvia modalità di riscatto, pena la recessione, la decadenza, la povertà. Ma ora che da tecnologia elettiva, una volta riservata a minoranze elitarie e disperse, si è trasformato in istituzione inclusiva e necessaria, il settore digitale può proseguire a compiacersi nella sua splendida anarchia delle origini, nella propria modernità illuminata, nella disordinata e tumultuosa dispersione di opzioni innovative contrappesata dal sempre più ingombrante ruolo delle grandi GAFAS? La risposta non è facile. Ma affidarla sbrigativamente a interventi dirigisti e distorsivi non solo non fornisce un’alternativa convincente, ma anzi rischia di rallentare l’innovazione e la contendibilità di un mercato sempre più centrale nella società civile e nell’economia globale.

 

 

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