La Germania è “troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo”. Queste parole, attribuite a Henry Kissinger, sembrano sancire l’eterno destino tedesco: una naturale tendenza a straripare su scala continentale e una geografica e demografica insufficienza nella competizione con le superpotenze mondiali.
Almeno una volta, nel corso del secolo scorso, la Germania ha provato a superare il “dilemma”, perseguendo la propria affermazione totale come potenza di terra. Il risultato è stato un conflitto di inaudita ferocia nel cuore dell’Europa. Un massacro di cui la Germania porta ancora oggi un’inconfondibile colpa. Proprio per questo motivo, le élite politiche tedesche sono tuttora riluttanti ad accettare qualsiasi investitura ufficiale di leadership nella UE, per non parlare di un ruolo di guida dei valori occidentali.
Sarebbe un errore credere che questa prudenza sia unicamente legata a principi morali o alla diffidenza degli altri partner europei. Il maggiore ostacolo a una crescita del ruolo internazionale della Germania sono le sue stesse classi dirigenti, consapevoli che un maggiore carico di responsabilità geopolitica potrebbe aprire conflittualità e cambiare non solo l’equilibrio istituzionale tedesco, ma anche quello politico-economico. Il cambiamento sarebbe strutturale, profondo, definitivo.
Da anni, ovviamente, anche a Berlino è chiaro che sia giunto il tempo della responsabilità e dell’autonomia, soprattutto da quando il surplus commerciale tedesco è diventato sempre meno discreto e trascurabile. Nessuno, però, si aspettava l’accelerazione impressa all’improvviso dallal Brexit e dall’elezione di Donald Trump.
In meno di cinque mesi la Germania si è trovata a dover sviluppare una strategia potenzialmente post-atlantica. Le cose sarebbero state ancora più complesse se l’enfant prodige Emmanuel Macron non fosse giunto a rinsaldare l’asse franco-tedesco e, di conseguenza, a legittimare un’Unione Europea in crisi di credibilità. Se oggi all’Eliseo ci fosse Marine Le Pen, si parlerebbe già di una Germania accerchiata e di una Cancelliera rimasta sola, con in mano quella bandiera di “leader del mondo libero” consegnatale da Barack Obama.
Il G20 di Amburgo del 7-8 luglio, invece, ha mostrato un’Angela Merkel salda nel suo ruolo di padrona di casa e di diplomatica paziente ma intransigente.
L’obiettivo più concreto della Cancelliera era quello di mostrare l’importanza del dialogo internazionale come metodo, al di là delle asprezze sempre più diffuse. In questo senso, il G20 tedesco è stato un discreto successo. Se il Presidente Trump ha potuto dar vita a un capolavoro mediatico con l’incontro con Vladimir Putin, Merkel ha saputo rallegrarsi del fatto che lo stesso incontro sia avvenuto proprio durante il summit di Amburgo.
Nella notte tra il venerdì e il sabato gli sherpa dei venti governi hanno freneticamente lavorato a un documento finale per il summit. Il risultato rispecchia le attuali tensioni, ma argina alcuni nervosismi. Un compromesso sul libero scambio ha allontanato il pericolo di una chiusura generalizzata dei mercati in nome del protezionismo, pur riuscendo a non isolare o stigmatizzare la posizione della Presidenza americana. Sul clima il risultato è stato meno conciliante, con i 19 paesi che hanno preso atto della rinuncia degli USA agli accordi di Parigi. Altri temi sono stati affrontati con minore o maggiore difficoltà, ma se Merkel voleva che nessuno uscisse sbattendo la porta o utilizzasse in maniera strumentale una clamorosa rottura, la strategia tedesca ha tenuto.
Sul fronte nazionale, il G20 è stato uno spot elettorale per la Cancelliera, già in testa nei sondaggi per le elezioni di settembre. Un evento come il G20 ha mostrato ai tedeschi la surriscaldata difficoltà del mondo odierno e delle sue convulse relazioni geo-strategiche. Poche persone in Germania sembrano in grado di mostrare i nervi saldi di Angela Merkel quando si tratta di muoversi nella ragnatela del mondo multipolare. Anche i violenti scontri tra manifestanti e polizia nelle strade di Amburgo non hanno danneggiato il governo. Non appena emersi gli errori nella gestione dell’ordine pubblico, la CDU della Cancelliera ha velocemente accusato il sindaco socialdemocratico di Amburgo, presentandosi come la forza politica che applicherebbe molta più attenzione nella gestione della piazza. In un momento di crescente insicurezza e caos, quelli che un tempo venivano considerati i difetti di Merkel, vale a dire una moderata severità e un estremo attendismo, oggi vengono percepiti come qualità politiche rare nello scenario nazionale e, ancora di più, in quello internazionale.
Questo significa che un eventuale quarto Governo Merkel avrà vita facile e condurrà il proprio paese a una vera e propria leadership del “mondo libero”? Nient’affatto. Anzi.
Mentre qualcuno parla di nuova egemonia tedesca, la Germania dovrà prima decidere cosa fare da grande, andando a risolvere alcune problematiche cruciali per il proprio futuro.
1) La questione militare. La Bundeswehr è certamente un esercito fedele, volenteroso e patriottico, ma è tutto fuorché efficace. Malgrado una parte del pensiero europeo – e tedesco – sia giunta alla presunzione dell’annullamento del deterrente militare come elemento di strategia geopolitica, il mondo che sta emergendo va esattamente nella direzione opposta. Negli ultimi anni la Germania ha sviluppato una teoria fatta su misura per un paese molto potente economicamente ma limitato militarmente. Si tratta del sogno di affermarsi come potenza di pace e di applicare un concetto di “Führung aus der Mitte”, “guida dal centro”. Si tratterebbe di una Germania capace di irradiare egemonia politica ed economica senza aggredire o imporsi apertamente sui vicini di casa. Più che nell’UE, il disegno geopolitico sembrerebbe funzionare soprattutto per quella cosiddetta Kerneuropa, il nucleo dell’Unione che ruota attorno a Berlino, più o meno indifferente alla propria periferia. Il problema è che a questa capacità di rendersi nucleo economico non corrisponde oggi una commisurata capacità d’influenza geopolitica.
La crisi in Ucraina è stata una brusca interruzione del sogno tedesco: la pax europea è più fragile di quanto si creda e la sola diplomazia commerciale può essere velocemente scavalcata da un’escalation militare dei conflitti. Ora la Germania sembra determinata nel voler perlomeno rafforzare il proprio sistema di difesa: l’integrazione di due brigate olandesi e di una ceca nella Bundeswehr è parte di questi piccoli progressi. L’opzione di una difesa europea, tuttavia, resta un miraggio e qualsiasi scenario post-atlantico in Europa dovrà tener conto delle rivendicazioni dei paesi più periferici dell’UE e, ancora di più, delle concrete preoccupazioni britanniche. In quanto al vero perno di una strategia di difesa più autonoma in Europa, vale a dire la potenza nucleare francese, non esistono motivi per cui Parigi voglia mettere in comune con la Germania il solo primato che continua a garantirle di sedere al tavolo dei grandi del mondo. Come diceva il Generale Charles de Gaulle: “le nucléaire se partage mal”, “il nucleare è difficile da condividere”.
2) I flussi migratori. Al G20 di Amburgo il risultato più deludente è stato quello sul tema del traffico di esseri umani. La verità è che per tanti attori internazionali l’immigrazione è solo un problema europeo. La Germania ha disegnato un piano di aiuti per i paesi africani, ma il progetto è insostenibile per Berlino senza la collaborazione di altri paesi UE, ancora in disaccordo sulle politiche d’immigrazione dell’Unione stessa. Contemporaneamente, la messa in sicurezza delle coste del Nord Africa, passaggio fondamentale per qualsiasi gestione della crisi migratoria, non è un argomento di cui la Germania si possa occupare, data la sua irrilevanza militare. Berlino ha per ora ignorato la crescente protesta italiana per la progressiva riduzione della Penisola a stato cuscinetto dell’Europa centrale. Un fronte anti-immigrazione potrebbe così formarsi velocemente in sede europea, sommando quei paesi del Sud-Europa che la vivono come un problema prettamente pratico e le nazioni dell’Est che la rifiutano anche su base culturale.
3) La bilancia commerciale. La passione tedesca per il libero mercato (e di conseguenza anche per la libera circolazione delle persone) è legata indissolubilmente al surplus commerciale della sua galoppante economia. Nessun paese verrebbe danneggiato tanto da una regressione della globalizzazione quanto la Germania. Nessun paese tranne la Cina. L’amichevole incontro tra Angela Merkel e il Presidente cinese Xi Jinping, poche ore prima dell’apertura del G20, ha confermato la nuova amicizia tra i due grandi campioni mondiali dell’export, pronti a dar vita a innovative iniziative commerciali. La Cina resta però un alleato lontano: per creare un concreto asse con l’estremo Oriente la Germania deve comunque attraversare svariati territori e questioni geopolitiche, a partire dalla sua densa, storica e controversa relazione con la Russia. A questo va aggiunto che la Cina, con le sue limitazioni di diritti umani e civili, non può essere al momento un socio credibile per chi voglia affermarsi anche come guida morale delle democrazie liberali.
4) La politica interna. L’economia mercantilista rende la Germania particolarmente sensibile a possibili shock esterni. Certo, da tempo lo Stato tedesco ha messo in sicurezza il Paese, ad esempio blindando il surplus commerciale grazie a un’attiva moderazione dei consumi interni e a un profondo rigore dei conti abbinati a un welfare di base che garantisce la pacificazione sociale. L’attuale equilibrio, però, dovrà essere mantenuto, visto che alcune sacche di povertà in Germania hanno già assunto dimensioni croniche, ad esempio nelle aree più depresse dei Länder orientali. A questo scenario si aggiunge anche la gestione interna dell’immigrazione. L’accoglienza di oltre 1 milione di rifugiati siriani nel 2015-16 è stato uno degli eventi epocali per cui Angela Merkel era stata incoronata “Cancelliera del mondo libero” dalla copertina di Time. Nonostante questo, il tema immigrazione è anche stato il primo su cui Merkel abbia realmente rischiato di cadere e perdere il proprio consenso tra i tedeschi. Ora la Cancelliera sembra aver fatto tesoro di quanto è accaduto, ma dovrà procedere con molta cautela per non perdere il suo prezioso sostegno in patria.
5) Il soft power. Non c’è leadership o egemonia senza soft power, ed è un errore credere che la sola influenza economica possa garantire il consenso internazionale, soprattutto per chi professa l’austerity come sola via verso la crescita. Se su base globale il country brand tedesco migliora in continuazione, ad esempio con il nuovo ruolo di avanguardia nella difesa del clima, all’interno dell’UE le cose sono più complicate. Prima dell’accoglienza dei profughi siriani e dei proclami sul multiculturalismo, c’è stata la crisi dell’eurozona: difficile immaginare che in Grecia possa esserci un particolare entusiasmo per un’egemonia tedesca. Anche in Italia l’insofferenza per l’Europa del rigore resta decisiva, mentre in Polonia, un paese che pur dipende economicamente da Berlino, la propaganda anti-tedesca è diventata una narrazione centrale dell’attuale governo. Non solo: anche paesi che sono considerati vicini culturalmente alla Germania mostrano insoddisfazione per la sua guida politica, come nel caso dell’Ungheria. Diventa chiaro che per creare un reale soft power, la Germania debba ancora sviluppare una vera e propria strategia.
Questi cinque punti costituiscono l’insieme di sfide, opportunità e difficoltà di fronte alle quali si troveranno i prossimi governi tedeschi. Le questioni aperte sono tante e, come detto, si tratta di dinamiche che possono cambiare prima di tutto l’identità della Germania stessa: internamente, culturalmente e ideologicamente. Una sola cosa è certa: dopo settant’anni, per i tedeschi è finito il dopoguerra.