COP29: luci e (molte) ombre per la diplomazia del clima

L’andamento dei negoziati della 29ª Conferenza delle parti (COP) mette in evidenza un’urgenza ormai inevitabile: la diplomazia sul clima necessita di rinnovata energia per affrontare con decisione gli effetti sempre più tangibili del cambiamento climatico.

Fin da prima del suo inizio, la conferenza dell’organo supremo decisionale della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) tenutasi a Baku, Azerbaigian, dall’11 fino alla notte tra il 23 e il 24 novembre, è stata oggetto di critiche e dubbi sull’effettiva efficacia dei suoi possibili risultati.

 

L’obiettivo del sostegno finanziario

Definita la COP sulla finanza, il suo scopo principale era ridefinire il New Collective Quantified Goal (NCQG), al fine di sostenere con maggiore forza i Paesi in via di sviluppo nella lotta ai cambiamenti climatici. Il primo obiettivo finanziario per il clima è stato introdotto durante la COP15 del 2009 e prevedeva, entro il 2020, di investire in questo senso 100 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, dopo l’adozione dell’Accordo di Parigi nel 2015, è stato deciso di prorogarlo per altri cinque anni, con l’intento di stabilire un obiettivo nuovo e più ambizioso entro il 2025. Approvato durante la COP21, l’Accordo di Parigi è il trattato internazionale sul clima che mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici, puntando a contenere l’aumento delle temperature globali al di sotto dei 1.5°C, rispetto ai livelli preindustriali.

Numerosi esperti, come riportato ad esempio dal Guardian, hanno evidenziato che uno dei problemi principali che ha reso i negoziati della COP29 più complessi è stato prettamente gestionale, in quanto legato a questo carattere finanziario della Conferenza. Infatti, solitamente, i negoziati internazionali sul clima vengono guidati dai ministeri dell’Ambiente o degli Esteri – quindi professionalità senza competenze adeguate sulle questioni finanziarie. Questo, insieme all’assenza di un programma strutturato, ha portato i Paesi presenti ad aspettarsi una direzione strategica chiara dall’Azerbaigian. Tuttavia, il presidente della COP29, Mukhtar Babayev, ministro dell’Ambiente azero, ha interpretato il proprio ruolo principalmente come quello di un semplice facilitatore, senza fornire l’indirizzo necessario.

 

Gli idrocarburi azeri e il rischio credibilità

Un’altra critica riguarda certamente il luogo dove la COP29 si è svolta. Nonostante l’inclusione dei “petrostati” nel dialogo globale sul clima sia uno degli scopi dell’UNFCCC, la decisione di ospitare l’evento in Azerbaigian ha sollevato diversi interrogativi. Il Paese, infatti, è uno dei principali produttori ed esportatori di petrolio e gas naturale al mondo e soprattutto la sua economia ne è fortemente dipendente: rappresentano il 60% delle entrate statali. In particolare, il 90% delle entrate delle esportazioni derivano dalla vendita all’Unione Europea dato che, dopo l’invasione russa in Ucraina, l’UE ha cercato vie alternative di approvvigionamento rispetto al gas di Mosca.

Questo interscambio è possibile grazie al Corridoio meridionale del gas, gasdotto che (attraverso tre tronconi, SCP, TANAP e TAP) collega i giacimenti azeri all’Italia, e così alla rete europea. Ad oggi, infatti, l’Azerbaigian è il nostro secondo fornitore di gas – la risorsa azera pesa il 16% sul mix energetico nazionale. Non sorprende quindi che anche Roma sia stata criticata durante la COP. In particolare, la rete internazionale di associazioni ambientaliste Climate Action Network (CAN) — composta da oltre 2.000 organizzazioni della società civile provenienti da più di 130 Paesi — le ha conferito il premio “Fossil of the Day” in quanto la ritiene “climaticamente imbarazzante” alla luce dei suoi continui investimenti nel settore del gas.

Il Corridoio Meridionale del Gas

 

La scelta di organizzare la COP in un Paese così vincolato ai combustibili fossili è stata percepita come un segnale ambiguo rispetto agli impegni per la decarbonizzazione e ha indebolito la credibilità della Conferenza agli occhi dell’opinione pubblica globale.

In linea con ciò, alcune organizzazioni di diritti umani, come Global Witness, hanno cercato di testimoniare come l’Azerbaigian avrebbe persino utilizzato la presidenza COP come occasione di affari nel campo degli idrocarburi. Infatti, la BBC riporta come un membro di questa organizzazione sia riuscito ad incontrare, fingendosi un investitore, il capo esecutivo della COP e viceministro dell’Energia, Elnur Soltanov, per discutere di “opportunità di investimento” su petrolio e gas.

Non serviva però questo escamotage per far capire all’opinione pubblica e agli addetti quale potesse essere il rischio per la sostenibilità in questa COP. Questo perché già nel discorso di apertura ci ha pensato lo stesso lIlham Aliyev, presidente dell’Azerbaigian, a ricordarlo: petrolio e gas sono un “dono di Dio”, ha specificato. È evidente che, in termini strategici, gli idrocarburi continueranno a svolgere un ruolo essenziale nel sostenere l’economia globale, poiché le fonti rinnovabili, al momento, non garantiscono lo stesso livello di sicurezza energetica e risultano meno competitive rispetto alle fonti tradizionali.

 

Leggi anche: India turns a more cautious green

 

Un altro elemento che ha sollevato il timore che i negoziati potessero essere influenzati in maniera sproporzionata da interessi privati o industriali, piuttosto che focalizzarsi sulle esigenze climatiche globali e sugli obiettivi di sostenibilità, è stata la presenza di più di 1700 lobbisti.

 

L’incertezza sulle mosse degli Stati Uniti

L’apertura della COP è stata segnata da ulteriori incertezze, di carattere politico. La Conferenza è infatti iniziata pochi giorni dopo l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il quale ha subito annunciato, come già fatto durante la sua precedente amministrazione, l’intenzione di ritirare gli USA dall’Accordo di Parigi – nuovamente, dopo averlo già fatto nel giugno 2017.

Non è la prima volta per Trump, quindi, ma non è neanche la prima per gli USA in generale e, in questo caso, i corsi e ricorsi di Giambattista Vico, sembravano segnare i risultati della 29ª COP.

Nel novembre del 2000 si svolse la COP6 all’Aia, nei Paesi Bassi, ma i lavori furono interrotti a causa di alcune controversie tecniche. Nel frattempo, negli Stati Uniti, le elezioni portarono a gennaio 2001 George W. Bush alla Casa Bianca. La COP6-bis riprese a Bonn, in Germania, nel luglio dello stesso anno, quando il nuovo presidente era già in carica da alcuni mesi e aveva già deciso di ritirare gli Stati Uniti dal Protocollo di Kyoto – l’antenato dell’Accordo di Parigi. Di conseguenza, l’intesa raggiunta alla COP6-bis, per quanto cruciale per salvare il Protocollo di Kyoto, fu vista come un compromesso al ribasso sia per le concessioni necessarie a garantirne la sopravvivenza, sia per il suo impatto globale ridotto a causa dell’uscita degli Stati Uniti.

L’annuncio di Trump in questo momento cruciale del 2024 ha avuto ripercussioni significative, spingendo anche il presidente uscente, Joe Biden, a non partecipare alla Conferenza: nonostante ciò, la delegazione americana ha comunque contribuito alla definizione dell’accordo finanziario sul clima. Anche altri leader sono risultati assenti alla COP29 per motivi sia politici, sia personali, sia istituzionali – von der Leyen, Scholz, Trudeau, Lula e Xi Jinping. Nel complesso, segnali certo non incoraggianti.

Anche il primo ministro della Papua Nuova Guinea non ha partecipato alla conferenza, anche se ha inviato una delegazione di rappresentanza, definendola una “totale perdita di tempo”. La sua assenza è particolarmente rilevante dato che il Paese ospita la terza (dopo quella in Amazzonia e in Congo) più grande foresta pluviale tropicale del mondo – fondamentale per l’assorbimento di CO₂ e la conservazione della biodiversità. Una presa di posizione che sottolinea la crescente impazienza degli Stati più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico nei confronti delle promesse disattese e degli impegni rinviati da parte dei Paesi maggiormente responsabili delle emissioni.

Plastiche galleggianti sull’acqua invadono un quartiere rivierasco di Port Moresby, la capitale della Papua Nuova Guinea.

 

Gli unici capi di governo del G7 presenti sono stati il britannico Keir Starmer e l’italiana Giorgia Meloni. In particolare, la presidente del Consiglio ha evidenziato l’importanza di un approccio pragmatico alla transizione, sostenendo l’adozione di un mix energetico diversificato che integri tutte le tecnologie disponibili per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. Tra le alternative citate, ha incluso non solo le energie rinnovabili, ma anche il gas, i biocarburanti, l’idrogeno, le tecnologie per la cattura della CO₂ e, in prospettiva futura, il nucleare da fusione, descritto come una possibile soluzione per ottenere energia pulita, sicura e virtualmente illimitata.

La sensazione che i negoziati potessero essere sospesi, come accaduto nel 2000, si è manifestata con particolare intensità durante il passaggio tra la prima e la seconda settimana di lavori, quando l’Argentina ha deciso di ritirarsi. L’abbandono argentino, infatti, è stato percepito dalle delegazioni non solo come un segnale di profondo disaccordo sugli impegni nei confronti della lotta al cambiamento climatico, ma anche come un potenziale innesco per un effetto domino.

 

La questione dell’abbandono dei combustibili fossili

Un barlume di speranza per il rilancio dei negoziati è stato acceso dal vertice del G20, svoltosi in concomitanza con la COP29 – il 18 e 19 novembre. Sebbene il ruolo del G20 si sia decisamente ridotto rispetto ad alcuni anni fa, il summit ha comunque rappresentato un momento cruciale per affrontare temi fondamentali come la finanza climatica e le riforme del sistema finanziario internazionale, considerando che i Paesi del G20 rappresentano l’85% dell’economia mondiale, e dunque costituiscono una forza determinante nell’orientare le politiche globali. Tuttavia, con la pubblicazione del documento finale del G20, la speranza si è rivelata effimera, dato che il testo ha solo reso lampante quali sarebbero stati i limiti che avrebbe incontrato anche la COP29.

 

Leggi anche:
Dal G20 alla COP26: i criteri generali di un coordinamento multilaterale
COP27: una conferenza difficile sull’ordine globale
COP 28: “EAU Consensus” come quadro in chiaroscuro

 

 

Nonostante i Paesi del G20 abbiano espresso un generale sostegno per un accordo finanziario ambizioso sul clima, il comunicato finale del summit riconosce infatti solo in modo generico la necessità di mobilitare ingenti risorse finanziarie in quella direzione, senza menzionare direttamente la questione cruciale della graduale eliminazione dei combustibili fossili – uno dei principali fattori del cambiamento climatico.

Nemmeno nel documento finale della COP29 c’è alcun riferimento all’abbandono dei combustibili fossili. Ad ostacolare l’inclusione di questo obiettivo è stata principalmente l’Arabia Saudita, portavoce di una posizione condivisa anche da altri Paesi esportatori di idrocarburi.

Emissioni di CO2 per Paese, pro-capite (2021)

 

Fondi stanziati e aspettative deluse

Le critiche e i dubbi hanno seguito fino all’ultimo i lavori della Conferenza: ad esempio, le prime bozze dell’accordo finale hanno alimentato il malcontento dei Paesi in via di sviluppo che reclamavano l’adozione di risposte più concrete. Anche per questo le trattative, inizialmente previste fino a venerdì 22, si sono protratte per tutta la giornata del sabato, terminando dopo le 2 del mattino (orario azero).

Tuttavia, le critiche da parte di vari Paesi di Asia e Africa, tra cui spiccano India e Nigeria, sono continuate anche quando è stato raggiunto un accordo, giudicato largamente insufficiente. In particolare, hanno espresso indignazione e preoccupazione per l’esito della COP29, definendolo non solo un fallimento, ma un vero e proprio tradimento da parte dei Paesi maggiormente responsabili della crisi climatica.

Intanto, si può però affermare che uno degli scopi principali della Conferenza sia stato comunque raggiunto: ridefinire il nuovo obiettivo di finanza climatica. È stato previsto un aumento dei finanziamenti annuali da 100 ad almeno 300 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni, con l’obiettivo di mobilitare 1.300 miliardi di euro entro il 2035, grazie alla Road Map Baku-Belem. Questa tabella di marcia è un percorso strategico che delinea le azioni e gli impegni necessari per avanzare nella lotta al cambiamento climatico tra l’attuale COP e la prossima che si terrà a Belem, in Brasile, nel 2025.

Secondo gli esperti, la cifra 1.300 miliardi di euro è quella considerata necessaria per attuare la transizione nelle economie dei Paesi in via di sviluppo. Quindi i 300 miliardi di dollari attualmente previsti sono chiaramente insufficienti. La critica più forte riguarda però l’incertezza su chi dovrebbe iniettare questa quantità di denaro, vista la formulazione ambigua del testo che permette diverse interpretazioni.

Una delle discussioni più rilevanti riguarda appunto il fatto che molti Paesi industrializzati hanno spinto la Cina – prima forza industriale e primo emettitore globale di gas serra al mondo – ad abbandonare il suo status di Paese in via di sviluppo, per obbligare anche Pechino a sostenere finanziariamente le economie più fragili. Questo perché le Nazioni Unite classificano i membri in “Paesi industrializzati” e “Paesi in via di sviluppo”: i primi devono fornire risorse finanziarie per aiutare le economie fragili ad affrontare i cambiamenti climatici; mentre per i secondi non è un obbligo. Al termine della Conferenza lo status della Cina non è stato modificato, ma almeno il documento finale incoraggia un contributo anche dai Paesi in via di sviluppo e include le banche di sviluppo, comprese quelle cinesi, tra i donatori.

È stato anche raggiunta un’intesa cruciale sull’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, che istituisce un mercato globale dell’anidride carbonica regolato da standard internazionali per garantire integrità, trasparenza e funzionamento equo del sistema. Il sistema sarà operativo dal prossimo anno e includerà un registro per tracciare i crediti, e regole per gli accordi bilaterali tra Paesi.

Altro risultato rivendicato dalla presidenza della Conferenza è l’attivazione dal 2025 del fondo Loss and Damage per i ristori delle perdite e dei danni del cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Approvato alla COP27 in Egitto di due anni fa, è stato poi implementato durante la successiva a Dubai, grazie a un finanziamento di 700 milioni di dollari. A Baku il fondo è cresciuto a circa 720 milioni di dollari, grazie alla Svezia che ha promesso 200 milioni di corone svedesi (quasi 19 milioni di dollari).

In conclusione, nonostante alcuni risultati significativi raggiunti, permangono forti dubbi sulla loro reale portata e importanza.

Un esempio emblematico riguarda il nuovo NCQG, dato che vi è il rischio che si riveli vuoto di contenuti concreti. Questo timore è alimentato dal fatto che lo stanziamento dei 100 miliardi di dollari annui, deciso durante la COP del 2009, è stato pienamente attuato solo nel 2022, con un ritardo di oltre un decennio. Anche il fondo Loss and Damage, seppur la sua attivazione rappresenti un passo avanti, lascia perplessi, in quanto parte da una cifra ben lontana dalle esigenze reali. Infatti, secondo i dati elaborati dai ricercatori dell’IIASA (International institute for applied systems analysis) e del CMCC (Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), il fabbisogno di perdite e danni dei Paesi vulnerabili varia da 130 a 940 miliardi di dollari solo per il 2025.

 

Leggi anche: La crisi climatica: una crisi umanitaria che pesa sull’Africa sub-sahariana

 

Le Conferenze delle parti, dunque, sembrano sempre più in affanno, ostacolate dagli interessi divergenti dei principali attori internazionali che rendono difficile trovare un terreno comune quando gli impegni da assumere diventano più urgenti e stringenti. Un esempio emblematico è il ruolo dell’Arabia Saudita nell’elaborazione del testo finale di COP29.

È vero che alcuni Stati stanno adottando misure ambiziose: il Regno Unito, ad esempio, si è impegnato a ridurre le emissioni del 68% entro il 2030 e dell’81% entro il 2035, mentre il Messico punta a raggiungere le emissioni zero entro il 2050. Tuttavia, altri Paesi sembrano seguire traiettorie contrarie. Gli Emirati Arabi Uniti, pur dichiarando l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, prevedono un aumento del 34% nell’estrazione di petrolio e gas. Il Brasile, che ospiterà la prossima COP, non ha modificato i suoi obiettivi per il 2030 e stima un incremento del 36% nell’estrazione di combustibili fossili entro il 2035.

Questa mancanza di unità rischia di compromettere gli sforzi globali necessari per affrontare la crisi climatica con la tempestività e la determinazione richieste, soprattutto vista l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Vi è bisogno quindi di dare un nuovo impulso al sistema multilaterale COP per indirizzarlo verso una strada dove il principio delle responsabilità comuni ma differenziate sia condiviso realmente da tutte le parti coinvolte.

 

 

energy transitionclimate crisisfinanceinternational institutionsworlddiplomacyCOP29environmentoilgasclimate changeclimateAzerbaijan