La straordinaria e inattesa vittoria di Donald Trump è stata accompagnata dalla conferma della maggioranza repubblicana al Senato e alla Camera e da un incremento del numero di Governatori repubblicani negli Stati.
Alla Camera, le speranze democratiche di riconquista della maggioranza erano basse sin dall’inizio e poggiavano su un’eventuale larga vittoria di Hillary Clinton. Il quadro post-elettorale, fino al mid-term del novembre 2018, è ora di 241 deputati a 194 a favore dei Repubblicani, con due seggi della Louisiana ancora da assegnare. I Democratici sono riusciti a guadagnare complessivamente 6 deputati, avendo strappato 8 seggi a fronte delle 2 conquiste repubblicane di distretti democratici. Il passaggio di mano di appena 10 seggi su 435 testimonia più di ogni altra cosa la sempre maggiore non contendibilità dei distretti elettorali alla Camera. A causa dell’ultimo redistricting, effettuato a seguito del censimento della popolazione del 2010, i seggi contendibili sono diventati pochi e i Repubblicani si sono assicurati un vantaggio competitivo che potrebbe garantir loro la maggioranza della Camera almeno fino al prossimo censimento decennale. Il potere di ridisegnare le mappe dei distretti elettorali spetta infatti alle assemblee legislative statali e all’epoca della pubblicazione dei dati dell’ultimo censimento la maggioranza dei parlamenti locali era in mano repubblicana.
Il controllo del Senato era invece considerato in bilico. Se ne rinnovava un terzo e il computo finale dà ora 51 senatori Repubblicani, 46 Democratici e 2 indipendenti (Angus King e Bernie Sanders) che quasi sempre votano con i Democratici. Anche qui vi è un seggio della Louisiana che sarà assegnato il 10 dicembre – stante la particolarità della legge elettorale locale. Per il partito del Presidente-eletto, è un margine che non arriva dunque alla soglia dei tre quinti per superare il cosiddetto filibustering, cioè l’ostruzionismo della minoranza che può rendere difficile l’approvazione delle leggi.
I Democratici, che partivano da una situazione di svantaggio 46-54 avevano messo nel mirino 5 seggi che potevano essere oggetto di conquista: Illinois, Nevada, New Hampshire, Pennsylvania e Wisconsin. Nel primo, lo Stato del Presidente Obama, l’eroina della guerra in Iraq Tammy Duckworth ha sconfitto il rivale repubblicano in una corsa che si è caratterizzata per attacchi personali che hanno riguardato la disabilità della candidata (che in guerra ha perso entrambe le gambe), provenienza etnica e cursus honorum al fronte militare. In Nevada, il candidato democratico ispano-americano Cortez-Masto si è imposto sul Repubblicano Joe Heck, confermando come il silver state – oggetto di profondi cambiamenti demografici (si stima che già entro vent’anni lo Stato potrà essere a maggioranza ispanica) sia stato uno dei pochi Stati a portare buone notizie ai democratici, con un seggio senatoriale e due deputati strappati ai Repubblicani, oltre a una vittoria della Clinton a livello presidenziale.
Gli altri tre obiettivi democratici sono stati però mancati: in New Hampshire si è confermata la popolare senatrice repubblicana Kelly Ayotte, mentre le maggiori delusioni democratiche sono arrivate anche in questo caso da Pennsylvania e Wisconsin: così come si pensava che i due Stati sarebbero stati vinti dalla Clinton, anche nel contesto senatoriale i sondaggi davano ottime possibilità di una riconquista democratica. Per intenderci, la Pennsylvania a livello presidenziale ha votato sempre democratico dal 1992, mentre il Wisconsin fu addirittura uno dei pochi Stati a preferire Michael Dukakis (sconfitto nettamente da Bush senior a livello nazionale) nelle presidenziali del 1988. Prima di Trump quindi, l’ultimo candidato repubblicano a imporsi qui fu Ronald Reagan nel 1984.
Alla fine però, la spinta che ha portato Trump alla Casa Bianca si è riverberata anche nel voto per il Congresso: in Pennsylvania, l’uscente repubblicano Pat Toomey si è imposto sullo sfidante democratico McGinty di due punti scarsi, mentre in Wisconsin l’uscente Ron Johnson ha superato di centomila voti l’esperto democratico Russ Feingold (in una ripetizione della sfida del 2010, quando l’allora sfidante repubblicano disarcionò Feingold dal seggio che deteneva da 18 anni). I Democratici al Senato hanno quindi ottenuto un saldo positivo di 2 seggi, inferiore alle aspettative e inutile ai fini della conquista della maggioranza.
Le corse a Governatore erano particolarmente attese. Grazie alle numerose leggi statali che fissano limiti di mandato, spesso non sono presenti incumbent e le guide degli Stati sono quindi contendibili – al contrario appunto di molti seggi del Congresso. I posti in palio erano 12, con 8 Stati a guida democratica al voto contro i soli 4 repubblicani.
Erano attese quindi conquiste repubblicane, e così è accaduto. Se in Missouri, Stato di tradizione conservatrice, questo esito era logico, più rumore hanno fatto le vittorie in New Hampshire e Vermont. Nel granite state, Chris Sununu, terzo esponente dell’omonima dinastia (il padre fu già Governatore, il fratello è stato Senatore federale) ha superato di misura il rivale democratico Van Ostern mentre in Vermont (lo Stato di Bernie Sanders) il Repubblicano Phil Scott ha battuto nettamente la giovane candidata democratica Sue Minter. Sebbene i due piccoli Stati del New England siano due feudi democratici quando si vota per la presidenza, va ricordato che si tratta degli unici due Stati dove i Governatori restano in carica per appena due anni e quindi un’alternanza di governo è comunque abbastanza prevedibile.
L’unica buona notizia per i Democratici arriva dal North Carolina (altro swing state vinto da Trump), dove Roy Cooper sembra essere riuscito a defenestrare Pat McCrory, beniamino dell’elettorato conservatore. Il Governatore repubblicano uscente era finito nell’occhio del ciclone per una legge nota come bathroom bill – che impone l’uso dei bagni e degli spogliatoi pubblici in base al genere indicato sullo stato di nascita e non sulle condizioni attuali, rilevanti ovviamente in caso di cambio di sesso. Il decreto è stato osteggiato dalle associazioni gay e dai movimenti per i diritti civili perché giudicato discriminatorio verso le persone transgender. Poiché lo scarto tra i due candidati è di poche migliaia di voti, McCrory non ha ancora concesso la vittoria al rivale democratico e pare orientato a chiedere un riconteggio. Il verdetto non dovrebbe essere tuttavia in dubbio.
Il computo totale della tornata 2016, per quel che riguarda i Governatori, recita quindi +2 per i Repubblicani (che salgono a 33), -2 per i Democratici che scendono a 16. Rimane infine un governatore indipendente, Bill Walker eletto in Alaska nel 2014.
Se non fosse per l’eccentricità del pedigree politico di Donald Trump, che di certo non rispecchia l’idealtipo conservatore, l’8 novembre 2016 rappresenterebbe già una data storica per i Repubblicani: conquistano la Casa Bianca, confermano la maggioranza di Camera e Senato, mantengono 2/3 dei Governatori degli stati e presto dovrebbero rimarcare la loro influenza sulla Corte Suprema. Il posto lasciato vacante dalla prematura morte di Antonin Scalia non verrà preso dal moderato Merrick Garland, proposto da Obama e finora bloccato dal veto repubblicano in Senato. Il Presidente-eletto ha già annunciato l’intenzione di nominare un giudice pro life e pro armi, che non avrà difficoltà a ottenere la conferma dal Senato a maggioranza repubblicana.
Infine c’è lo psicodramma democratico, unito a un serio problema di ricambio generazionale: l’esponente più popolare del partito è un giovanile politico 55enne che però ha già servito due mandati presidenziali e non potrà più essere candidato ad alcunché. Alle ultime primarie si sono sfidati una donna di 69 anni che ora sarà il capro espiatorio dell’epocale sconfitta appena patita e un 75enne progressista/socialista (Bernie Sanders) che inevitabilmente non dispone di una lunga carriera politica davanti a sé. Il Vicepresidente uscente (Joe Biden) è apprezzato anche da molti avversari politici ma anch’egli, nato nel ’42, ha molte primavere alle spalle. Dietro di loro, non sembra che vi siano giovani in grado di emergere nell’immediato futuro.
È vero che la politica americana ha ormai cicli brevissimi e le suggestioni mediatiche sono già cominciate (si veda alla voce Michelle Obama). Ma ora il partito deve affrontare un rinnovamento che solo lo scorso anno sembrava essere necessario più che altro per i Repubblicani, in virtù dei trend demografici e del favore mantenuto tra i giovani, che sembrava preludere a un’agevole conferma alla presidenza.
Mentre molti ritengono che i mutamenti demografici favoriscano tuttora i Democratici (visto che ispanici e asiatici gravitano su posizioni genericamente “progressiste”), non è più scontato che il Partito di Obama possa garantirsi sempre e comunque il loro voto. In realtà, dopo il terremoto politico del novembre 2016 nulla andrebbe dato per scontato.