Competizione hi-tech: una guerra di nervi

Articolo tratto dal numero 85 di Aspenia

La competizione tecnologica tra grandi potenze è prima di tutto una guerra dei nervi. Questa, del resto, è la psicologia delle nazioni. Quando una nuova tecnologia sembra essere sul punto di stravolgere l’ordine globale, inizia la corsa a chi riesce ad assicurarsene se non il monopolio, quantomeno il predominio. Tuttavia, sviluppare appieno una tecnologia di cui si conosce solo il potenziale implica commettere molte false partenze. Per mantenere un vantaggio competitivo almeno apparente, bisogna allora logorare psicologicamente l’avversario, giocando sull’effetto sorpresa, ingannandolo sui risultati raggiunti e facendo leva su false impressioni alimentate dalla segretezza dei piani di sviluppo tecnologico.

La corsa allo spazio e agli armamenti nucleari seguirono dinamiche di questo genere. La sfida per l’egemonia dell’intelligenza artificiale non sembra da meno, anche se rischia di essere ancora più snervante. Nonostante il presidente russo Vladimir Putin sostenga che chi controllerà questa tecnologia sarà il sovrano del mondo, nessuno sa davvero se e in quale modo l’intelligenza artificiale si tradurrà effettivamente in una nuova dimensione di potere tale da determinare l’egemonia geopolitica da parte di una singola nazione. Anche qualora gli scenari fantascientifici più estremi dovessero materializzarsi, ci vorranno decenni prima che un simile stravolgimento tecnologico possa dispiegare appieno i suoi effetti. Per comprendere la ragione di una simile cautela di giudizio è necessario soffermarsi su alcune caratteristiche chiave dell’intelligenza artificiale.

 

 

QUALE INTELLIGENZA ARTIFICIALE? Rispetto alle corse tecnologiche del passato, l’intelligenza artificiale pone una sfida unica. Quando, durante la guerra fredda, Washington e Mosca si sfidavano sul fronte nucleare e spaziale, l’obiettivo era chiaro a tutti: costruire quanti più missili balistici possibili oppure conquistare la Luna. L’intelligenza artificiale, invece, rimane un animale misterioso. A oggi, nessuno sa con certezza se il suo utilizzo rimarrà ristretto allo svolgimento di poche mansioni più o meno complesse (come guidare un’automobile, assegnare un rating creditizio o selezionare un target militare), o se si arriverà alla creazione di un’intelligenza quantomeno paragonabile a quella umana, se non addirittura superiore. Nel primo caso, il leader tecnologico vanterebbe certamente un vantaggio competitivo importante, sia di natura economica sia militare, ma non tale da determinare il destino dell’umanità al pari di un munito arsenale nucleare. Nel secondo, invece, la sottomissione a una sorta di forza superiore sarebbe inevitabile — forse anche da parte del suo stesso inventore.

Alcuni esperti, intervistati da due guru tecnologici del calibro di Vincent Muller e Nick Bostrom, sostengono che vi sia una probabilità del 50% che entro il 2045 si arrivi alla cosiddetta singolarità, ossia alla creazione di una macchina ultra-intelligente, capace di progettare in autonomia macchine sempre migliori. Una simile “esplosione di intelligenza” renderebbe il ruolo dell’uomo ridondante e ne potrebbe perfino minacciare l’esistenza. Altri osservano che si dovrà aspettare fino al 2075 per raggiungere un simile traguardo. Altri ancora, invece, ritengono che sarà una questione di qualche centinaio d’anni. Non bisogna però dimenticare che gli addetti ai lavori in qualunque filone di ricerca tendono a gonfiare le aspettative relative alle proprie innovazioni allo scopo di attrarre attenzione, fama e finanziamenti. Si pensi, per esempio, all’imprenditore visionario Elon Musk, fondatore della società privata di viaggi spaziali SpaceX, il quale sostiene la necessità di colonizzare Marte per salvare l’umanità dalla sua distruzione a opera di una qualche macchina diabolica.

L’ordine globale futuro dipenderà da chi saprà immaginare nel modo più accurato la direzione che l’intelligenza artificiale potrà effettivamente prendere. Investimenti grandiosi in programmi di ricerca volti a costruire macchine capaci di sostituire l’uomo nel processo decisionale potrebbero rivelarsi uno spreco di risorse pubbliche e private, frutto di una visione distorta del futuro. Allo stesso tempo, strategie meno ambiziose, dirette allo sviluppo di un ristretto numero di competenze artificiali potrebbero condannare una potenza a un ruolo secondario all’interno del sistema internazionale.

 

LA VISIONE CINESE E QUELLA AMERICANA. Cina e Stati Uniti, al momento le uniche due potenze che possano realisticamente contendersi lo scettro di leader incontrastati dell’intelligenza artificiale, stanno facendo scommesse diametralmente opposte sul futuro di questa tecnologia. Pechino sembra puntare, se non proprio sullo sviluppo di una singolarità, quantomeno su macchine capaci di prendere decisioni strategiche in modo autonomo in situazioni di forte complessità. Washington, invece, ha un approccio più conservativo sul tema, maggiormente incentrato su un rapporto di collaborazione tra uomo e macchina, piuttosto che di competizione agguerrita tra i due.

Nel luglio 2017 la Cina annunciò il New Generation Artificial Intelligence Development Plan, con l’obiettivo dichiarato di diventare entro il 2030 il leader mondiale dell’intelligenza artificiale grazie a investimenti pari a 150 miliardi di dollari, che coinvolgeranno aziende, università e agenzie governative. Una strategia così ambiziosa nasce da una sorta di trauma nazionale. Pochi mesi prima del suo annuncio, il sistema di intelligenza artificiale AlphaGo sconfisse il campione di Go, Lee Sedol. Go è considerato il gioco di strategia più complesso al mondo e il più popolare in Asia, dove fu inventato oltre 2.500 anni fa. Secondo alcuni commentatori, la sconfitta di Sedol, vista in televisione da oltre 280 milioni di Cinesi e inflitta da un software sviluppato da un gigante tecnologico straniero come l’americana Alphabet, rappresentò per Pechino una sorta di “Sputnik moment” che toccò l’orgoglio nazionale del Dragone. Senza un cambio di passo la corsa verso il futuro sarebbe stata persa a priori.

Una simile ambizione non poteva lasciare Washington indifferente. Donald Trump è dapprima ricorso alla minaccia protezionistica per costringere la Cina a rivedere le proprie aspirazioni tecnologiche in cambio di una tregua commerciale. Poi, ha approvato l’American AI Initiative, il cui scopo è quello di aumentare il supporto federale alle attività di ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale, ma lasciando di fatto l’iniziativa nelle mani di singoli attori privati, guidati da logiche di profitto, in singole nicchie di mercato. Insomma, si tratta di una strategia senza coordinamento che, escludendo la possibilità di creare una intelligenza artificiale generica, punta allo sviluppo di macchine altamente specializzate.

L’ampio ventaglio di potenzialità dell’intelligenza artificiale renderà questa competizione altamente instabile, oltre che incerta, costringendo chi arranca a rivedere la propria strategia con l’affanno di colui che si sente già condannato ai margini del sistema. Inoltre, a differenza di altre gare come quella per il nucleare che richiedevano forti investimenti in capitale fisico, l’intelligenza artificiale altro non è se non un software, il cui potenziale di sviluppo dipende da forti investimenti in capitale intangibile. Questa intangibilità renderà ancora più difficile valutare a che punto della corsa si trovino le singole potenze, alimentando speculazioni, insicurezza e ansie reciproche.

 

UNA TECNOLOGIA ABILITANTE. A prescindere dalla forma che l’intelligenza artificiale dovesse prendere, ma soprattutto nello scenario più realistico di un intelligenza artificiale specializzata piuttosto che generale, la capacità di proiettare potere da parte di questa tecnologia dipenderà non tanto dalla sua concentrazione nelle mani di un singolo attore quanto dalla sua totale diffusione all’interno del sistema economico. Prima ancora delle sue applicazioni militari, vengono, del resto, quelle economiche e sociali. Al pari del motore a scoppio, dell’elettricità o dell’informatica, che hanno alimentato le rivoluzioni industriali del passato, l’intelligenza artificiale è la tecnologia abilitante alla base della Quarta Rivoluzione Industriale. Grazie a essa si renderanno i robot smart, si faciliterà l’analisi dei Big Data, si potrà personalizzare praticamente qualsiasi prodotto e si controlleranno processi industriali più complessi.

Non a caso, a differenza della corsa al nucleare che fu guidata e coordinata da attori governativi, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è una prerogativa di attori privati non solo negli Stati Uniti ma anche in Cina. Alibaba, Baidu, iFlytek e Tencent giocano un ruolo chiave all’interno della strategia tecnologica di Pechino. A ogni azienda è stato assegnato l’incarico di sviluppare specifici aspetti dell’intelligenza artificiale, dal riconoscimento vocale alla guida autonoma. Proprio la sua natura di tecnologia abilitante rende il grado di penetrazione dell’intelligenza artificiale una variabile chiave per comprenderne la sua effettiva capacità di sovvertire le gerarchie internazionali di hard power, virando l’ordine globale in una direzione piuttosto in un’altra. A dispetto di altre tecnologie del passato, la supremazia tecnologica in questo campo non si tradurrà necessariamente in egemonia politica.

Ipotizziamo che questa tecnologia si diffonda in modo pervasivo solo all’interno di un singolo sistema economico, diciamo quello americano o quello cinese. Questo determinerà ovviamente un enorme vantaggio economico e verosimilmente militare per il suo detentore, che si tradurrebbe certamente in un aumento di influenza geopolitica attraverso un processo di attrazione e coercizione. Tuttavia, per essere qualcosa di più di una semplice arma militare altamente sofisticata, anche i potenziali avversari del leader tecnologico dovranno aver adottato questa tecnologia in modo massiccio.

Per vantare un potere annichilante paragonabile alla bomba atomica, l’intelligenza artificiale deve essere così diffusa all’interno di un paese nemico da permettere a un algoritmo di penetrare e destabilizzare il sistema socio-economico dell’avversario. E, vista la duttilità di applicazioni dell’intelligenza artificiale, si tratterà di una battaglia che dovrà essere combattuta su diversi fronti allo stesso tempo. Paradossalmente, tanto più basso il grado di sofisticatezza tecnologica, tanto meno vulnerabile un paese (soprattutto piccolo) sarà alle minacce dell’intelligenza artificiale.

 

UN PROCESSO DI DIFFUSIONE LENTO. Dato che per definizione le tecnologie abilitanti possono essere utilizzate nei modi più svariati, i loro tempi di adozione tendono a essere piuttosto lunghi. Solitamente ci vogliono oltre trent’anni prima che si raggiunga una massa critica sufficiente. Ci sono voluti più di due decenni prima che l’elettricità superasse il vapore come fonte di energia principale nelle attività produttive e quasi quattro decenni prima che diventasse la fonte di energia per eccellenza. Vi è una logica in tutto questo: per utilizzare l’elettricità, i governi hanno dovuto investire in reti elettriche sul territorio nazionale; gli innovatori hanno dovuto inventare tecnologie complementari, come lampadine, cavi e interruttori; i burocrati hanno dovuto concordare standard, come la tensione della corrente e la forma delle prese elettriche; e, infine, le imprese hanno dovuto creare prodotti compatibili con la nuova fonte di energia.

Vista la sua complessità e la sua continua evoluzione, i tempi di sviluppo e adozione dell’intelligenza artificiale potrebbero andare ben oltre il 2035. Ci sono voluti oltre quattro decenni di ricerca affinché il supercomputer Deep Blue di ibm sconfiggesse il campione di scacchi Garri Kasparov e ce ne sono voluti quasi altri due per vedere il sistema ibm Watson vincere un milione di dollari al quiz televisivo Jeopardy. Da allora importanti innovazioni hanno riguardato la classificazione dei tumori alla pelle e il riconoscimento vocale, ma le attività relative all’intelligenza artificiale sono per lo più rimaste prerogativa di giganti tecnologici o di start-up altamente specializzate a rapida crescita.

Analogamente, uno studio dell’ocse rileva che il divario di produttività tra le imprese alla frontiera tecnologica e tutte le altre si è notevolmente ampliato nell’ultimo decennio — e le prime tendono a rappresentare una minoranza, circa il 10% del totale. Molte delle tecnologie avanzate di cui si sente parlare nei media sono semplicemente inaccessibili per la maggior parte delle imprese e questo si è riflesso in deludenti statistiche relative alla produttività di tutte le economie avanzate, nonostante si viva in un’era di continue trasformazioni tecnologiche – almeno apparenti.

Per molti anni ancora non sarà chiaro chi starà vincendo questa gara tecnologica e quali saranno le sue effettive implicazioni. Estrapolare dal passato potrebbe essere un approccio troppo semplicistico per comprendere questa rivoluzione tecnologica dalle caratteristiche uniche. Vi è un sola certezza, però. Il timore di essere sul binario sbagliato o troppo distanti dal leader potrebbe portare molte nazioni a una crisi di nervi.

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