Come l’Europa (non) racconta sé stessa

La difficoltà di comunicare, di rompere la “bolla” che separa le istituzioni dai cittadini, è un problema costante della politica europea. Una difficoltà ormai proverbiale, simbolo della distanza di Bruxelles dagli europei in carne e ossa, e palpabile anche in occasione del sessantenario dei Trattati di Roma: pensiamo per un attimo alla differenza di impatto, di copertura, di reazione con un evento come l’Inauguration del Presidente degli Stati Uniti. Il “Sixty is sexy” proposto nei giorni scorsi come slogan per l’Unione dal giornalista Beppe Severgnini è stato ben lontano non solo dalla realizzazione, ma anche dal concepimento.

L’incapacità dell’Unione di comunicare sé stessa non è questione di lana caprina: si tratta di un deficit rilevante, che inficia nel profondo non solo la legittimità dei cosiddetti “eurocrati”, ma anche l’efficacia stessa dell’azione politica dell’UE. Non essere in grado di trasmettere una visione positiva comporta per la classe politica europea lasciare piede libero ai partiti populisti ed euroscettici nel racconto della politica continentale, e quindi permettere loro di costruire una narrazione di opposizione potenzialmente egemonica. È un processo che nessun governo nazionale lascia accadere, in patria.

La narrativa di opposizione all’Unione Europea, dal canto suo, potrà anche avere poca corrispondenza con i dati reali; ma questo conta poco. Quello che conta, come dimostra la Brexit, sono i suoi effetti elettorali tangibili.

Non bisogna pensare però che le istituzioni europee non tentino di fare la loro parte. Soprattutto a partire dal Trattato di Lisbona (2007), si è visto un aumento di comunicazioni e di trasparenza sulle attività politico-istituzionali e un desiderio di apertura all’esterno che ha pochi uguali. Tra frequenti incontri con le ONG da parte dei capi delle Direzioni Generali, documenti di vario tipo resi pubblici, e copiosi investimenti nel servizio audio-televisivo di Commissione e Parlamento, l’UE si trova a oggi in una posizione piuttosto virtuosa rispetto ad altri governi e burocrazie di simili dimensioni.

Ma tra informazione comunicazione resta una grande differenza: non basta un output informativo  consistente per essere dei bravi comunicatori; bisogna anche che il messaggio desiderato arrivi con coerenza, continuità e giusta intensità. Questa è la parte in cui le istituzioni europee continuano a fallire anche oggi: la mole di informazione prodotta non supera il confine di una (relativamente) ristretta élite che di Unione Europea si occupa per lavoro o per interesse. Quella parte di società che per posizione economico-sociale e convinzione ideologica è più lontana da Bruxelles spesso non ne viene nemmeno sfiorata.

Una tale incapacità è solo in parte frutto di una inadeguatezza politica. Più correttamente, possono esserne isolate alcune cause congenite.

Mappa delle lingue d’Europa, 1907

 

Per prima cosa, bisogna rimarcare come l’Europa continui appunto a essere un tema non sexy: troppo centrata sulle policies, poco sulla politics, l’attività legislativa sconta un eccessivo tecnicismo e una lunghezza del processo decisionale che male si presta a semplificazioni o abbellimenti. Ciò la rende al contrario ideale per chi vuole trasmettere l’idea di un sistema grigio, freddo e illegittimo, che decide di cose di cui non dovrebbe occuparsi, o comunque astruse o inutili. Ne è nato un filone tutto particolare di giornalismo “scandalistico”, abile a monetizzare la complessità di certe procedure. Il capofila di chi raccontava di istituzioni europee tenacemente impegnate nella misurazione della curvatura delle banane o della lunghezza dei cetrioli fu, negli anni ’90, colui che oggi è il ministro degli Esteri britannico: Boris Johnson.

Inoltre, il sistema istituzionale dell’UE non si presta a storie semplici: con la sua tripartizione tra Consiglio, Commissione e Parlamento, i suoi “trialoghi” e i meccanismi di co-decisione, si tratta di una struttura costituzionalmente centrata sul compromesso e sui negoziati. Con la conseguenza di risultare complicata e quasi incomprensibile a molti, oltre che isolata dalla quotidianità.

Alla questione delle materie e a quella istituzionale si somma infine un terzo aspetto fondamentale: non esiste un vero e proprio demos europeo, che condivida un dibattito politico comune, bisogni e sentimenti. E manca una lingua condivisa da tutti. L’unica eccezione è quell’élite transnazionale che s’informa e comunica quasi sempre nel suo secondo idioma: l’inglese standard. Per il resto, non esiste un’opinione pubblica europea, ma ne esiste una per ogni nazione dell’UE. Per quanto si possano registrare tendenze economiche, politiche e sociali transnazionali, per la maggior parte delle persone l’informazione politica arriva attraverso canali nazionali: perciò, anche quando questo non è l’obiettivo dei media, quelle tendenze transnazionali saranno quasi sempre messe a fuoco da un punto di vista parziale. Non c’è bisogno di dire che una tale situazione fa il gioco di quei capi di stato e di governo che riuniti nel Consiglio europeo prendono decisioni impopolari di cui, una volta tornati in patria, fanno ricadere la colpa sull’”Europa”.

D’altro canto, la “bolla” di Bruxelles sembra consapevole dell’urgenza di correggere la sua incapacità di raggiungere e formare l’opinione pubblica, in un momento in cui si moltiplica sia il numero dei mezzi di comunicazione, sia la frequenza e la velocità della diffusione delle notizie, sia la loro potenziale pervasività – grazie ai cambiamenti tecnologici. Il ruolo più attivo assunto dalla Commissione negli ultimi anni come ne è un esempio, così come l’insistenza del suo presidente Jean-Claude Juncker di voler rendere la sua Commissione più “politica”, più simile a un governo nazionale che a un gabinetto di burocrati. Oppure, l’attivismo di alcuni Commissari più “fotogenici”, come Margrethe Vestager, Frans Timmermans o Jirky Katainen, spesso attivi in veri e propri tour di pubbliche relazioni e sui social media. Su Facebook e su Twitter si notano di più alcuni tra i protagonisti del Parlamento europeo, come il liberale Guy Verhofstadt, controbattere sullo stesso terreno gli euroscettici – molto presenti sul web perché spesso trascurati dai media tradizionali nei loro paesi. Gli Spitzenkandidaten – ossia i capilista portabandiera del partito apparsi alle ultime elezioni europee – hanno anche loro certamente reso più identificabili le forze politiche che nella loro composizione bruxellese sono poco riconoscibili rispetto alle singole arene politiche nazionali.

Si tratta di passi importanti e necessari, ma non sufficienti. Affinché il processo di formazione di un’opinione pubblica veramente europea si compia, serve anche qualcos’altro: le istituzioni europee devono perdere il monopolio del diritto di raccontarsi. Se la narrazione dell’Unione resta un’emanazione del quartiere europeo di Bruxelles – come ora è, per forza di cose più che per scelta – non sarà mai davvero condivisa.

è su questa linea, dopotutto, che si muove la proposta fatta qualche mese fa da Gilles Merrit, direttore del think tank Friends of Europe, su Politico.eu: puntare sui media locali, finanziandone dei corrispondenti affinché “traducano” la politica europea attraverso storie di interesse vicino e immediato. Forse, per diventare sexy at sixty, l’Europa dovrà davvero “pensare in piccolo”.

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