A margine della 78 ͣ sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scorso settembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu si sono incontrati per suggellare, tra sorrisi e calorose strette di mano, la ritrovata amicizia tra i loro Paesi. In quell’occasione, il Primo ministro dello Stato ebraico aveva anche ricevuto un invito per recarsi ad Ankara. La visita avrebbe sancito solennemente la fine dei dissapori che, per un decennio, hanno avvelenato le relazioni turco-israeliane. È evidente che nessuno dei due leader fosse in quel momento a conoscenza dell’operazione “Alluvione di Al-Aqsa” in preparazione tra le vie sovraffollate della Striscia di Gaza e i covi segreti di Hamas. Nemmeno l’MİT, la potente intelligence di Ankara, si era accorto che qualcosa di inedito stava per vedere la luce all’alba del 7 ottobre e nessuna cautela particolare era stata suggerita per le parole da spendere negli incontri a New York.
La questione palestinese, declassata ormai a stanco orpello retorico in tutti i discorsi sui futuri assetti del Medio Oriente, è ritornata di prepotente attualità. Questo diminuisce gli spazi di manovra della spregiudicata azione geopolitica di Ankara e limita le possibilità della Turchia di giocare su più tavoli. L’audace approccio fatto di geometrie variabili nei rapporti con i principali attori dello scacchiere regionale appare sempre più difficile da mantenere. Il rischio è che, seppur a malincuore, debbano essere fatte delle scelte di campo suscettibili di intralciare gli ambiziosi piani di ascesa dello stato anatolico. E le relazioni con Israele potrebbero non sopravvivere alle bombe e alla violenza di queste settimane di sangue.
Alle origini di tensioni che sembravano superate
La guerra a Gaza e i timori di un allargamento del conflitto giungono nel momento in cui la Turchia e Israele stavano per consolidare ampie collaborazioni. Dal contenimento dell’Iran e delle sue velleità regionali alle partite energetiche, dagli interessi marittimi nel Levante mediterraneo alla cooperazione militare e industriale, i due Paesi lavoravano per lasciarsi alle spalle gli attriti del recente passato. Eppure, non sono affatto lontani i tempi della retorica incendiaria di Erdoğan per denunciare i soprusi dello Stato ebraico ai danni dei palestinesi. Il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, nella sua ascesa ai vertici dello Stato turco, aveva infatti cercato di accreditarsi come punto di riferimento politico del mondo sunnita. Nelle sue intenzioni, la Turchia avrebbe guidato, grazie ai cospicui finanziamenti del Qatar, la galassia delle formazioni afferenti alla Fratellanza Musulmana, dandole nuova linfa vitale. Tra queste organizzazioni, anche Hamas ha avuto un posto di rilievo fino al 2017.
Non sorprende quindi che i rapporti con Israele, percepito come un rivale nella regione perché di inciampo sul cammino della piena affermazione dell’Islam politico, abbiano subito momenti di forte tensione. Le prime avvisaglie c’erano state già nel 2010, con gli incidenti della nave Mavi Marmara, facente parte di una flottiglia di attivisti filopalestinesi, che trasportava aiuti umanitari e materiali da costruzione verso Gaza, con l’intento di forzare il blocco imposto da Israele. In quell’occasione, gli scontri con le forze speciali israeliane avevano provocato una decina di vittime e un drammatico deterioramento delle relazioni con Ankara.
L’utilità di ergersi a protettrice della causa palestinese è progressivamente venuta meno per la Turchia, anche se non del tutto, quando il vento dell’Islam politico si è affievolito. Dopo le rivolte/rivoluzioni del 2011, tra il Nord Africa e il Medio Oriente c’è stato un consolidamento di regimi ostili ai programmi della Fratellanza Musulmana, dall’Egitto di Abdel Fattah Al Sisi all’Arabia Saudita di Muhammad bin Salman. Oltre a tutto questo, Ankara ha cominciato a guardare con disappunto allo scivolamento di Hamas nell’orbita iraniana. L’organizzazione politico-terroristica, al governo di Gaza dal 2007, ha trovato nella Repubblica islamica, che non ha mai fatto mistero del suo proposito di cancellare lo Stato di Israele dalla carta geografica, un alleato fondamentale. Le diverse appartenenze confessionali e i divergenti obiettivi strategici sono stati accantonati dinanzi al comune nemico sionista. Questo non ha impedito a Hamas di mantenere legami con i suoi principali referenti del passato, compresa la Turchia. Ma la sua utilità come mezzo per il raggiungimento degli obiettivi di Ankara nell’area si è stemperata.
Un riavvicinamento fatto di convenienze reciproche
Il sopraggiunto disinteresse di Erdoğan ad accreditarsi come paladino della resistenza palestinese ha certamente contribuito a considerare le relazioni con lo Stato ebraico sotto una nuova luce. Ma hanno pesato soprattutto valutazioni funzionali alla difesa e alla promozione dei fini strategici turchi. Da diversi anni, questi sono incentrati sull’accrescimento del peso dell’ influenza turca in Nord Africa, Medio Oriente e Asia centrale. Nel Levante, sono due le partite che Ankara intende giocare, entrambe compatibili con gli interessi di Israele: il contenimento dell’Iran e la sicurezza energetica. Intorno a questi due dossier si stavano ponendo le basi per un’inedita coalizione di Paesi che, attorno al nucleo turco-israeliano, avrebbe aggregato anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Solo il Qatar, pur essendo un grande alleato della Turchia, sembrava disinteressato ad avviare il processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, mantenendo così il ruolo di battitore libero nell’intricato schema di pesi e contrappesi tra i Paesi del Golfo.
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Il nuovo attivismo politico della Türkiye in Medio Oriente
La rivalità turco-persiana è vecchia di secoli e si è manifestata in vari scenari. Ad Ankara hanno gioito quando i disegni egemonici di Teheran sul Medio Oriente hanno conosciuto un’improvvisa battuta d’arresto a partire dal 2020. A gennaio di quell’anno, il generale Qassem Soleimani, principale ispiratore del progetto di creare un “crescente sciita” esteso dal confine con il Pakistan fino alle coste del Mediterraneo, fu ucciso per mano americana nelle vicinanze dell’aeroporto di Baghdad. La massima pressione economica voluta dall’amministrazione Trump e il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul programma nucleare degli ayatollah del 2015 avevano già indebolito le capacità operative iraniane. Ma la Repubblica islamica dispone ancora di tanti proxy sparsi nella regione, da Hezbollah in Libano agli Houthi in Yemen alle formazioni di varia natura operanti in Siria.
Proprio in questo Paese, si è determinata una prima convergenza di interessi turco-israeliani. L’aviazione dello Stato ebraico, con cadenza abbastanza regolare, colpisce infrastrutture e depositi di materiali forniti da Teheran sia al regime di Bashar al Assad sia alle milizie attive a livello locale. Parte di questi equipaggiamenti finisce anche ai curdi fedeli a Damasco, soprattutto nella parte nord-occidentale della Siria. Ed è proprio in quest’area che la Turchia cerca di contrastare le attività del PKK (l’organizzazione curda militante) e di bloccare l’afflusso di rifornimenti per evitare attività considerate sovversive al di là della frontiera.
La comune necessità di contenere l’influenza iraniana ha portato i servizi segreti turchi e israeliani a collaborare non solo in Siria, ma anche nell’Iraq settentrionale, a spese dei curdi di Erbil, nonché nel Caucaso meridionale. Qui gli azeri, che i turchi considerano come una nazione sorella, hanno da poco ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh, dopo un trentennale conflitto con i gruppi separatisti appoggiati dall’Armenia. L’Azerbaigian ha acquistato gran parte dei sofisticati armamenti capaci di fare la differenza nella guerra proprio da Israele. Tra il 2016 e il 2020, dallo Stato ebraico è giunto quasi il 70% del materiale bellico consegnato a Baku, dando notevole spinta all’industria della difesa israeliana. La vittoria azera soddisfa quindi sia Ankara che Gerusalemme. La proiezione dell’Iran, vicino alle posizioni armene, ne esce molto indebolita. Sul piano energetico, Israele, che soddisfa il 40% del suo fabbisogno petrolifero proprio grazie alle importazioni dall’Azerbaigian, può continuare a contare sulla regolarità delle forniture.
Proprio questo settore geografico ha fatto da catalizzatore al rafforzamento delle relazioni turco-israeliane. Oltre ai comuni interessi intorno al Mar Caspio, i due Paesi hanno obiettivi complementari anche nel Mediterraneo. Ankara punta a diventare un hub energetico di capitale importanza per l’Europa grazie alla sua vicinanza geografica ai ricchi giacimenti di gas del bacino levantino. L’obiettivo è di ospitare le infrastrutture che permetteranno agli idrocarburi prodotti nelle zone economiche esclusive di Israele ed Egitto di essere trasportati verso Occidente. Ecco perché i turchi hanno lavorato anche per migliorare le relazioni con Il Cairo, dopo che il regime di Muhammad Morsi, espressione della Fratellanza Musulmana, era stato rovesciato dai militari guidati da Al Sisi nel 2013. Il progetto di un gasdotto sottomarino collegato alla rete di distribuzione turca farebbe di Ankara un player energetico importante, pur non disponendo del controllo diretto di giacimenti offshore.
Le difficili scelte che aspettano la Turchia
L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la guerra che ne è derivata hanno collocato la Turchia in una posizione molto scomoda. Da un lato, gli interessi in gioco sono consistenti e l’intesa con Israele si è rivelata vantaggiosa in scacchieri solo apparentemente privi di collegamento. Dall’altro, i dirigenti turchi non possono ignorare il peso della piazza e dell’opinione pubblica, che in tutto il mondo musulmano si è schierata con decisione a favore dei palestinesi. In tale contesto, non bisogna sottovalutare nemmeno le aspirazioni personali dei protagonisti della politica internazionale. Erdoğan non ha mai rinunciato al sogno di essere ricordato come principale costruttore dell’Islam politico, facendo della Turchia il Paese guida dell’universo musulmano. Anche perché il rischio è che sia l’Iran a impegnarsi nella competizione per conquistare questo primato tanto simbolico quanto ambito da sempre in Medio Oriente.
In entrambi i casi, Ankara sarà chiamata a pagare un prezzo. L’audace mossa di Hamas sarebbe stata impossibile senza il sostegno militare, finanziario e logistico di Teheran, che non tarderà a raccogliere i frutti del suo investimento. La Turchia non è intenzionata a rincorrere lo storico rivale persiano che ora si atteggia a nuovo protettore dei palestinesi, cercando di sfruttare le opportunità derivanti da tale posizione anche in contesti lontani. Per questo, Ankara potrebbe essere forzata a seppellire la vantaggiosa intesa con lo Stato ebraico sotto una pesante cappa di retorica anti-israeliana. Tale atteggiamento sarebbe dettato da un’opinione pubblica sempre più indisposta a tollerare il massiccio uso della forza nella rappresaglia israeliana a Gaza in nome degli interessi strategici della Turchia.
Questa nuova crisi mediorientale scuote dunque le fondamenta della geopolitica anatolica, proprio nel momento in cui gli obiettivi di dare al Paese una rassicurante “profondità strategica” e una “patria blu” attraverso una crescente influenza nel Mediterraneo, nel Mar Rosso e fino all’Oceano Indiano sembravano a portata di mano. Ad Ankara dovranno essere fatte delle scelte, ciascuna con i relativi costi. Per ora, la scelta più saggia appare quella di guadagnare tempo, nella speranza che la guerra non si allarghi ai vicini libanese e siriano e che i costi umani dell’operazione militare israeliana su Gaza si riducano. Con il passare dei giorni, tale strada si rivelerà sempre più accidentata, avvicinando il tempo delle scelte. Ma si tratterà comunque di affrontare ostacoli inattesi in un Medio Oriente che sembra tornato ai canoni classici della politica regionale.