Come Joe Biden può arrivare alla Casa Bianca

Se non ufficialmente, Joe Biden è di fatto il candidato democratico per le presidenziali 2020. La vittoria nelle primarie in Florida, Illinois, Arizona incorona l’ex vice presidente – e dà il colpo di grazia alle ambizioni di Bernie Sanders. Biden è stato del resto capace di inanellare, in una ventina di giorni, una serie di vittorie impressionanti: dal Nord al Sud, dal Centro all’Ovest. È stato, con ogni probabilità, il ritiro di candidati eccellenti come Amy Klobuchar e Pete Buttigieg a facilitare il convergere definitivo sotto il suo nome delle varie anime del Partito Democratico. Ed è stata la convinzione di vedere in lui un candidato più capace di battere Donald Trump – magari non il più entusiasmante ma il più affidabile – a far decidere molti democratici per il vecchio Biden. Ne sarà davvero in grado?

 

L’INCOGNITA CORONAVIRUS. È questa la vera ombra che si allunga sulla campagna di Biden – ma non solo su quella di Biden: anche il futuro politico di Trump dipenderà in gran parte dallo sviluppo del contagio. Per giorni, Biden non ha parlato dell’emergenza. Ha cancellato tutti gli eventi pubblici, tutte le uscite. Confinato nella sua casa di Wilmington, Delaware, è sembrato incapace di elaborare una sua posizione in un momento tanto grave. L’hashtag #WhereIsJoeBiden era tra i più usati da conservatori e sinistra democratica. Poi, lunedì 23 marzo, Biden ha parlato in una diretta social. Ha criticato la legge di stimolo economico poi approvata e che prevede 500 miliardi di intervento a favore delle imprese: “è un piano per dare alle corporations mano libera”, ha spiegato il candidato democratico, che ha anche criticato Trump per non saper affrontare la crisi “con la serietà necessaria”.

Niente di clamoroso, ma almeno Biden ha mostrato di esserci. Si sa ora che ogni lunedì, dalla biblioteca di casa trasformata in studio TV (e con una connessione ad alta velocità, che prima gli mancava), Biden parlerà dei temi dell’attualità. Il tentativo è appunto quello di superare le restrizioni imposte dal coronavirus – e i possibili effetti disastrosi sulla campagna elettorale democratica.

Trump ha trasformato le sue conferenza stampa sul Covid-19 in veri e propri rallies politici. Biden non ha questa opportunità. E poi c’è la scelta del tono, in questo momento fondamentale. Biden non può mostrare troppo astio nei confronti di Trump, il commander-in-chief, in un momento di emergenza nazionale. E, ancora, esiste un problema di ruolo. A che titolo parla, Joe Biden? Non è il candidato ufficiale dei democratici, visto che Sanders resta in corsa; non è il capo del partito. Senza contare che questo era il momento in cui mettere in piedi la rete preziosissima dei finanziatori: anche questo rimandato. Di fronte a una crisi che manda all’aria tutto, Joe Biden tenta quindi di riciclarsi e diventa un personaggio virtuale. Non è il massimo – per un politico che dà il megio di sé nel rapporto diretto – ma comunque è già qualcosa.

La speranza, per lui, è lasciare al più presto la biblioteca di casa e tornare a essere un candidato in carne e ossa. Solo in quel modo potrà giocare bene le sue carte migliori.

 

LA COALIZIONE DI OBAMA. A partire dalla vittoria in South Carolina (29 febbraio), è diventato ogni giorno più chiaro che a Biden sta riuscendo quello che era già riuscito a Barack Obama: mettere insieme una coalizione fatta di tanti gruppi e di diverse anime. E quindi, gli afro-americani (hanno votato per Biden l’87% dei neri del Mississippi e il 72% di quelli dell’Alabama); la fascia di elettori oltre i 45 anni (in Florida, il 71% di questi ha scelto Biden); le donne (il 58% delle donne in Michigan gli ha offerto una vittoria decisiva); la classe medio-alta suburbana (decisiva per la vittoria in Stati come la Virginia). Biden riesce poi a essere competitivo nelle zone rurali, come dimostra la sua vittoria in aree chiave come la Luce County e la Grand Traverse County del Michigan.

Inoltre, la serie di trionfi in Minnesota, Illinois e appunto Michigan mostra la capacità di Biden di intercettare il voto della working class che aveva clamorosamente abbandonato Hillary Clinton nel 2016. C’è un altro dato interessante da segnalare. L’alta affluenza e il voto massiccio raccolto nei centri urbani e ricchi di Naples e Jacksonville, in Florida, rivela che l’ex vice di Obama potrebbe essere capace di strappare una parte dello “swing vote”, il voto oscillante tra Democratici e Repubblicani, che sarà decisivo a novembre.

Resta a Biden, invece, un limite grave, che Obama non aveva: gli manca il voto giovanile.

 

COSA FARANNO I GIOVANI. Possiamo dire che cosa hanno fatto sinora gli under 30: hanno votato per Bernie Sanders – con punte fino all’84% in California. Il dato va però interpretato. Sanders è riuscito a raccogliere gran parte del voto giovanile che è andato alle urne; ma i giovani che sono andati alle urne sono comunque pochi, meno ancora del 2016. Per fare due esempi: gli under 30 sono stati il 15% degli elettori in Michigan (erano il 19% nel 2016) e il 10% di quelli in Alabama (contro il 14% del 2016). Questo significa che molti giovani hanno riempito i palazzetti in cui i gruppi indie rock si sono esibiti nei rally del senatore del Vermont; poi, però, sono rimasti a casa.

La cosa ha tarpato le ali alla candidatura di Sanders, che ha portato alle urne troppo pochi giovani, e promette di essere un bel problema per Biden, che non ne ha portato quasi nessuno. Se infatti i giovani non voteranno in largo numero il prossimo 3 novembre, sarà molto difficile per Biden battere Trump. Per questo, nella prossima campagna elettorale, diventa essenziale il ruolo di Sanders (e in parte di Elizabeth Warren, che deve ancora dare un endorsement ufficiale): a loro toccherà accendere l’entusiasmo giovanile per questa campagna. Non sarà facile, va detto, quando sia Biden che l’establishment del partito che lo sostiene sono in buona parte composti di ultrasettantenni.

 

IL “MODERATO” BIDEN. Alla vigilia dell’inizio della campagna presidenziale vera e propria, vale la pena di fare una piccola riflessione sulle parole – che sono poi le cose. Si dice spesso che Biden rappresenti l’ala “moderata” del partito; e con lui Buttigieg, Klobuchar, Kamala Harris, Cory Booker e tanti altri che sono passati, tra alterne fortune, attraverso queste primarie folli e imprevedibili. Ora, è vero che, se paragonate a quelle di Sanders, le posizioni di Biden possono essere senza dubbio definite centriste, o moderate. Ma è altrettanto vero che Biden correrà nel 2020 con una piattaforma politica che è quella più a sinistra per i Democratici in una elezione presidenziale da oltre trent’anni.

A partire dal 2016, grazie proprio al movimento guidato da Bernie Sanders e all’entrata in politica di una nuova leva di giovani progressisti, il Partito Democratico si è infatti spostato a sinistra. Joe Biden non ignora questo spostamento, vuole rappresentarlo e includerlo. Non chiede, come Sanders, il “Medicare for All”, l’assistenza sanitaria pubblica sull’esempio europeo; propone però un forte allargamento dell’Obamacare, con la presenza di un’opzione pubblica e un investimento complessivo per la sanità da 750 miliardi di dollari in dieci anni. Biden vuole alzare il salario minimo a 15 dollari, una proposta-faro di Sanders; pensa ad aumenti alle tasse per i più ricchi nell’ordine dei 3400 miliardi di dollari (oltre il doppio rispetto a quelli propugnati da Hillary Clinton nel 2016); e ancora, vuole misure per il controllo delle armi, 1700 miliardi di progetti per la Green Economy, prestiti per le zone rurali.

Negli ultimi giorni, Biden ha anche fatto propria la proposta di rendere gratuito il college per i giovani di famiglie con redditi al di sotto di 125 mila dollari, anche qui abbracciando un tema caro alla campagna Sanders; e ha abbracciato la proposta di una revisione della legge sulla bancarotta sponsorizzata da Elizabeth Warren. Insomma, in assoluto, il programma di Biden non è “moderato”; è anzi un programma di liberalismo progressista nella tradizione rooseveltiana.

Vale quindi poco, molto poco, rivangare le sue antiche posizioni sui tagli alla social security o sulla santità del matrimonio eterosessuale, e infatti questi tentativi fatti da Sanders non hanno funzionato. Il vecchio senatore è da oltre 50 anni l’incarnazione dell’establishment democratico: forse non particolarmente fantasioso, sicuramente non innovativo, conosce però perfettamente il suo partito. Lo incarna. E dove sta il centro del partito, sta lui. Il centro si è spostato a sinistra e il candidato si è spostato a sinistra.

 

VERSO NOVEMBRE. Questo introduce l’ultima questione: come evitare che Biden ripeta la disastrosa esperienza di Hillary Clinton nel 2016. Il nodo è sempre lo stesso: portare a votare più gente possibile, e tra questi buona parte del popolo di Bernie Sanders: giovani, progressisti, settori di working class. Da alcune settimane, su Twitter, sono comparsi alcuni hashtags: #NeverBiden, #WriteinBernie, #DemExit2020. Sono coloro che non amano l’establishment democratico, che pensano che Bernie sia stato ancora una volta scippato, che giurano che non voteranno mai per Biden. È su questi che bisogna lavorare; è a questi che bisogna dare una parvenza di futuro. Vero è che l’ex Vicepresidente, rispetto a Clinton, ha almeno due vantaggi.

Il primo: la sua relazione con Sanders è buona, priva dell’acredine che segnò lo scontro Sanders/Clinton. I due sono della stessa generazione, si conoscono da anni. Sanders ha spesso ricordato il benvenuto caloroso che Biden gli diede al suo arrivo al Senato. E nell’ultimo dibattito TV, anche nei momenti di scontro più furioso, non hanno mai smesso di chiamarsi per nome, promettendosi infine futuro sostegno: “Farò campagna per Bernie, se sarà lui il nominato”, ha detto Biden. “Se perdo questa cosa, e Joe vince – Joe, io ci sarò per te”, ha detto Sanders. I due non sono amici, ma si rispettano. Potrebbe essere il viatico a una campagna democratica meno nervosa rispetto al 2016.

C’è poi un secondo aspetto. Chi non andò a votare nel 2016 lo fece perché non amava la candidata. Lo fece contro Hillary Clinton. Chi decide di non andare a votare nel 2020, lo fa dopo quatto anni di Donald Trump. Potrebbe essere, solo questa, una ragione per ripensare la propria scelta e depositare, nell’urna, il nome di Joe Biden.

 

 

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