Secondo uno studio realizzato congiuntamente dal Mercator Institute for China Studies (MERICS) – basato a Berlino – e dal Rhodium Group – una società di consulenza basata a New York – nel 2016 gli investimenti cinesi in Europa sono stati pari a 36 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto all’anno precedente[1]. Nel 2017 gli investimenti diretti esteri (ide) cinesi in tutto il mondo sono leggermente diminuiti, ma la quota europea è salita da un quinto a un quarto del totale. Soprattutto, è cresciuta l’influenza della Cina nei paesi più piccoli e vulnerabili dell’ue, dove il peso degli investimenti stranieri è più grande in relazione al resto dell’economia. Questo ha portato la Commissione europea e alcune élite dei paesi dell’Europa occidentale a paventare un’invasione cinese che potrebbe essere usata per fare pressione su Bruxelles ed evitare che questa legiferi contro gli interessi di Pechino.
QUANTO E DOVE CI INVADE LA CINA? È soprattutto l’Europa centrorientale, inclusi i Balcani, a essere finita sotto i riflettori. In questa parte d’Europa, gli investimenti cinesi si sono concentrati soprattutto sulle infrastrutture e i servizi, nell’ambito dello sviluppo della Nuova Via della Seta (nota anche come Belt and Road Initiative, o BRI) – un sistema di trasporti e servizi, terrestri e marittimi, fatto di una miriade di progetti che collega la Cina con l’Europa attraverso l’Asia centrale, l’Oceano indiano e il Medio Oriente. Tra questi progetti rientrano, per esempio, la linea ferroviaria ad alta velocità tra Budapest e Belgrado e un’autostrada in Polonia, anche se nessuno dei due è stato per ora completato.
Nei paesi del sud dell’Europa i compratori cinesi si sono fatti avanti in seguito alla crisi dell’eurozona che ha portato alla privatizzazione di molte aziende pubbliche: è successo in Portogallo con la società che gestisce le reti elettriche del paese, la Energias de Portugal, mentre in Grecia la Cina è ormai padrona del Pireo, il porto di Atene e il più grosso del Mediterraneo.
In Italia, la China National Chemical Corporation ha comprato Pirelli, la società di pneumatici, e grandi gruppi cinesi possiedono le quote di maggioranza dell’Inter e del Parma, due squadre di Serie A. La Dongfeng Motor Corporation, società controllata dal governo cinese, ha investito nel gruppo francese PSA, che controlla i marchi Peugeot, Citroën e Opel, e hanno ricevuto grossi investimenti dalla Cina anche Sygenta, un grosso produttore di pesticidi svizzero e alcuni dei principali aeroporti europei, tra cui Heathrow a Londra, l’aeroporto di Francoforte in Germania e quello di Tolosa in Francia.
Anche in Germania, quote azionarie delle principali industrie automobilistiche sono finite sotto il controllo di gruppi cinesi: il gruppo automobilistico Geely, già padrone di Volvo, ha comprato il 10% di Daimler, che controlla Mercedes-Benz. Ora la Germania teme che gli investimenti dalla Cina mirino alle Mittelstand, le piccole e medie imprese tedesche iperspecializzate che hanno contribuito notevolmente al successo industriale del paese.
Fino al 2017, la paura di un’invasione cinese era giustificata dai numeri. Ora, però, il vento è cambiato e sono sempre di più gli investitori cinesi che disertano il vecchio continente.
DISINVESTIMETI CINESI. Secondo l’ultimo rapporto merics-Rhodium Group, il 2018 si è chiuso con un crollo verticale degli IDE cinesi in Europa, scesi a 17,3 miliardi di euro, il valore più basso da quattro anni a questa parte e il 40% inferiore rispetto all’anno precedente. Se confrontato con i 37 miliardi iniettati nel 2016, l’anno in cui l’attivismo cinese nel vecchio continente ha raggiunto il livello più alto, la diminuzione è addirittura di oltre il 50%[2].
I settori che hanno risentito maggiormente di questa contrazione sono soprattutto le utility, i trasporti e le infrastrutture, mentre sono aumentati i capitali diretti nei settori della finanza, sanità, automotive, servizi e biotecnologie. Riguardo i paesi di destinazione degli IDE cinesi nel 2018, svetta la Gran Bretagna che si aggiudica la prima posizione (4,2 miliardi di euro), la Germania terza (2,1 miliardi di euro) e la Francia quinta (1,6 miliardi di euro), mentre è interessante osservare l’incremento registrato in economie più piccole come Svezia e Lussemburgo, rispettivamente seconda (3,4 miliardi di euro) e quarta (1,6 miliardi di euro) destinazione preferita.
L’Europa del Sud ha, invece, rappresentato circa il 13% degli IDE cinesi, ben al di sotto del boom registrato tra il 2012 e il 2015, con la fetta più consistente attribuibile ad alcune grandi operazioni di fusione e acquisizione tra Spagna e Italia: qui i capitali cinesi sono entrati, per esempio, nell’azionariato di NMS Group, la società che controlla Nerviano Medical Sciences, ed Esaote, leader nel settore delle apparecchiature biomedicali. Non è molto diverso il quadro per l’Europa centrorientale, scesa all’1,5% del totale nonostante la maggiore apertura dimostrata nei confronti del progetto BRI – alimentando appunto la percezione, largamente diffusa in Europa occidentale, che ci sia un’invasione in atto da parte della Cina verso l’Europa centrorientale e i Balcani.
Allargando lo sguardo dal 2000 a oggi, si scopre che l’Italia è stata la terza destinazione preferita degli investimenti cinesi in Europa, con un valore superiore a quello verso la Francia. In Italia, negli ultimi due decenni, sono arrivati 15,3 miliardi di euro, contro i 14,3 miliardi della Francia. Nello stesso periodo la Germania ha attratto 22,2 miliardi e la Gran Bretagna 46,9 miliardi.
Tabella 1 – Gli investimenti cinesi in Europa
Il 2018 è stato il primo anno in cui le operazioni di disinvestimento da parte della Cina hanno raggiunto numeri significativi. Secondo il già citato rapporto MERICS-Rhodium, le imprese cinesi hanno ceduto partecipazioni pari ad almeno 4 miliardi di euro. Questo per tre motivi: reimposizione da parte di Pechino di controlli amministrativi per contenere i deflussi di capitali verso l’estero, soprattutto quelli ritenuti non attinenti al core business delle imprese investitrici; le preoccupazioni della dirigenza cinese per la stabilità del mercato finanziario interno; l’introduzione di nuove barriere a protezione delle imprese europee.
La Germania, anzitutto, ha abbassato i requisiti per avviare operazioni di monitoraggio ed eventualmente bloccare le acquisizioni da parte di aziende di Stato cinesi, arrivando persino a ventilare l’istituzione di un fondo d’investimento statale con cui procedere al rilevamento di società nel mirino di Pechino. Il Consiglio europeo del 21-22 marzo 2019 ha inoltre dato il via libera al nuovo sistema di screening degli investimenti stranieri – sebbene non vincolante – per frenare l’avanzata delle aziende statali cinesi nei comparti di interesse strategico. Secondo gli esperti di MERICS e del Rhodium Group, l’82% delle operazioni di m&a (mergers & acquisitions) messe a segno dalla Cina nell’ultimo anno sarebbero state soggette a maggiori verifiche se le disposizioni approvate dall’UE fossero già state attive.
La Commissione europea sta anche rivedendo le norme sugli appalti, le politiche di protezione dei dati, le politiche di sicurezza e le regole di concorrenza, proprio al fine di rafforzare il controllo sulla penetrazione cinese in Europa. L’UE ha deciso di contrattaccare, adottando iniziative verso la Cina di stampo “trumpiano”.
LA CINA: RIVALE SISTEMICO. Il Consiglio europeo del 21-22 marzo 2019, che aveva la Cina tra i punti principali in agenda, è stato l’occasione per accusare il gigante asiatico di una panoplia di irregolarità commerciali, a cominciare dalla chiusura del suo mercato alle imprese estere; di dare sussidi a pioggia alle sue industrie, distorcendo la competizione; e di non proteggere in maniera adeguata i diritti di proprietà intellettuale. Una lunga serie di lamentele verso le politiche commerciali di Pechino è inoltre contenuta nel documento che la Commissione europea e il Servizio di Azione esterna europeo (guidato da Federica Mogherini) hanno pubblicato a marzo 2019[1].
Nel documento, l’UE definisce la Cina un “competitore economico” e addirittura un “rivale sistemico”. Sembrano finiti i tempi del partenariato strategico che ha caratterizzato le relazioni sino-europee degli ultimi 15 anni. Ora le parole d’ordine sono “reciprocità” e “Europe first”.
In linea con questo approccio muscolare verso la Cina, l’UE sta anche discutendo la questione della creazione dei cosiddetti “campioni nazionali”, una proposta dell’asso franco-tedesco fortemente sostenuta dalle élite politiche e industriali dei due paesi. Basti ricordare il manifesto di Emmanuel Macron nel quale il presidente francese dice chiaramente che per competere con potenze quali gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, l’Europa deve dotarsi di politiche che difendano la sua sovranità tecnologica e creare industrie europee capaci di competere con le grandi imprese di Stato cinesi[2].
DIFENDERE LA SOVRANITÀ TECNOLOGICA. Un tassello fondamentale della sovranità tecnologica è la difesa delle imprese europee dagli investimenti predatori. In tal senso, il nuovo meccanismo di scrutinio degli investimenti esteri nell’UE – il cosiddetto screening mechanism, entrato in vigore ad aprile 2019 – è chiaramente indirizzato a impedire o quantomeno a rendere più difficile alle grandi imprese di Stato cinesi di fare “shopping tecnologico” in Europa – che porta con sé il rischio di de-industrializzazione dell’Europa nel medio-lungo periodo[3].
Il nuovo regolamento propone linee guida per lo scambio di informazioni, il coordinamento e l’empowerment per lo screening nazionale, determinando un incentivo perché gli Stati membri mettano in atto robusti meccanismi di monitoraggio degli investimenti cinesi. Al centro dell’attenzione i fattori che incidono sulla sicurezza e l’ordine pubblico che comprendono una gamma molto ampia di settori – dall’energia, ai trasporti, all’intelligenza artificiale, ai finanziamenti, all’approvvigionamento idrico e ai media, elenco, per altro, solo indicativo, e non esaustivo, consentendo quindi di aggiungere più settori in futuro, qualora si ritenga che possano influire sulla “sicurezza o sull’ordine pubblico degli Stati membri”.
Il provvedimento consente alla Commissione europea di emettere pareri su transazioni che riguardano più Stati membri o di indirizzare un progetto o programma che riguardi gli interessi dell’Unione nel suo insieme. Il regolamento dell’ue incoraggia gli Stati membri a esaminare in modo specifico gli investimenti in tecnologie sensibili e infrastrutture critiche. Questi criteri potrebbero coprire una larga parte delle attività cinesi di m&a in Europa.
Dall’inizio del 2019, gli investitori cinesi hanno in sospeso più di 15 miliardi di euro di transazioni proposte, causa proprio il nuovo regolamento, a dimostrazione che gli Stati membri sembrano voler prendere una posizione meno “ingenua” e più “difensiva” verso la Cina.
Iniziative che mirino a difendere l’interesse nazionale degli Stati membri dovrebbero essere accolte con favore dalla coalizione di governo in Italia, formata da due partiti che hanno fatto della difesa della sovranità (e delle aziende nazionali) la loro bandiera. Eppure, l’Italia si è smarcata su questo fronte. Il 5 marzo 2019, durante la votazione sulla bozza del testo che ora permette alla Commissione europea e ai paesi membri di “scrutinare” gli investimenti cinesi nell’UE, l’Italia si è astenuta. Con lei solo la Gran Bretagna, che è già mezza fuori dall’Unione e che ha già fatto capire che una volta libera dai vincoli di Bruxelles, perseguirà una politica di apertura nei confronti degli investimenti cinesi, che non a caso già ora si concentrano a Londra.
L’Italia dei governi di centro-sinistra aveva seguito un approccio più cauto – e in linea con Bruxelles – verso gli investimenti cinesi, adottando già nell’ottobre del 2017, l’estensione del golden power, per prevedere il potere di veto agli investimenti in settori strategici come semiconduttori, stoccaggio di dati, robotica, tecnologia nucleare e spaziale e intelligenza artificiale. Ma sia sugli investimenti cinesi – che verso il progetto infrastrutturale della BRI – il governo M5S-Lega ha fatto una significativa virata rispetto ai precedenti governi e alla maggioranza dei paesi UE.
L’EUROPA E LA NUOVA VIA DELLA SETA. Il nuovo provvedimento legislativo inerente gli investimenti cinesi è parte dell’armamentario adottato da Bruxelles per rispondere al progetto cinese di una Nuova Via della Seta.
Una risposta al progetto della BRI l’UE l’aveva data lo scorso settembre, con la pubblicazione del documento sulla Strategia per la Connettività euro-asiatica, che contiene norme e principi di ispirazione occidentale e ai quali spesso le aziende cinesi non si attengono[4]. Il Consiglio europeo del 21-22 marzo 2019 ha avuto parole molto dure riguardo il progetto infrastrutturale di Pechino. Anche qui, però, l’Italia si è smarcata, aderendo al progetto cinese durante la visita del presidente Xi Jinping a fine marzo.
Vero è che il Memorandum d’Intesa che l’Italia ha firmato con la Cina fa chiaro riferimento alla Strategia europea per la Connettività euro-asiatica e da questo punto di vista può rappresentare un modello anche per altri paesi avanzati. Non va però dimenticato che una tale strategia può essere efficace nei confronti di Pechino solo se dietro si muove compatto l’intero blocco europeo. Altrimenti, i singoli paesi – anche molto forti economicamente, come la Germania – poco possono di fronte al gigante asiatico.
È proprio sui punti dove è necessaria la coesione dei paesi UE per promuovere gli interessi del continente verso Pechino – quali il meccanismo di scrutinio degli investimenti e regole certe sulla Via della Seta – che il governo italiano è apparso giocare da libero battitore durante i giorni della firma del Memorandum. È vero anche che l’Italia ha poi pienamente appoggiato la dichiarazione congiunta del Summit UE-Cina del 9 aprile 2019, suggerendo in questa maniera che l’apertura italiana verso il progetto infrastrutturale cinese e l’astensione sul meccanismo di screening degli investimenti fosse più una tattica di circostanze intorno alla visita di Xi, che reale divergenza con l’UE.
Non c’è dubbio, però, che al di là dei tatticismi e della particolare tempistica, il governo italiano ha indebolito il fronte europeo – almeno sul piano dell’immagine – in un momento storico che vede l’UE, per la prima volta, affilare le armi nei confronti delle politiche commerciali del gigante asiatico. La decisione dell’Italia di siglare il Memorandum d’Intesa ha anche indebolito il presidente USA Donald Trump – non tanto per il peso effettivo di quest’atto sulla politica estera americana ma – anche in questo caso – per la tempistica in cui è avvenuto. Trump era e rimane impegnato in una guerra commerciale e per la superiorità tecnologica con Pechino; quella che molti commentatori hanno definito una nuova guerra fredda[5].
UNISCI ET IMPERA. L’Europa è diventata il principale campo di battaglia tra Pechino e Washington. L’amministrazione Trump è sempre più impegnata a contenere l’influenza cinese nel vecchio continente. La Cina si sta infatti comprando il favore di alcuni governi europei (che sono anche membri della nato), in particolare nell’Europa del Sud e dell’Est. Negli ultimi anni, questi hanno iniziato ad assumere posizioni favorevoli agli interessi cinesi – o almeno si sono impegnati a non scontentarla – anche in seno all’UE. Grecia e Ungheria, ad esempio, nel 2016 hanno impedito all’UE di promulgare una dichiarazione forte e chiara in sostegno alla decisione del tribunale dell’Aia contro l’espansione territoriale della Cina nel Mar cinese meridionale e di fare dichiarazioni sulle violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare cinese durante un forum delle Nazioni Unite.
Per rispondere al rischio, sempre più concreto e attuale, che la Cina estenda la sua influenza su alcuni paesi per imporre le sue regole e vietare provvedimenti in sede europea che la danneggerebbero, Jean-Claude Juncker, presidente uscente della Commissione europea, ha proposto come soluzione quella di passare dal voto unanime richiesto per decidere su determinate materie a un voto a maggioranza qualificata: in tal modo si toglierebbe agli Stati europei vicini alla Cina il potere di veto su questioni come i diritti umani, o come l’aumento dei controlli per gli investimenti esteri.
Se nell’immediato la divisione all’interno dell’Europa può portare qualche beneficio commerciale e politico alla Cina, nel medio-lungo periodo, i leader cinesi hanno bisogno di un’Europa forte e unita che collabori con Pechino per fare da contraltare alle politiche unilaterali degli Stati Uniti. Non ci dovrebbe sorprendere, pertanto, se sarà proprio la Cina, in un futuro non troppo lontano, a cercare di unire gli europei. Magari appoggiando, in un’Europa ormai agganciata alla Nuova Via della Seta, governi meno sovranisti e più europeisti.
Note:
[1] Commissione europea ed eeas, EU-China, a strategic outlook, 12 marzo 2019.
[2] Emmanuel Macron, For European renewal, 4 marzo 2019.
[3] Chen Weihua, “fdi screening by eu to hit soes”, in China Daily, 22-28 febbraio 2019, p. 6.
[4] Commissione europea ed eeas, Connecting Europe and Asia. Building blocks for an eu strategy, 19 settembre 2018.
[5] Nicola Casarini, Rome-Beijing: Changing the Game. Italy’s embrace of China’s connectivity project, Implications for the eu and the us, iai Working Papers 19/05, marzo 2019.
[1] Thilo Hanemann e Mikko Huotari, “A new record year for Chinese outbound investment in Europe”, in China Flash, 16 febbraio 2016.
[2] Thilo Hanemann, Mikko Huotari e Agatha Kratz, “Chinese fdi in Europe: 2018 trends and impact of new screening policies”, in merics Papers on China, March 2019.