Il PNRR presentato dall’Italia viene ogni giorno invocato come un deus ex machina, senza che sui contenuti ci sia stata una discussione rigorosa: l’importante è che sia abbondante e sia stato mandato a Bruxelles puntualmente, in modo che non ci siano ritardi negli esborsi. Il piano è senza dubbio migliorato rispetto alla bozza confezionata dal governo Conte, ma ne conserva alcune caratteristiche, sia pure attenuate.
La prima è la bulimia. Non si è seguito l’esempio della Spagna e di altri paesi, che si accontentano della parte a dono ad essi destinata, per non appesantire l’indebitamento. Noi, benché notoriamente ultimi nella capacità di gestione dei fondi europei già per i volumi ordinari, abbiamo voluto anche i prestiti, fino all’ultimo centesimo. Anzi, abbiamo aggiunto 30 miliardi a deficit, per un totale di circa 240 miliardi. Per un confronto: il piano francese ammonta a 100 miliardi, di cui solo 40 dal Fondo europeo; la Germania riceve da Bruxelles 28 miliardi, l’Austria 4,5.
La seconda caratteristica è l’onnicomprensività. Quelli di altri paesi sono più focalizzati. Il nostro si presenta come una finanziaria che per miracolo sia liberata dai vincoli di bilancio e sia in grado di colmare tutte le lacune del passato e soddisfare tutte le aspettative degli elettori. Va detto che le country-specific recommendations rivolte dalla Commissione UE all’Italia giustificano tutte o quasi le voci inserite in questo libro dei sogni, dalla formazione professionale agli asili-nido, dalla fornitura di liquidità alle PMI alla gestione delle risorse idriche. Ma indicano anche il criterio della sostenibilità del debito e la necessità di tornare appena possibile a una „prudent fiscal policy“.
Ognuno dei tanti capitoli e sottocapitoli di spesa ha certamente una utilità e dovrebbe contribuire a creare posti di lavoro. Ma nel suo insieme il piano non appare guidato dal principio che ha convinto i nostri partner più riluttanti ad accettare di indebitarsi al fine di aiutare i paesi meno „resilienti“ (per usare questo ormai troppo abusato neologismo): uno strumento eccezionale che permetta di cogliere l’occasione del rilancio economico post-Covid per affrontare le grandi sfide del futuro prossimo. In primo luogo frenare il cambiamento climatico, e inoltre adattare le politiche per l’occupazione e la formazione alla rivoluzione tecnologica, rafforzare la competitività delle nostre economie e l’indipendenza tecnologica dell’Europa rispetto alla Cina.
Un esempio è il capitolo della „transizione ecologica“. È stato molto sbandierato il fatto che sia quello più sostanzioso, ma questa non è una scelta politica italiana bensì una prescrizione di Bruxelles: deve obbligatoriamente costituire almeno il 37% di ogni piano nazionale. Noi non raggiungiamo quella percentuale, mentre Francia e Germania la superano largamente. E mentre altri paesi convogliano tutti i fondi verso le grandi trasformazioni destinate a ridurre le emissioni di gas serra per frenare il riscaldamento globale, con particolare riferimento alle nuove tecnologie (idrogeno, batterie, smart grid, efficienza energetica, ecc.), il nostro piano dedica notevoli risorse a progetti ecologici di sicura utilità a livello locale ma non attinenti al cambiamento climatico: qualità dell’aria e biodiversità, valorizzazione del territorio e acquedotti, fognature e depuratori, edifici scolastici da mettere a norma, dissesto idro-geologico (8,5 miliardi) e costruzioni anti-sismiche, gestione dei rifiuti.
Non a caso, laddove gli anglo-sassoni e i tedeschi parlano di climate policies e di Klimapolitik, noi usiamo un termine più ampio: „protezione dell’ambiente“.
Nel nostro PNRR ci sono naturalmente anche misure che favoriscono la decarbonizzazione e quindi il clima, ma con poche eccezioni sono investimenti che dovrebbero rientrare nei bilanci ordinari di uno stato: colonnine per la ricarica di auto elettriche, pannelli solari e pale eoliche, bus ecologici, piste ciclabili, coibentazione di edifici. A quest’ultimo riguardo il super-bonus del 110% suscita qualche perplessità: sia per l’imponente ammontare – oltre 11 miliardi – sia per l’assunzione dell’intero onere da parte dello stato, che si presta a frodi mediante sopra-fatturazione e false dichiarazioni.
Per parlare di „transizione“, o addirittura „rivoluzione verde“, si sarebbero dovute concentrare le risorse sui grandi progetti che trascendono l’ordinaria amministrazione e in particolare su quelli che richiedono uno sforzo congiunto dei paesi europei, come la ricerca sull’idrogeno verde (il PNRR vi assegna 0,45 miliardi), la cattura e stoccaggio della CO2 o la ripulitura del fondo marino dell’Adriatico da munizioni e rifiuti industriali.
Un analogo discorso può essere fatto per gli altri capitoli del PNRR. Istruzione e ricerca (31,9 miliardi) sono certo settori di ovvio interesse per la „next generation“, ma molte voci si riferiscono a spese ordinarie che vanno a tappare falle delle gestioni passate piuttosto che a investimenti straordinari per rendere più competitiva e più „sostenibile“ l’economia italiana: 6 miliardi per la costruzione di nuove aule e la messa in sicurezza di scuole, 4,6 per asili-nido e scuole materne, 1 miliardo per alloggi studenteschi, 300 milioni per palestre, ecc.
Nell’ambito dell’inclusione e coesione sociale (19 miliardi), 8,56 miliardi vanno a „rigenerazione urbana e housing sociale“ e sei miliardi ai centri per l’impiego, la cui utilità – come dimostra l’esperienza recente – è condizionata dalla capacità dell’economia locale di creare nuovi posti di lavoro.
Il modello degli interventi a pioggia tesi ad accontentare clientele locali piuttosto che focalizzarsi sulle sfide epocali si ritrova anche in alcune sezioni della „missione digitalizzazione“: 2,4 miliardi per il „turismo 4.0“, compresi 500 milioni per „grandi eventi turistici“; altrettanto per la “valorizzazione dei piccoli siti turistici e culturali“; mezzo miliardo per la sicurezza sismica delle chiese. Ma almeno sono progetti capaci di generare occupazione in zone per lo più disagiate. La digitalizzazione è la seconda grande priorità dettata dalla Commissione di Bruxelles (20% delle risorse), ma la finalità principale è di incoraggiare le grandi trasformazioni tecnologiche, anche con risvolti geopolitici: cyber-security, cloud, sovranità tecnologica (ridurre la dipendenza da Cina e USA, ad esempio nel 5G), inter-operabilità dei servizi pubblici digitali, estensione della fibra ottica a tutto il territorio, ecc.
Una valutazione senz’altro positiva merita il capitolo „salute“: medicina territoriale, fascicolo sanitario elettronico, telemedicina, ricerca, formazione, attrezzature diagnostiche. In questo caso non riscontriamo bulimia, anzi, le risorse assegnate (15,6 miliardi) sono inferiori a quanto sarebbe auspicabile.
Il settore più problematico è quello delle infrastrutture per la mobilità, che viene „greenwashed“ in blocco apponendovi l’etichetta „sostenibile“: ben 21 miliardi sono destinati all’alta velocità per il trasporto di passeggeri, e 4 miliardi alle ferrovie regionali e alle stazioni ferroviarie nel Sud. Altri miliardi verranno prelevati dalla „missione“ ecologica per l’acquisto di treni e bus „verdi“. Sorprende che dopo i tanti dubbi emersi sull’opportunità di portare a termine la Torino-Lione, benché oggetto di impegni internazionali e benché i lavori fossero già assai avanzati, si attribuisca una così alta priorità all’estensione della rete TAV al Sud. Unici beneficiari i viaggiatori di fascia medio-alta, fra cui i politici locali, non i turisti stranieri che su tali distanze preferiscono servirsi di aerei e auto; e non il nostro pianeta, che trarrebbe assai maggior giovamento dallo spostamento su rotaia del traffico merci.
Questi grandi lavori infrastrutturali, molto capital-intensive, hanno un valore limitato ai fini della creazione di posti di lavoro durevoli ma un grande interesse per le società appaltatrici, e un alto rischio di sprechi e malversazioni. Non dovremmo meravigliarci se fra qualche anno verranno al pettine dei nodi: forti aumenti dei costi in corso d’opera, appalti truccati, frodi, interessi della criminalità organizzata. Tanto più che al fine di velocizzare gli iter si è ritenuto di allentare le regole del codice degli appalti.
L’ipotesi che le scelte in questo campo siano state influenzate dalle lobby e favorite dall’abbaglio delle risorse finanziarie illimitate appare confermata dal riaffacciarsi del progetto del Ponte sullo Stretto. La lezione del Mose dovrebbe essere sufficiente a raffreddare gli entusiasmi e relativizzare i preventivi di spesa; ma in questo caso le incognite tecnologiche, il rischio sismico e quello di infiltrazioni mafiose sono incomparabilmente maggiori.
Minimizzare questi rischi e selezionare i progetti che sono veramente prioritari – spendere bene, e non solo spendere presto – è essenziale per rassicurare i nostri partner e le istituzioni di Bruxelles. Essi vogliono sapere se i fondi europei vengono impiegati per rendere l’economia italiana più competitiva (e quindi il nostro debito più sostenibile) e gli apparati statali più efficienti. Le riforme sono dunque un elemento centrale e non sussidiario del Recovery Plan, come il Presidente Draghi ha chiaramente indicato, e i fondi per la digitalizzazione andrebbero indirizzati prevalentemente alla loro realizzazione. E devono essere riforme funzionali a quegli obiettivi.
La riforma del fisco non deve essere intesa a favorire questa o quella categoria (flat tax, imposta di successione) ma a combattere finalmente evasione ed elusione, grazie a investimenti nel digitale, in modo da equilibrare i conti pubblici. Della riforma della giustizia interessa non tanto la partita nel campo penale fra garantisti e giustizialisti (prescrizione) o la depoliticizzazione del CSM, quanto la riduzione drastica della durata dei processi civili; e questa richiede non soltanto l’assunzione di nuovo personale (il PNRR stanzia 2,3 miliardi per „capitale umano“) ma anche e soprattutto lo snellimento delle procedure. La modernizzazione della P.A. comporta l’eliminazione di inutili formalità e l’accorciamento dei termini per lo svolgimento delle pratiche, nonché l’obbligo per i funzionari di correggere gli errori fatti e rispondere dei ritardi, non la sospensione dei controlli e il silenzio-assenso.
La fiducia dell’Europa nella determinazione dell’attuale governo italiano, a differenza di tutti quelli precedenti, ad affrontare decisamente queste sfide è imperniata sulla figura di Mario Draghi. Ma senza una piena collaborazione delle forze politiche, spesso tentate da diversivi, e senza un serio impegno della burocrazia a stringere i tempi, anche Super-Mario non potrà condurre in porto nel giro di uno o due anni riforme così incisive.