L’economia del ‘900 ha conosciuto due grandi protagonisti: da un lato, il “capitale”, dall’altro, il “lavoro”.
Il primo, forte dei mezzi di produzione e dunque della supremazia economica, di cui le prime fabbriche automobilistiche di Detroit sono perfetta rappresentazione; il secondo, privo di questi mezzi, ed anzi esso stesso “merce”, in quanto strumento della produzione di massa, ostaggio del salario e quindi generalmente povero, ed in lotta perpetua con il “capitale”.
In questo quadro, quelle esigenze di tutela del lavoro, denunciate dallo stesso Papa Leone XIII con l’enciclica “Rerum Novarum” del 1891, fecero da apripista per una regolamentazione capace di delimitare il perimetro dell’orario di lavoro e del potere direttivo e organizzativo del “capitale”, rispetto tanto alle modalità quanti agli spazi (quelli della fabbrica) di esercizio.
Oggi, questi due protagonisti continuano a muoversi sulla scena ma con sembianze diverse. E lo faranno ancor di più nel futuro.
Grazie agli effetti della rivoluzione tecnologica, infatti, anche il “lavoro” si è equipaggiato dei mezzi di produzione e, da antagonista del capitale, è ora in grado di avocare a sé alcune di quelle che sono state esclusive prerogative proprio del capitale.
Sono mezzi di produzione, ad esempio, lo smartphone e i dispostivi mobili che consentono al lavoratore di governare da remoto le catene di montaggio, che erano sotto l’egida del “capitale”. Oppure che consentono al crowd worker di collegarsi alla piattaforma digitale non solo per aggiudicarsi la commessa ritenuta più vantaggiosa, di natura operativa (come la consegna di beni di consumo) o intellettuale (come creazioni artistiche o musicali). E ciò genera un potere di scelta che sino ad oggi è stato figlio del potere direttivo del “capitale”, ma anche per compiere la scelta con margini di autonomia che il potere di etero-organizzazione, altrettanto nelle mani del “capitale”, sino ad oggi non contemplava.
Allo stesso modo, sono mezzi di produzione le stampanti 3D che consentono al lavoratore, sotto le vesti di consumatore, di realizzare in autonomia veri e propri manufatti. Rendendo tangibile il fatto che, come sostiene Médaille (Distributismo. Una politica economica di equità e di equilibri), il consumatore è la stessa persona del lavoratore
In altri termini, i lavoratori sono, e nel futuro ancor più saranno, in grado di governare parte dei processi della fabbrica o comunque della catena produttiva, anche se in forma virtuale come una piattaforma, e di stabilire, entro certi limiti, i tempi e gli spazi di lavoro e, più in generale, l’organizzazione di esso.
Se è vero questo, è vero allora che la regolamentazione del lavoro figlia del Novecento deve cedere il passo ad una nuova, in grado di rispondere ai fenomeni che questo mutato scenario genera.
Non si tratta più, infatti, di delimitare il potere del “capitale” nei confronti del “lavoro” ma di costruire tra loro una relazione di leale cooperazione, in virtù della quale nessuna delle parti abusi dell’altra.
Nel segno di quella logica partecipativa che l’articolo 46 della Costituzione italiana contempla a chiare lettere ma anche ad esempio dell’esperienza tedesca, i lavoratori potrebbero così finalmente partecipare con margini di autonomia più ampi alla gestione dell’impresa, o meglio diventarne importanti “stakeholders”. E dunque, da un lato, assumere maggiori responsabilità, dall’altro, ricevere le garanzie che tale ruolo di maggiore responsabilità rende opportune. Anzitutto, garanzie economiche, legate non solo alle cosiddette “obbligazioni di mezzi”, che possono imporre un “fare” senza risultati, ma soprattutto alla produttività individuale e quindi alle cosiddette “obbligazioni di risultato”, sulla sicurezza del lavoro, sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro – con riflessi positivi anche in favore delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri.
Si tratta di una partita che può essere giocata, e che già oggi in parte si gioca, sul terreno della responsabilità sociale dell’impresa verso il lavoratore, che – lo ricordiamo ancora – è anche consumatore.
Su questo terreno, anche il sindacato assume un ruolo decisivo, in qualità di garante dei nuovi interessi dei lavoratori, e con esso, l’importante compito di ripensarsi. Rappresentare questi lavoratori vuol dire, infatti, uscire dai confini della fabbrica dove, in futuro, essi probabilmente non metteranno piede per la possibilità di lavorare connessi da remoto, ristrutturare il relativo trattamento economico perché rifletta gli obiettivi messi a segno dai singoli, aggiornare le mansioni con la contrattazione collettiva alla luce delle innovazioni introdotte dalla tecnologia e, non da ultimo, il linguaggio.
Un ruolo altrettanto decisivo è riservato, su questo terreno, ai legislatori italiano ed europeo. Ed infatti, a loro il compito di una disciplina in grado di rispondere agli standard del decent work, che in italiano suona come “lavoro dignitoso”, che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro da anni promuove, secondo la nuova ottica del lavoratore “stakeholder”.
Non mancano già oggi, del resto, sperimentazioni volte a rafforzare le tutele degli “stakeholder” dell’impresa, ovvero di coloro che vantano nei confronti di essa interessi di varia natura. Ad esempio, la recente Direttiva europea c.d. Shareholder II (Shareholder Rights Directive 2017/828), per la prima volta, ha assegnato all’assemblea degli azionisti un potere di voto vincolante sui compensi degli amministratori e dei dirigenti strategici delle società quotate.
Secondo questa nuova prospettiva, il lavoro è meno schiavitù, nel senso di attività coatta e dunque indegna – come Platone la definiva in “La Repubblica” – e più libertà, creatività e solidarietà. Dunque, via prediletta per la realizzazione della persona umana.
E’ questa, del resto, la prevalente finalità che la dottrina sociale della Chiesa riconosce al lavoro. Ce lo ricordano, tra l’altro, la “Laudato Si” di Papa Francesco ma anche la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.
In definitiva, con la rivoluzione tecnologica, “capitale” e “lavoro” smettono di sfidarsi per incontrarsi su frontiere ancora inesplorate. Ne possono derivare frutti straordinari.
Sono forse queste le cose che, per citare un classico della distopia come “Blade Runner”, gli uomini non potevano nemmeno immaginare ma, soprattutto, è questa la vera portata “disruptive” della rivoluzione tecnologica. Al netto dei dibattiti su se e quanta occupazione essa mangia. E cosi, l’amore per il lavoro non sarà più una contraddizione in termini. Come riteneva Jeremy Bentham qualche secolo fa.