Cina-Europa: se i rapporti futuri passano anche da Amburgo e Kiev

Dopo aver facilitato gli accordi tra Iran e Arabia Saudita e mentre in Europa si lavora per organizzare una grande conferenza di pace sull’Ucraina, la Cina continua a proporsi come mediatore della crisi in territorio europeo. A seguito della visita di Xi Jinping a Mosca (20-22 marzo 2023), ora è il turno dell’ex Ambasciatore in Russia Li Hui che – dopo Kyiv, Varsavia, Berlino e Parigi – è stato di recente anche nella capitale russa.

La posizione della Cina sulla vicenda ucraina, tuttavia, è piuttosto ambigua sin dall’inizio del conflitto. Lo stesso piano di pace dei 12 punti (febbraio 2023) presentava molta genericità. Ma forse è proprio questa caratteristica di equivocità ed astrattezza la chiave per comprendere la strategia cinese.

A Pechino pensano che sia giunto il momento di capitalizzare la propria egemonia politica su Mosca e il peso internazionale della Repubblica Popolare. E Xi Jinping è convinto di poter persuadere Putin a discutere della fine delle ostilità in Ucraina. È, del resto, anche ciò che al leader cinese hanno chiesto Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron nel loro viaggio a Pechino (10-12 aprile).

E proprio l’Europa pare assecondare la “volontà di potenza” della Cina, almeno se espressa in modalità benigne. Un po’ perché, da una parte, a Bruxelles sta prevalendo la convinzione che l’UE possa fare da ago della bilancia tra Washington e Pechino (Macron si è proprio espresso in questi termini dopo l’incontro con Xi Jinping); un po’ perché sia in Europa sia negli USA – anche con una buona dose di realismo – sta prevalendo l’idea che, in questa fase storica, il radicale decoupling dell’economia e delle catene del valore tra Occidente e Asia, immaginato negli anni passati, sia impraticabile.

Va anche detto che, al seguito del Presidente francese Emmanuel Macron, a Pechino vi erano 50 industriali. È evidente che non si è trattato soltanto di una missione di pace. Peraltro, a cavallo del suo viaggio cinese, Macron dichiarava che l’Europa, in vista della sua fondamentale Green Transition, ha bisogno della Cina, perché Pechino controlla gli approvvigionamenti e il mercato delle terre rare, fondamentali per le nuove tecnologie digitali ed energetiche.

Dopo i colloqui con Putin a Mosca e quelli con Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen a Pechino, il 27 aprile scorso Xi Jinping ha parlato al telefono con Volodymyr Zelensky, segno anche questo del grande attivismo del Presidente della Repubblica Popolare Cinese. E, più o meno in quelle ore, il Segretario al Tesoro USA Janet Yellen dichiarava “non stiamo cercando di staccare la nostra economia da quella della Cina: una separazione totale delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi, e sarebbe destabilizzante per il resto del mondo”.

A Pechino, naturalmente, hanno di che rallegrarsi per le parole di Emmanuel Macron e Janet Yellen. Peraltro, proprio nelle ultime settimane, le relazioni USA-Cina hanno avuto una ripresa (anche il capo della CIA, Bill Burns, a maggio è stato in Cina per riallacciare il dialogo tra Washington e Pechino).

La Cina, del resto, ha un grande obiettivo: vuol far ripartire il commercio mondiale. E l’Europa resta sempre il mercato più importante, un po’ perché è comunque il più ricco del mondo; un po’ perché tra Cina e UE ancora c’è un rapporto che permette accordi commerciali significativi (attualmente le due economie scambiano beni per un valore di circa 600 miliardi di euro).

 

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Teniamo conto che negli ultimi 10 anni gli scambi internazionali sono notevolmente rallentati – anche per la spinta inevitabilmente esauritasi del processo di offshoring, ovvero di delocalizzazione produttiva – e che dal 2017 si sono complicati anche per effetto dei dazi americani oltre che per il reshoring di alcune produzioni. In poche parole: il processo di interdipendenza economica e dei mercati si è attenuato.

Consideriamo anche che la Cina ha costruito la sua fortuna sul mercato globale e ancora oggi dipende molto dall’export. Ovvio che non sia contenta del raffreddamento degli scambi. La Via della Seta era proprio il tentativo di promuovere l’egemonia cinese nel mondo attraverso le nuove rotte commerciali della globalizzazione. Con il rallentamento di quest’ultima, anche il mega progetto commerciale-infrastrutturale cinese ha bisogno di una messa a punto.

In questo quadro, si registra la decisione del governo tedesco di cedere una parte del Porto di Amburgo all’azienda cinese Cosco (China Ocean Shipping Company, la compagnia di Stato che è oggi tra le prime cinque al mondo nel suo settore). È un’operazione rilevante che riguarda l’infrastruttura marittima più importante del Paese e una delle più importanti a livello europeo. Nell’accordo del 2021 si era previsto di cedere il 35%, mentre ora la quota diminuisce: alla Cosco andrà il 24,9% di uno dei quattro terminal, nello specifico il T3 (Tollerort). Il governo tedesco non vuole che la Cina acquisisca troppo potere sul principale scalo della Germania. Inoltre, la decisione presa dal governo Scholz arriva dopo mesi e mesi di discussione. E, persino nell’ultima seduta in cui si è deciso per la cessione, non tutti i ministri si sono dichiarati favorevoli.

Uno dei terminal container del porto di Amburgo

 

Si tratta di una scelta in controtendenza anche rispetto alla più recente programmazione economica europea, da tempo orientata al consolidamento del mercato interno – come, del resto, quelle americana e cinese – e a limitare l’importazione di prodotti in particolare provenienti dal mondo asiatico. La domanda interna è il futuro delle economie macroregionali ed è l’obiettivo principale anche del programma della “Prosperità comune” predisposto dal governo cinese che, in questi anni, ha compreso la necessità di trovare un’alternativa al rallentamento degli scambi internazionali.

Più coerentemente con gli obiettivi condivisi a Bruxelles, l’Italia sta valutando di uscire dalla Via della Seta, non rinnovando il Memorandum of Understanding siglato dal governo Conte nel marzo 2019 (unico tra i Paesi del G7 ad averlo fatto). In realtà, vedendo come si stanno muovendo Francia e Germania in particolare, le relazioni commerciali tra Italia e Cina potrebbero continuare sui livelli attuali anche senza gli impegni specifici del MoU. Dovremmo però pensare di trarne più convenienza, visto che con l’adesione alla Belt and Road Initiative non vi sono stati grandi vantaggi per il nostro Paese. Nel 2019, l’export italiano verso Pechino valeva meno di 15 miliardi, nel 2020 è sceso a 12 per poi raggiungere i 17 miliardi nel 2022. Nel frattempo, dalla Cina abbiamo importato per 32 miliardi nel 2019, quasi 60 miliardi nel 2022. Se la Cina è per l’Italia il secondo fornitore mondiale di beni, l’Italia è il 22esimo partner commerciale per la Cina. È questa, come si evince, una relazione commerciale del tutto sbilanciata.

 

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Tuttavia, le intese che stanno maturando con Pechino preludono a una presenza crescente del prodotto cinese in Europa. Non è questa una buona notizia, in un momento in cui si sta chiedendo all’industria europea un impegno importante in termini di innovazione. Il prodotto cinese – lo sappiamo – non ha la stessa qualità del nostro e costa meno, dunque rischia di creare una competizione al ribasso. Bisogna stare attenti perché le risorse pubbliche e private immesse in questo processo di innovazione sono ingenti.

È dunque fondamentale in questa fase che il mercato europeo – inteso come consumo – premi l’industria europea, non quella cinese. Se questo non avverrà, pagheremo un prezzo altissimo. Il mercato dell’auto sarà rivelatore: i veicoli elettrici prodotti in Cina costeranno molto meno di quelli che produrremo qui. Che ne sarà della nostra industria dell’automotive?

Oltre a queste incognite, resta aperta la questione Taiwan, decisiva non solo per i suoi aspetti politici e di sicurezza regionale, ma anche perché nell’Isola del Pacifico (autogovernata in forma democratica) si realizza quasi il 70% dei semiconduttori prodotti nel mondo. È chiaro che se la Cina decidesse di ricorrere alla forza, la tensione salirebbe alle stelle. Ma è realmente intenzione di Pechino quella di rischiare uno scontro militare diretto con gli Stati Uniti – e quasi certamente il Giappone e forse la Corea del Sud?

Sul web cinese e sui social network – dove il braccio dell’inquisizione pechinese è sempre attento a controllare l’opinione pubblica – nell’ultimo mese si è registrata una tendenza molto avversa alle più recenti iniziative del Politburo guidato da Xi Jinping: prendere Taiwan con la forza sarebbe irrealistico e pericoloso. La notizia, in questo caso, non è naturalmente quale sia l’orientamento del senso comune; pare, invece, piuttosto rilevante che, chi stringe le viti della censura, in questo caso non lo stia facendo. Forse le autorità di Pechino sulla questione taiwanese si sono fatte più prudenti?

Se così fosse, un accordo con gli USA e con l’Occidente – sulla crisi ucraina e sul commercio mondiale – sarebbe certamente più vicino. Sarà pertanto opportuno continuare a seguire con attenzione anche gli sviluppi relativi a infrastrutture importanti come il porto di Amburgo.

 

 

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