Il rapporto ufficiale che il Comitato organizzatore deve rimettere al Comitato olimpico internazionale (CIO) entro due anni dalla conclusione dei Giochi olimpici è ricco di informazioni di ogni tipo, che consentono di decifrare molti segreti e mostrano il carattere peculiare di ogni edizione. Ci si può per esempio chiedere come abbiano reagito nel 1959 i dirigenti del CIO, inquieti per i ritardi nell’aumentare la capacità ricettiva della Città eterna, quando il sindaco Urbano Cioccetti li rassicurò dicendo che avrebbe personalmente fatto appello alla “tradizionale ospitalità dei cittadini di Roma”.
Inutile invece cercare la classifica per nazioni, dato che il CIO – che pure è per molti versi un’istituzione organizzata sulla falsariga del modello westfaliano degli Stati-nazione – ha più volte sottolineato che sono gli sportivi e non le nazioni che si sfidano. A onor del vero, in due edizioni una classifica ufficiale per paesi, a punti, venne stilata, ma si tratta di storia olimpica antica.
INTERPRETARE IL MEDAGLIERE. Eppure, dal primo giorno – in cui vengono assegnate poche medaglie in sport noti a pochi e praticati da ancora meno – fino all’ultimo – quando tradizionalmente si svolgono le finali delle competizioni a squadre e di alcune specialità particolarmente popolari dell’atletica – la classifica dei paesi più decorati attrae l’interesse di media e opinione pubblica, che interpretano la performance del proprio paese in termini extra-sportivi. Una graduatoria inventata dalla stampa americana e particolarmente seguita durante la guerra fredda, e nuovamente in questi tempi di rivalità con la Cina. Non avendo carattere ufficiale, non esiste neanche una metodologia condivisa per stilare la classifica. Nell’agosto 1952 una querelle metodologica contrappose Pravda e New York Times a proposito dei rispettivi criteri per stilare la classifica a punti – e che, non c’è bisogno di dirlo, favorivano i propri colori.
Cosa svela allora la metrica più diffusa, ovvero le medaglie d’oro? Che nel totale estate-inverno dominano gli Stati Uniti, con 1174 allori, davanti a URSS-Russia (compresa la Comunità degli Stati indipendenti nel 1992) con 721 e Germania (che ha gareggiato con due squadre per 40 anni, con il doppio di chances di vincere) con 533. Molto distanziate vengono Regno Unito (296) e Francia (264), che precede di una minima incollatura l’Italia (259). Seguono poi due paesi scandinavi, Svezia (212) e Norvegia (210), particolarmente competitivi negli sport invernali, e al decimo posto il Giappone (186). Con 285 ori, si inserisce al quinto posto all time la Cina, anche se non ha partecipato che a 11 edizioni estive e 12 invernali. Nel periodo 1988-2020, il paese si piazza al terzo posto, che diventa il secondo prendendo in considerazione solo le ultime quattro edizioni, a partire da Pechino 2008.
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Spacchettando questi dati per stagioni, il ranking per i Giochi estivi è pressoché identico a quello complessivo, con l’inserimento dell’Ungheria all’ottavo posto e dell’Australia al decimo. Nei Giochi invernali primeggia invece la Germania, seguita da Norvegia e URSS-CSI-Russia. Nella “top 10” quattro paesi dal clima rigido (Canada, Austria, Svizzera e Olanda) prendono il posto di nazioni “estive” (Italia e Francia) oppure prive di rilievi importanti (Regno Unito), oltre che della Cina che ha vinto il suo primo titolo invernale solo nel 2002.
Queste classifiche vanno interpretate. Anzitutto, prendendo in considerazione la popolazione totale e calcolando il rapporto tra medaglie e numero di abitanti, il quadro complessivo cambia e non di poco. Nei Giochi estivi è difficile tenere testa ai paesi più piccoli, tra cui il gigante è la minuscola Grenada (125.000 abitanti) che a Rio 2016 ha conquistato una medaglia, equivalente a 94 allori per ogni 10 milioni di abitanti; la Nuova Zelanda, seconda in questa particolare graduatoria, si ferma a 17, gli Stati Uniti a due medaglie. Con i suoi 10 ori, tutti rigorosamente nello sci alpino, il Liechtenstein (che non arriva a 40.000 anime) capeggia la classifica di medaglie pro capite, ma anche la Norvegia si distingue.
La storia è più o meno la stessa quando al denominatore si inserisce la dimensione dell’economia (il PIL) oppure il numero di atleti che concorrono ai Giochi: a Rio, la Corea del Nord ha portato sul podio due atleti ogni 10 iscritti, mentre squadroni come Stati Uniti, Cina e Russia si sono accontentati di più o meno uno ogni 10. Team USA concorse con 242 rappresentanti a Pyeongchang nel 2018 e vinse 23 medaglie, mentre la Norvegia, con 109 iscritti, ne portò a casa 39.
GIOCARE IN CASA E ALTRI VANTAGGI. Pochi paesi si possono vantare di aver “vinto” le Olimpiadi, sempre tenendo in conto il numero di ori. Tra il 1952 (anno della sua prima partecipazione) – e il 1976 (prima cioè dei due boicottaggi), l’Unione Sovietica sopravanzò gli Stati Uniti in quattro edizioni dei Giochi su sette e nuovamente nel 1988 e 1992 (sotto le mentite e fugaci spoglie della CSI). Nelle successive sette edizioni solo la Cina a Pechino è riuscita a interrompere l’egemonia americana. Nei Giochi invernali la contesa è più accesa: la Norvegia ha prevalso nove volte, tra cui nel 1936 a Garmisch-Partenkirchen, distanziando la Germania malgrado questa schierasse 55 atleti contro i 31 scandinavi. Dal 1988 al 2022 i norvegesi hanno prevalso tre volte, come russi e tedeschi, e il Canada ha terminato in testa nel 2010 quando giocava in casa, a Vancouver.
Se esiste una regolarità pressoché perfetta è infatti che la nazione ospite conquista un numero di titoli e medaglie superiore al “normale”: dal 1992 questo premio, calcolato rispetto alle due edizioni precedenti, è stato in media dell’87% per il numero di medaglie, con una punta per la Spagna, che a Barcellona andò sul podio quasi quattro volte più spesso che a Los Angeles e a Seul.
Ci sono diverse spiegazioni del cosiddetto home field advantage: l’energia positiva del tifo amico (che peraltro, causa covid, non c’era a Tokyo 2020 quando il Giappone, con 27 ori, ha polverizzato il precedente record di 16 realizzato nel 1964 … sempre a Tokyo) e l’influenza che esercita su arbitri e giurie. È poi diventato normale che l’ospite adotti un programma ad hoc di investimenti per sfruttare l’occasione, ma anche per seminare per le edizioni successive. Il modello più performante è quello del Regno Unito, che partendo dal 36° posto ad Atlanta, con una sola medaglia d’oro, ha usato la National Lottery per finanziare Sport UK. Con risorse annuali superiori ai 300 milioni di sterline, dedicate unicamente alle eccellenze, l’ente ha privilegiato le discipline che distribuiscono più medaglie, in particolare ciclismo, canottaggio e atletica.
Si stima che chi ha speso di più sia stata la Cina con il Progetto 119, che aveva come obiettivo diventare competitivi negli sport che assegnano più medaglie (precisamente 119 titoli) ed essere una delle tre nazioni sul podio a Pechino 2008. La Francia ha approntato Ambition bleue per raggiungere nel 2024 gli obiettivi ufficiosi fissati da Emmanuel Macron: vincere 90 medaglie e terminare nei Top 5, come i britannici nel 2012. La sfida è appunto ambiziosa, dato che i transalpini nelle ultime sei edizioni si sono piazzati intorno al settimo posto.
Inoltre, contano la familiarità degli atleti di casa con il contesto locale (cibo, meteo o fuso orario), così come con le condizioni di gara (chi organizza spesso si allena regolarmente negli impianti dove poi si svolgono i Giochi). Va anche ricordato che la squadra ospite si classifica automaticamente in tutte le discipline e pertanto il numero di atleti è maggiore (gli italiani nel 1960 furono più del doppio che nel 1956). Non va neppure sottovalutato l’effetto di inserire nel programma nuovi sport in cui gli anfitrioni sono particolarmente competitivi – nel 2021 il Giappone ha vinto medaglie in baseball, softball, karate, skateboarding e nel keirin.
Oppure è solo un effetto ottico: controllando in base a una lunga serie di variabili socioeconomiche, ma anche sportive come il numero di medaglie vinte in precedenza dall’ospite in ciascuna disciplina, il surplus di vittorie si attenua, fino a scomparire nel caso della Grecia.
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Più in generale, il PIL totale è sicuramente importante per spiegare il successo olimpico, in particolare nei Giochi estivi: basta osservare il medagliere di Tokyo in cui il podio era occupato da Stati Uniti, Cina e Giappone, mentre il Regno Unito era quarto. È solo a causa dell’annus horribilis dell’olimpismo tedesco se la sovrapposizione tra performance sportiva ed economica non è stata perfetta.
Ma la realtà è più complessa. Studi empirici più sofisticati che semplici correlazioni del ranking segnalano l’importanza di fattori esplicativi come dimensione geografica, densità della popolazione, reddito pro capite e, durante la Guerra fredda, appartenenza al blocco comunista. L’interazione tra popolazione e benessere funziona particolarmente: in altre parole vincono di più i paesi in cui la gente è (più) felice. Il grado di disuguaglianza spiega anch’esso gli esiti olimpici: dove è basso, esistono istituzioni che creano incentivi a investire nei talenti degli individui, anche sportivi, indipendentemente dal reddito.
GRANDI CHE VINCONO POCO E PICCOLI CHE VINCONO TANTO. Tra chi ha vinto poco, anzi pochissimo, spicca l’India, che ha al suo attivo appena 35 medaglie, 10 d’oro, tra cui otto nell’hockey su erba in cui dominò senza rivali dal 1928 al 1956. Il trionfo a Londra 1948 contro i britannici, un anno dopo l’Indipendenza, resta celebratissimo, ma per il primo oro individuale si dovette attendere il 2008. Le ragioni stanno all’intersezione tra politica ed economia. Da un lato l’hockey e i suoi trionfi, considerati sufficienti a soddisfare le necessità simboliche. Ma anche la concorrenza quasi insormontabile che esercita il cricket, disciplina non-olimpica in cui l’India eccelle sia sul piano agonistico, sia su quello della commercializzazione.
Per i Giochi d’inverno, l’immenso successo della Norvegia (con Austria e Liechtenstein, una delle tre nazioni ad avere vinto di più in inverno, malgrado il numero molto inferiore di medaglie assegnate, che in estate) è dovuto a fattori culturali e istituzionali. Pur essendo un paese grande, ricco e freddo, è poco popolato. Le sue montagne sono basse, ma anche in stazioni a bassa quota le piste sono illuminate. È sicuramente importante una cultura che incoraggia la vita a stretto contatto con la natura, l’uguaglianza e il rispetto del Children’s Rights in Sports, il documento che definisce la pratica sportiva come innanzitutto una forma di socializzazione.
Un ulteriore elemento è la tecnologia: la Norvegia è all’avanguardia nello sviluppo di materiali aerodinamici, col risultato di estendere progressivamente la sua forza dallo sci nordico e il pattinaggio di velocità allo sci alpino, a partire da Lillehammer 1998 quando Kjetil André Aamodt vinse il suo primo oro, per poi diventare lo sciatore più premiato nelle storia delle Olimpiadi.
Tra le nazioni che hanno ottenuto risultati migliori di quanto previsto dai modelli figura Cuba. Si narra che il 24 luglio 1959, poco dopo aver conquistato il potere, Fidél Castro e Los Barbudos sfidarono la squadra di baseball della polizia militare e che il Líder Máximo eliminò due battitori. Da allora il baseball si è trasformato da pelota esclava in pelota libre, e quando entrò nel programma olimpico nel 1992, Cuba vinse l’oro. Della carriera rugbistica di Ernesto “Che” Guevara non si sa moltissimo, se non che giocava nel San Isidro, club argentino dell’alta borghesia porteña. Pugilato e atletica sono serviti, coi loro successi olimpici, non di rado ottenuti con l’aiuto di tecnici sovietici, a rafforzare i sentimenti patriottici dell’isola caraibica.
GLOBAL SOUTH VS. GLOBAL NORTH. La diatriba metodologica tra i media americani e sovietici a cui si accennava dimostra come nel medagliere conti vincere, eccome. Serve per affermare la propria superiorità anche lontano dai terreni di gara o, come ha recentemente detto Narendra Modi, perché un paese – in questo caso l’India – “non si accontenta di una buona performance, vuole medaglie e vittorie.” E dato che i parametri, innanzitutto economici, che determinano il successo mutano nel tempo, così dovrebbero le classifiche.
In realtà c’è stato molto più cambiamento nella vita economica che in quella sportiva. Il confronto è tra Sydney 2000 e Tokyo 2021 (anche se negli annali del CIO rimarrà 2020). Il 2000 è anche l’anno che precede l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio (e l’attacco alle Torri gemelle); da allora è iniziata la crescita impetuosa delle economie emergenti e la simultanea erosione del dominio del Nord globale (definito in questa sede come Stati Uniti, Canada, Europa compresa Ucraina, Australia, Corea, Giappone, Israele e Nuova Zelanda). Il confronto mette in luce come nel ventennio l’ascesa economica del Sud globale sia stata ben maggiore di quella sportiva. Anzi, nel 2021 si registra un passo indietro, dovuto in parte alla mutata situazione della Russia alle Olimpiadi.
Tra le prime 20 economie mondiali, il Sud globale ne poteva contare sei nel 2000, diventate otto nel 2021 – con passi in avanti giganteschi da parte di Indonesia (+11 posizioni) e India (+8). Anche ai Giochi estivi si registra un incremento, ancorché minimo – da quattro a cinque – ma resta che di fronte al balzo in avanti del Brasile, che guadagna ben 41 posizioni, si registra il passo indietro di Cuba (-3).
Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2024 di Aspenia