Nel settembre 2005, Angela Merkel sfida il Cancelliere in carica Gerhard Schröder in un duello televisivo. La futura Kanzlerin è combattiva, educatamente aggressiva, incalzante, determinata. Due settimane dopo, la CDU supera l’SPD (di un solo punto percentuale): nasce una Große Koalition e Merkel diventa la prima donna a guidare la Repubblica Federale di Germania. Gerhard Schröder, invece, alla fine del suo secondo mandato è sconfitto: anche lui, come tanti prima, ha sottovalutato l’ex discepola di Helmut Kohl. Lei, di mandati, ne farà quattro. Quello di essere spesso sottovalutata, del resto, è il primo limite che Angela Merkel saprà trasformare in vantaggio tattico di una leadership in cui prudenza e consapevolezza della complessità si riveleranno le basi di una rara resilienza politica.
La strategia della cautela
Una volta premier, Merkel inizia subito ad abbandonare quel poco di aggressività che le era stata necessaria per vincere la campagna elettorale: assume una postura da civil servant disciplinata che mai eccede i limiti formali del proprio ruolo. Il merkelismo si apre con una narrazione fatta di piccoli passi: l’economia sociale di mercato come tradizionale argine alla pur massiccia ristrutturazione del welfare, l’integrazione europea come necessità ma mai come slancio ideale, il richiamo a completare il processo di riunificazione tedesca e, soprattutto, la scelta di puntare sul surplus commerciale per smettere di essere il malato d’Europa.
Nei primi otto anni di cancellierato, gli esecutivi Merkel sono principalmente fatti di cautela strategica o strategia della cautela (poco importa se in alleanza con la socialdemocrazia o con il liberismo spinto dei liberali della FDP). La stessa retorica della Kanzlerin si sviluppa in una declinazione tedesco-luterana del Wu Wei, l’azione non-azione taoista, dove la parte più importante della strategia è la consapevolezza di quando non agire e non esprimersi in maniera definitiva. In dichiarazioni e conferenze stampa, Merkel abitua i suoi uditori a espressioni e formule soddisfacenti ma mai complete, spesso calibrate e moderate dall’uso di molti avverbi – “manchmal” (a volte), “vielleicht” (forse), “obwohl” (nonostante),”andererseits” (d’altra parte) – così come dall’utilizzo di tante forme verbali e pochi nomi, per sottolineare le azioni senza coinvolgere troppo gli attori delle stesse. La Kanzlerin sceglie inoltre un uso decisamente ragionato dei soggetti delle sue frasi: “ich” (io) solo se strettamente necessario, “wir” (noi) ogni qualvolta ci sia bisogno di richiamare alla coesione generale verso il centro politico e, soprattutto, l’impersonale “man” per stemperare i toni lasciando una specifica vaghezza sulle effettivi posizioni di persone o gruppi contrapposti.
Anno dopo anno, diventa così riconoscibile il metodo Merkel, che si basa su una premessa costante: prima di prendere una decisione si ascoltano alleati, oppositori e opinione pubblica, senza temere di cambiare posizionamento, spesso assorbendo e rimodulando istanze diverse. Pur restando sempre sostanzialmente vincolato alla Realpolitik dell’interesse economico tedesco, infatti, sotto Merkel il cancellierato diventa a poco a poco un elemento di governance quasi neutra: lo scopo del confronto politico è trovare una soluzione percorribile, condivisa, praticabile, sostenuta dal consenso della maggioranza del paese.
Emblematici in questo senso sono i posizionamenti e il linguaggio di Merkel in situazioni come la rinuncia tedesca al nucleare, gestita durante l’onda emotiva della tragedia giapponese di Fukushima del 2011, o i matrimoni omosessuali, per cui nel 2017 la Kanzlerin apre alla modernizzazione della stessa CDU, riuscendo però a non lacerare apertamente il proprio partito.
La predilezione per l’osservazione, il calcolo e la calibratura, del resto, è anche una conseguenza diretta della personalità stessa di Angela Merkel. Se per un lungo periodo, almeno fino al 2013, la Kanzlerin è per molti la “Mutti” – una madre un po’ goffa ma affidabile, che vede e provvede con la razionalità di una massaia old-style – si dovrebbe piuttosto rintracciare altrove il segreto del suo lungo successo. Ciò che rende per anni vincente l’arte della cautela di Merkel, infatti, è molto più probabilmente la sua formazione accademica: i suoi studi in chimica fisica con un dottorato in chimica quantistica sono stati sicuramente decisivi nel delineare l’oggettiva capacità di Merkel di gestire la complessità e riuscire a governare la dimensione politica di contraddizioni e ambivalenze.
Il rifiuto del personalismo come arma segreta
C’è di più. La cautela strategica di Merkel ha anche avuto un successo così prolungato perché si incastra con la struttura stessa della democrazia tedesca del Dopoguerra, disegnata allo scopo di evitare concentrazioni di potere nell’esecutivo: un’organizzazione federale di equilibri regionali, un sistema parlamentare con partiti forti, un assetto istituzionale fatto di chiari pesi e contrappesi, una funzionale ostilità all’eccessivo decisionismo e al personalismo.
Pur essendo il merkelismo un frutto della specifica personalità della Kanzlerin, infatti, nessuno è mai riuscito a sconfiggere Angela Merkel con attacchi e provocazioni personali. Durante i confronti tv, durante le fasi più delicate dei suoi governi, durante gli interventi al Bundestag o nell’arena internazionale, Merkel è quasi sempre stata in grado di non offrire occasioni ai propri avversari di sferrare un attacco frontale. Una resilienza che è il frutto di moderazione e ponderazione durante le fasi di successo politico, ancora prima che durante i periodi di crisi. E’ evitando retoriche trionfaliste e annunci plateali nei periodi in cui raccoglie maggior consenso che Merkel riesce poi a essere un bersaglio sfuggente quando arrivano i momenti di più grande difficoltà.
Un meccanismo che è anche alla base della particolare resistenza della Kanzlerin all’anti-politica. Una delle tecniche più efficaci dell’anti-politica è proprio la decostruzione delle narrazioni-marketing delle leadership di governo o di partito, di cui vengono individuate innanzitutto le contraddizioni e le semplificazioni comunicative, per sferrare poi accuse di ipocrisia, falsità, inaffidabilità. Essendosi però Merkel sempre tenuta distante dalla narrativa più spettacolare e dalla gratificazione temporanea della vanità politica, è sempre stato difficile eroderne consenso e autorità con le stessa modalità e intensità che hanno invece funzionato con altri leader e politici europei.
Del resto, a esclusione di un simbolo superficiale come la Merkel Raute (il gesto del rombo fatto dalla Kanzlerin con le mani, utilizzato soprattutto nelle elezioni del 2013, diventato una specie di marchio di riconoscimento), il merkelismo ha per anni letteralmente evitato di esprimere elementi di marketing o slogan riconoscibili e facilmente decostruibili.
Un deficit di visione
Nonostante la sua resilienza, e proprio per la sua eccessiva cautela e per il rifiuto di esporsi CDUin maniera definita, la Kanzlerin viene però da tempo accusata di avere un deficit di visione politica. In almeno un’occasione la cautela strategica e comunicativa di Merkel ha avuto conseguenze evidenti: durante l’eurocrisi e la crisi del debito greco.
Soprattutto nel 2015, mentre ormai tutto il mondo guarda alla Germania come attore principale nella gestione di mesi difficilissimi, in tanti si aspettano che Merkel non faccia solo pesare tecnicamente il ruolo guida di Berlino, ma accetti anche il carico di leadership simbolica che ne consegue, pronunciando quindi parole chiare ed efficaci sul futuro dell’eurozona e della stessa UE. Parole che, viste le dinamiche finanziarie, sarebbero in quel momento di enorme aiuto alla stabilità dell’eurozona (così come lo era stato, nel 2012, il “whatever it takes” di Mario Draghi). Da parte di Merkel, però, non arriva niente di carismatico: il suo posizionarsi durante l’eurocrisi resta impersonale, rigidamente tecnocratico, apertamente focalizzato sulla stabilità tedesca prima che su quella europea e, quindi, inevitabilmente ostile all’opinione pubblica fuori dalla Germania. E’ soprattutto con la crisi dell’euro e la crisi greca che Merkel mostra i suoi limiti quando si tratta di inserire la sua abilità di navigatrice della complessità in una narrazione politica più ampia, incoraggiante, efficacemente pregna di senso storico.
“Wir schaffen das”
Un posizionamento ben più chiaro e riconoscibile da parte di Merkel arriva tuttavia nella stessa estate del 2015, in occasione della crisi dei rifugiati causata dal sanguinoso conflitto in Siria (proprio poche settimane dopo l’apice delle trattative UE-Grecia). Al decimo anno alla guida della propria nazione, la Cancelliera decide di esporsi davvero, abbandonando la sua cautela strategica e, per certi versi, facendo un vero e proprio passo nella Storia.
Il 31 agosto 2015, durante una conferenza stampa sull’apertura delle frontiere tedesche a centinaia di migliaia di richiedenti asilo, Merkel dichiara: “La Germania è un paese forte. Il motivo per cui ci occupiamo di questa situazione dev’essere: siamo riusciti a fare così tanto, ce la facciamo”. Una frase che riconduce l’inizio della Willkommenspolitik (politica dell’accoglienza) alla solidità economica tedesca e alla particolare storia recente della Germania.
La frase della Kanzlerin, però, viene presto ridotta mediaticamente alle sue ultime tre parole: “Wir schaffen das – Ce la facciamo”, una formula che ricorda direttamente il “Yes we can” dell’allora Presidente Barack Obama e che diviene, per la prima volta, uno slogan con cui Merkel possa essere effettivamente caratterizzata da sostenitori e da oppositori. Nei primi mesi della politica dell’accoglienza è la stessa Merkel a credere nella potenza retorica del “Wir schaffen das”, tanto da ripeterlo più volte in quello che è forse stato il suo discorso più appassionato: l’intervento durante il Congresso CDU del 14 dicembre 2015, in cui la Cancelliera parla di “imperativo umanitario” e della crisi dei rifugiati come di una “prova storica per l’Europa”.
Solo due settimane dopo quell’intervento tanto convinto, però, i gravi fatti del Capodanno di Colonia mettono ampiamente in crisi la Willkommenspolitik e il dibattito sull’immigrazione in Germania inizia a farsi ben più teso, rafforzando anche l’emergere della destra populista di Alternative für Deutschland. Così, già a partire dai primi mesi del 2016, la retorica di Merkel ritorna, anche se lentamente e senza palesi dietrofront, alla sua tradizionale cautela strategica. Se da un lato la Kanzlerin si oppone infatti con fermezza a qualunque negazione dei principi della Legge Fondamentale della Repubblica Federale da parte del nuovo populismo identitario, dall’altro lato abbandona le narrazioni più plateali sul tema immigrazione, giungendo poi in diverse occasioni a rimodulare significativamente il senso del suo stesso “Wir schaffen das”.
Un’operazione, quest’ultima, che forse permette a Merkel di ricompattare il proprio consenso presso la maggioranza dei tedeschi, ma che non evita la nascita di un movimento di opinione anti-establishment, assolutamente inedito in Germania. Un movimento che, oltre a trovare sbocco elettorale in AfD (il partito di destra radicale Alternative für Deutschland), raggiungerà poi momenti di massima tensione con le istituzioni durante le manifestazioni anti-immigrazione nella città sassone di Chemnitz, nel settembre 2018.
Nel frattempo, però, è proprio questa escalation populista-identitaria contro il governo tedesco che, nonostante il ritorno di Merkel alla proverbiale prudenza anche sul tema migranti, rende la Kanzlerin un simbolo internazionale della resistenza liberal-democratica ai populismi e ai nazionalismi. La concomitanza della resilienza del cancellierato Merkel con l’arrivo del trumpismo negli USA, del “cigno nero” Brexit e dell’affermarsi di diverse altre forze identitarie e protezioniste in Occidente, infatti, investe Angela Merkel del ruolo mediatico e politico di garante dell’ordine liberale.
Lo scatto finale
La cautela strategica di Merkel viene infine per certi versi ancora una volta abbandonata proprio negli ultimi mesi, soprattutto a partire dal momento in cui la Kanzlerin lascia tatticamente la presidenza della CDU. Da quel giorno Merkel sembra sentire la libertà di essere al proprio ultimo mandato e pare più determinata del solito nel fare appello a quei principi che più definiscono la sua attuale immagine globale. In questo nuovo corso possono essere inserite le dichiarazioni di dicembre 2018 sull’esercito europeo, così come l’ultimo discorso di fine anno ai tedeschi, in cui Merkel ha voluto cercare una nuova energia.
Lo stesso vale anche per uno dei recenti interventi della Kanzlerin al Parlamento Europeo (nel novembre 2018), in cui, in vista delle prossime elezioni UE, ha riaffermato che “Nazionalismo ed egoismo non devono avere mai più la possibilità di spargersi in Europa. Tolleranza e solidarietà sono il nostro futuro. Ed è un futuro per cui vale la pena lottare”. Un discorso non molto dissimile dall’intervento a Davos dello scorso 23 gennaio, in cui Merkel non ha evitato di citare apertamente la realpolitik dei “rapporti di forza” nelle organizzazioni internazionali, ma ha anche più idealmente ripetuto che “Abbiamo bisogno di un chiaro impegno per il multilateralismo” perché “qualsiasi altra opzione finirà in miseria”.
Esiste un merkelismo dopo Merkel?
Come noto, il testimone di Angela Merkel potrebbe ora passare ad Annette Kramp-Karrenbauer (AKK) anche per quanto riguarda la guida del paese. La neo-presidente della CDU porta in sé diversi elementi della personalità di Angela Merkel e della sua retorica, a partire da una narrazione mai sopra le righe, da una naturale tendenza alla ricerca di posizioni mediane e da un simile rifiuto della vanità politica, del sensazionalismo e della ricerca dello scontro a fini propagandistici. L’abitudine di definire Kramp-Karrenbauer una semplice mini-Merkel, però, è sbagliata. Non solo perché l’ex Presidente della Saar ha un profilo indipendente dalla Kanzlerin, ma anche perché la Germania, l’Europa e lo scenario internazionale che AKK si appresta eventualmente ad affrontare è diverso da quello in cui si sono sviluppate e imposte l’egemonia e la prudente (anti)retorica di Angela Merkel.
Il prossimo esaurirsi del merkelismo, infatti, dipenderà dal crescente allontanarsi e polarizzarsi delle istanze di cui per anni il metodo Merkel è potuto essere mediatore centrale, sintesi calibrata, soluzione complessa. Le lacerazioni e le crescenti contrapposizioni ideologiche contemporanee renderanno infatti sempre più difficile questo ruolo di sintesi, mediazione, adeguamento. Un conto è mediare tra conservatori, liberali e socialdemocratici. Un altro conto sarà mediare tra partigianerie ben più contrapposte.