È stato spesso ripetuto che l’Europa cambia solo dopo grandi sconvolgimenti; è vero, la vicenda della sua integrazione è fatta di scatti avviati in quei gravi momenti. Ma l’ultima crisi, al contempo economica, sociale e politica, ha visto mutare il panorama politico dei paesi europei come mai era successo negli ultimi decenni. Due recenti appuntamenti elettorali – il voto catalano e quello greco, voti “nazionali” (anzi, tecnicamente “locale” quello catalano) con riflessi internazionali – ci offrono un’ottima occasione per cogliere le forme di un cambiamento che ormai, in tante maniere diverse, si è davvero radicato.
Sono due le esigenze più sentite dalla larga parte di opinione pubblica che la crisi, avendo attraversato il continente (in modi diversi) dal 2008, ha reso più insoddisfatta. Una riguarda la politica, e l’altra l’economia. Una esprime la volontà di cambiare la classe di governo che ha fallito nella previsione e nella gestione della congiuntura negativa. L’altra punta a modificare un sistema economico considerato incapace di offrire sufficienti tutele alle nuove necessità.
In tutti i paesi europei si trovano partiti che hanno fatto di queste domande, pretese, paure la loro bandiera. In alcuni casi proponendo – accanto al rinnovamento politico – soluzioni economiche di chiusura, isolazioniste: è stato il caso del “nuovo” Front National di Marine Le Pen, ad esempio, ma anche dello United Kingdom Independence Party (UKIP).
In questa categoria possiamo contare, unico esempio (finora) vincente, la Fidesz di Viktor Orban in Ungheria. Fidesz, partito liberale, fu trasformato da Orban in senso nazional-conservatore poco prima che l’economia ungherese fosse devastata (2006) dallo scoppio di una bolla immobiliare; si scoprì che il governo in carica aveva truccato i conti, mentre si contavano a decine di migliaia le persone rovinate dai mutui, e i manifestanti nelle piazze. Così, garantendo la rottamazione di chi aveva fallito, e assicurando che la crisi – colpa della finanza internazionale e dell’Unione Europea, disse – non si sarebbe ripetuta, Viktor Orban ha stravinto le elezioni del 2010 e le successive nel 2014. Il premier è riuscito a trasformare ogni voto in un referendum tra se (il difensore dell’Ungheria) e un’opposizione svenduta alle banche e all’Occidente; con ottimo successo.
Invece, nel caso di paesi caratterizzati da una forte crescita negli anni precedenti a una crisi altrettanto forte – come Grecia e Spagna, ma anche Irlanda – troviamo una tendenza differente. L’opinione pubblica premia quelle proposte che insieme al rinnovamento politico promettono non la chiusura, ma la redistribuzione di risorse gestite fin lì in modo inefficiente o iniquo.
In Grecia, la federazione di sinistra radicale SYRIZA si è consolidata come dominus in soli quattro anni: nel 2012, praticamente neonata come coalizione, è giunta seconda alle elezioni politiche a poca distanza dai conservatori di Nea Dimokratia. E poi non ha mancato una vittoria, imponendosi prima alle amministrative, poi alle europee e infine due volte alle politiche del gennaio e del settembre 2015. I greci, alle prese con una devastante crisi economica – come in Ungheria accompagnata a più riprese da menzogne sulla sua vera consistenza – non hanno dimostrato pietà nel pensionare la classe politica al potere negli ultimi trent’anni. Prima disertando in massa il PASOK, il vecchio partito socialista che una volta veleggiava attorno al 40% dei voti; e poi ridimensionando anche gli avversari conservatori.
Nea Dimokratia, la forza più “resistente” ma incapace di proporre all’elettorato una nuova formula rispetto al solito programma economico di tagli e clientelismo, perdeva dunque malamente le elezioni di gennaio. La coalizione guidata da Tsipras si imponeva alla fine di una drammatica campagna elettorale caratterizzata da discussioni e promesse di grande rinnovamento economico e politico, sulla base di un ambizioso programma di riforme.
Accantonato poi questo per la resa alle richieste dei creditori europei, restava il rinnovamento della classe politica l’unico tema di campagna alle elezioni anticipate di settembre. E bastava al capo di SYRIZA chiedere un voto sulla questione morale e generazionale, di fronte all’immutabilità delle leadership degli altri partiti considerati compromessi e corrotti, per vincere comodamente e tornare al governo.
L’incapacità di adattamento della politica tradizionale greca ha reso perciò vita facile alla novità, pure traballante, proposta da Alexis Tsipras. La vicenda catalana – che oggi vede la vittoria (parziale) dell’indipendentismo nelle urne, dunque una novità rispetto al passato – è al contrario un esempio di adattamento riuscito. Vediamo come.
L’opinione pubblica catalana, fino a una decina d’anni fa, era indipendentista solo in piccola parte. Poi la crisi ha investito duramente la regione e la città di Barcellona – che si consideravano un’isola felice. E due paralleli moti di scontento ne sono originati: uno nei confronti del governo locale, ritenuto colpevole di essersi indebitato troppo prima e ora di tagliare indiscriminatamente; e un altro nei confronti del governo nazionale, accusato di non voler garantire alla regione le risorse sufficienti per autogovernarsi.
È stato allora che il partito egemone della politica catalana, l’autonomista Convergència i Uniò (CiU, di centrodestra), per lunghi anni al governo regionale, ha deciso la sua svolta indipendentista. Mentre le proteste per i tagli si moltiplicavano, diventava difficile mantenere il timone del governo e il polso del consenso, che già scricchiolava. La svolta ha permesso a CiU di aprire un dialogo con la giovane sinistra locale (ERC), già schierata su posizioni indipendentiste e destinata, per i sondaggi, a sostituire CiU al governo – secondo un’evoluzione simile a quella di SURIZA nei confronti di Nea Dimokratia.
L’abbraccio tra CiU e ERC si rivelava proficuo: produceva quattro moltitudinarie e pacifiche manifestazioni rivendicative e una mobilitazione continua della cittadinanza attraverso iniziative di ogni genere. La “vecchia” CiU, che aveva governato la regione per ventitré anni, con un leader ora coinvolto in uno scandalo per evasione fiscale, riusciva così a ribaltare la situazione presentandosi come una forza politica nuova e includente. Il separatismo catalano soddisfa infatti la domanda di rinnovamento politico, perché costituisce una liberazione dalla “casta” di Madrid; e quella di redistribuzione economica, dato che – stando alle promesse – la nuova Catalogna conserverebbe per se quelle risorse che lo stato ingiustamente le sottrae. La messianica chiusura di campagna del presidente uscente Artur Mas lo spiega al meglio: nelle sue parole, la Catalogna liberata garantirà “prosperità, giustizia sociale, eguaglianza di opportunità, speranza, dignità e libertà”.
CiU (che nel frattempo ha perso Uniò, scontenta del nuovo corso), è stata insomma capace di modellare il sistema politico catalano su una nuova base. L’avvicinamento con l’ex avversaria ERC è culminato infatti in un inedito listone comune indipendentista. Se il tentativo non è riuscito in pieno dal punto di vista dei voti – il 39% non basta per avviare una secessione rapida – è però servito in pieno a parare i colpi delle altre nuove forze politiche, costringendole a seguire lo schema politico da essa stabilita. I partiti nazionali spagnoli, screditati, sono ridotti attorno al 10%. Anche Podemos, forza attualmente da molti vista come simbolo di rinnovamento per tutta la sinistra europea, ha patito una cocente sconfitta, perché in un voto pro o contro l’indipendenza è suonata fuori posto. Solo chi si è posizionato lungo quella frattura, cioè la sinistra radicale separatista della CUP e il centrodestra unionista di Ciutadans, ha raccolto buoni risultati.
La capacità di intercettare le nuove domande dell’elettorato si dimostra dunque fondamentale per l’emersione delle nuove forze politiche in ambito europeo. Ma la loro tenuta nel lungo periodo dovrà misurarsi con l’abilità di sagomare i sistemi dentro i quali agiscono, trasformandosi in motori – non solo in meri rappresentanti – del cambiamento.