Il coronavirus sta modificando profondamente le nostre vite, ma non sappiamo ancora quanto. Siamo troppo immersi nella dinamica che stiamo attraversando e la nostra energia al momento è quasi totalmente presa dalla priorità della salvaguardia della salute. Intanto, non stiamo più gestendo la ridondanza comunicativa sul coronavirus: siamo bombardati da una serie di notizie e informazioni continue, spesso contraddittorie, spesso sbagliate, altre invece ottime e utili che facciamo fatica però a selezionare rispetto alle altre.
In sostanza siamo confusi. Si è persa la narrazione, le voci che ascoltiamo sono ormai una babele quotidiana. Stiamo, come società, gestendo l’improbabile e non siamo pronti per questo. Le conseguenze sono senz’altro il disagio personale e la difficoltà a diagnosticare il presente e ancor più il futuro. Abbiamo però memoria del passato e al momento ci aggrappiamo a quello anche per pensare il futuro; eppure facciamo fatica ad avere un pensiero innovativo sul futuro.
Questa esperienza, nelle sue dimensioni sociali, economiche, tecnologiche, ci lascia in eredità l’assoluta certezza di competenze nuove e specifiche che dovremo sviluppare nei prossimi anni e di cui l’emergenza vissuta ha visto la grande carenza. Come dice Mohammed Yunus “non torniamo al mondo di prima: abbiamo un’occasione incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene anche senza coronavirus”.
Competenze ambientali, capacità di sfruttare i big data, health organization, capacità di decisione, ascolto attivo, empatia. Queste sono le cosiddette “soft skills” che dovremo assolutamente sviluppare nel futuro con molta attenzione se vorremo gestire con efficacia le organizzazioni del futuro. Dovremo passare da un management tradizionale a un management della complessità.
Qualcosa di nuovo sta arrivando, e anzi il futuro è già qui, sebbene sia distribuito male… per dirla con William Gibson. In un certo senso, futuri multipli sono arrivati, secondo l’espressione di Peter Frase (Quattro modelli di futuro, Treccani 2019). Spetta a noi costruire un potere collettivo in grado di lottare per i futuri che vogliamo. Nel mio ultimo libro “Il Nuovo Paradigma. Perché il futuro del capitalismo è comunitario” (Lupetti 2021) tento di riflettere su tutto questo.
Provare ad immaginare quali saranno i reali scenari post-coronavirus è ancora difficile, sicuramente stiamo assistendo ad un’accelerazione della disgregazione dell’ordine mondiale che vede da una parte l’America e dall’altra la Cina. La pandemia, naturalmente, non è stata soltanto all’origine di una crisi sanitaria e socio-economica, ma di un vero e proprio ridisegno della geometria mondiale che le potenze americana e cinese stanno elaborando. In situazioni così drammatiche, i problemi diventano sempre di carattere geopolitico. Il rischio che stiamo per correre è quello che i rapporti organizzativi e internazionali siamo sempre meno globali e sempre più veicolati dalla potenza a cui si fa riferimento. Ma un dato di fatto incontrovertibile è che la ridefinizione delle priorità deve essere sia individuale che collettiva.
Stefano Zamagni, economista e presidente delle Pontificia accademia delle scienze sociali, ci indica quattro importanti lezioni che la crisi del Covid-19 ci sta impartendo. La prima riguarda la prudenza, quella virtù che negli ultimi decenni è stata messa in disparte e che invece guida tutte le altre perché è la virtù del voler guardare lontano per mirare al bene comune. La seconda lezione è la comprensione della differenza tra government e governance. Government è l’istituzione politica, mentre con governance si fa riferimento a persone e decisioni su cosa concretamente viene realizzato per conseguire l’obiettivo dichiarato. È accaduto che tante proposte della governance verso un bene comune non sono state per nulla prese in considerazione dalle istituzioni (government) e Zamagni invita tutti a chiedersi il perché. Si è capito (terza lezione) che la salute di una persona e di una popolazione è funzione di cinque variabili: la sanità, gli stili di vita, le condizioni lavorative, l’ambiente (ecologico), la famiglia. Purtroppo, si sta guardando solo alla prima delle variabili, quando invece tutte e cinque concorrono verso il benessere dell’uomo. La quarta lezione è relativa all’Unione Europea che indiscutibilmente ha bisogno di un “supplemento d’anima”. Affidarsi di più alla speranza, conclude Zamagni, che si alimenta con la creatività dell’intelligenza politica e con la purezza della passione civile.
Günther Pallaver, docente di Scienze politiche presso l’Università di Innsbruck, sottolinea che autonomia non è solo autogestione, perché è anche cooperazione, cogestione e soprattutto governance, ovvero capacità di inclusione della più ampia platea possibile di attori politici e sociali. Questo processo di inclusione si deve tradurre in primo luogo in capacità di dialogo tra soggetti istituzionali, soprattutto se si tratta di trovare un punto di equilibrio tra salute pubblica ed economia.
Che cosa è accaduto però negli ultimi anni? Sicuramente un grande distacco tra cittadini e istituzioni. Come giustamente dice Valentina Pazè in un suo articolo del 2018, il fenomeno si registra nella maggior parte delle democrazie contemporanee, ma “non è ascrivibile solo al qualunquismo, disinteresse o protesta, più o meno consapevole, nei confronti di una classe politica inadeguata e corrotta. E’ indice di qualcosa di più grave: una radicale perdita di fiducia nella democrazia come veicolo di cambiamento ed emancipazione sociale, che oggi interessa in particolare i più poveri e più svantaggiati. […] Indagini svolte in diversi Paesi concordano nel rilevare che il fenomeno della fuga dalla politica riguarda oggi in primo luogo i ceti meno abbienti e meno garantiti.
Disoccupati, precari, marginali, poveri e impoveriti rappresentano il grosso dell’esercito del non-voto e della non partecipazione. In Italia ma anche in Germania e in Francia, Stati Uniti (dove persistono barriere giuridiche all’iscrizione dei meno abbienti ai registri elettorali). Lo scarso interesse dei poveri per la politica riflette lo scarso interesse della politica per i poveri. Con le parole di Wolfang Streeck, la politica sembra essere diventata un “gioco di intrattenimento per la classe media (o medio-alta, dato lo scivolamento verso il basso del ceto medio colpito dalla crisi). Un gioco che non appassiona e non coinvolge chi ha perso qualsiasi speranza nella possibilità della soluzione collettiva ai propri problemi”.
Valentina Pazè descrive così benissimo lo stato attuale della politica e della rappresentanza attuale, e fa emergere un punto importante: la situazione non può essere risolta con strumenti tecnologici, nel senso che la partecipazione dei cittadini tramite le piattaforme sicuramente dilata la loro possibilità di espressione, ma questa possibilità non trova per ora riscontro in una qualità migliore della rappresentanza. La politica purtroppo non “attrae cervelli”; più precisamente , guardando ad esempio al caso dell’Italia possiamo dire che questo sistema partitico (a livello nazionale e purtroppo anche a livello locale) non ispira le persone migliori e con competenze distintive a impegnarsi.
Quello che è accaduto di positivo riguarda varie forme di autorganizzazione dei cittadini che sono nate per la soluzione di problemi specifici della comunità: senz’altro anche questo è politica, sebbene non nel senso del government. Come cambiare a livello delle istituzioni è una sfida per ognuno di noi, non delegabile, e che andrà a definire anche il futuro del nostro capitalismo.
Intanto abbiamo compreso che la digitalizzazione di per sé non potrà probabilmente rinvigorire la democrazia. Come scrive il professor Enrico Nardelli “La situazione che stiamo vivendo sta facendo venire al pettine una serie di nodi mai affrontati negli anni passati a proposito di ‘trasformazione digitale’. Questo termine da un po’ di tempo a questa parte è diventato di moda, soprattutto tra politici, che però in grandissima maggioranza non hanno idea di cosa voglia dire e di come si realizzi davvero. Il problema è prima di tutto culturale, perché quella digitale è una tecnologia diversa da tutte le altre che l’hanno preceduta. […] Le ‘macchine digitali’ sono amplificatori delle capacità cognitive razionali delle persone e quindi radicalmente differenti da tutte le macchine precedentemente realizzate dall’uomo, che ne potenziano solo le capacità fisiche. Dopo secoli di progresso tecnologico, questa rivoluzione è dilagata nella società nel breve intervallo di un ventennio e quindi troppo velocemente perché la classe dirigente riuscisse a comprenderne la portata”.
Nardelli afferma inoltre che “mentre nell’automazione fisica c’è sempre un umano che rimane al comando della macchina e che la aiuta nella interpretazione della realtà circostante, quando si è introdotta l’automazione ‘cognitiva’ (quella delle macchine digitali) si è erroneamente creduto che i sistemi informatici potessero completamente sostituire le persone e ‘fare tutto da soli’.
In sostanza, di fronte un cambiamento così radicale dal punto di vista sociale ed economico non si è ancora pienamente capito che un requisito necessario per una “buona” trasformazione digitale è: “no digitalization without end user representation”.
Queste osservazioni ci ricordano che senza un processo formativo che coinvolga la cittadinanza sarà molto difficile riuscire compiere i due passi necessari: primo, comprendere davvero la trasformazione digitale; secondo, attuarla in modo che rafforzi il ruolo attivo dei cittadini invece di comprimerlo. In questo difficile processo, una politica diversa dovrebbe giocare un ruolo importante.