L’età in cui il mondo sembrava plasmato dalle forze dei mercati sembra tramontare. Il capitalismo politico prospera, e non solo in Cina. Anche gli Stati Uniti promuovono l’intreccio strumentale e reale tra obiettivi economici ed esigenze di sicurezza nazionale, mentre nel Vecchio Continente si afferma sempre di più il modello francese. La sfida cruciale sarà sulla tecnologia: America e Europa potranno vincerla solo rinvigorendo l’alleanza transatlantica.
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Nella nostra epoca, l’espressione “capitalismo politico” ha ricevuto crescente interesse, coinvolgendo diversi fenomeni: l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia; la designazione di industrie strategiche e di aziende “nemiche” per la loro collocazione geografica o la loro proprietà; la competizione nelle organizzazioni internazionali di costruzione degli standard; l’intrusività nelle libertà economiche delle burocrazie della sicurezza nazionale[1]. Questi elementi, che indicano una diversa profondità rispetto al nazionalismo economico, sono accentuati nei conflitti, come quello che avvolge Stati Uniti e Cina.
Il fatto essenziale del capitalismo politico non riguarda tanto l’impatto di imprese controllate dagli Stati sull’economia globale (al centro, tra l’altro, del Fiscal Monitor FMI dell’aprile 2020). La vera questione è, da ultimo, l’intreccio strumentale e reale tra obiettivi economici ed esigenze di sicurezza nazionale. È sulla base di questo che possiamo leggere l’operato delle principali potenze.
IL DILEMMA CINESE. Secondo il giurista Mark Wu[2], considerare la struttura economica cinese un semplice “capitalismo di Stato” è limitato e semplicistico. La complessità del sistema, a suo avviso, presenta sei caratteristiche salienti: a) il ruolo dell’agenzia Sasac, che controlla buona parte dei campioni dell’industria; b) il controllo statale o dei governi locali delle principali banche; c) la capacità programmatoria e attuativa, attraverso la commissione di pianificazione centrale; d) l’integrazione verticale dei conglomerati cinesi; e) l’influenza del Partito comunista cinese nelle nomine economiche; f) la capacità di utilizzare le forze del mercato che, nonostante tutti i vincoli di controllo, gestione e pianificazione sopra ricordati, sono state e sono fondamentali per la crescita cinese. Al capitalismo di Stato-Partito, a livello locale e attraverso cordate spesso in competizione, si è affiancato un settore privato che ha contribuito in modo decisivo alla crescita della Cina.
È importante prendere sul serio quest’ultimo elemento, altrimenti si costruisce una caricatura del sistema cinese. Non è stato un rappresentante del Partito Comunista Cinese a stabilire gli investimenti di Alibaba nell’e-commerce. Non è stato un membro del Politburo a elaborare l’algoritmo di Douyin/TikTok. Tuttavia, gli imprenditori tecnologici cinesi si muovono in un ambiente che ha protetto dalla competizione e fornito credito agevolato e in alcuni casi illimitato, costruendo enormi vantaggi competitivi. In quell’ambiente autoritario, con una corruzione che convive con la crescita[3], gli imprenditori cinesi hanno senz’altro prodotto innovazione, e continueranno a farlo.
D’altro canto, aziende formalmente private non possono andare contro il volere del Partito-Stato: non possono promuovere libertà politiche in contrasto con l’ordinamento cinese, né possono rifiutare le richieste di collaborazione del Partito-Stato in materia di sicurezza nazionale (anche se possono accordarsi sulla versione che è più utile raccontare). Il Partito-Stato esercita certamente il monopolio della forza: in termini letterali, anche attraverso l’arresto o la sparizione degli imprenditori.
È difficile per gli osservatori esterni capire la compresenza di tutti questi elementi. Tale comprensione è complicata dal “fallimento del fallimento della Cina”[4]: nonostante le ripetute profezie occidentali degli ultimi trent’anni, la Cina non è fallita. Il suo cammino di crescita, pur riducendosi, non si è interrotto, nonostante varie debolezze strutturali (tra cui debito, trappola del reddito medio, demografia[5]). E se, infischiandosene di queste debolezze, nel prossimo decennio Pechino continuasse sulla stessa curva di investimenti sugli standard di telecomunicazioni o sulle tecnologie quantistiche? Sarebbe ragionevole affrontare questi fenomeni coi convegni sul debito delle municipalità cinesi?
Un emblema della scarsa comprensione dell’evoluzione della Cina si può trovare in uno storico discorso di Bill Clinton del 9 marzo 2000 alla Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Clinton spiegava la ragione della normalizzazione delle relazioni commerciali con Pechino, in vista dello storico ingresso cinese nell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO). Secondo Clinton, tale ingresso non rispondeva solo agli interessi economici, ma addirittura all’interesse nazionale degli Stati Uniti, perché a suo avviso si trattava della più grande opportunità per promuovere il cambiamento politico in Cina. Secondo Clinton, una maggiore presenza del settore privato rispetto alla gestione diretta del governo avrebbe indebolito il Partito comunista cinese: “Il governo cinese non sarà più allo stesso tempo per tutti datore di lavoro, padrone di casa, commerciante e balia. Avrà quindi meno strumenti con cui controllare le vite delle persone. Questo può portare a un cambiamento molto profondo”. Ancor più significativo, in quel discorso, il riferimento alla tecnologia, con la rappresentazione (in modo più strumentale che ingenuo, nella prospettiva americana) delle telecomunicazioni come vettore di bontà e libertà, in grado di sconfiggere gli autoritarismi. “Nel nuovo secolo”, annunciava Clinton, “la libertà si diffonderà attraverso il telefono cellulare e il modem. […] Quando la Cina entrerà nel WTO, entro il 2005 eliminerà i dazi sui prodotti di tecnologie dell’informazione, rendendo gli strumenti di comunicazione più economici, migliori, e più largamente disponibili. Sappiamo quanto internet ha cambiato l’America, e siamo già una società aperta. Immaginate quanto potrà cambiare la Cina”. Qui Clinton aggiungeva il passaggio più interessante, a vent’anni di distanza: “Non c’è dubbio che la Cina abbia provato a controllare internet. Beh, buona fortuna!”. Clinton pronunciava questa frase ridendo, e suscitando il riso inconsapevole degli studenti.
IL CAPITALISMO POLITICO DI WASHINGTON. In un’intervista del 2007, Alan Greenspan descriveva l’orientamento permanente della politica statunitense. “Siamo fortunati: grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state in gran parte sostituite dalle forze globali del mercato. A parte la sicurezza nazionale, non fa molta differenza chi sia il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato”[6]. Nelle certezze di Greenspan sul dominio mondiale del mercato era già presente il suo rovescio: la sicurezza nazionale.
È la sicurezza nazionale, il cui rilievo è riconosciuto dagli storici più avveduti[7], a stabilire che gli Stati Uniti siano un sistema di capitalismo politico: la nazione con l’economia privata più sviluppata al mondo è anche la potenza che deve salvaguardare il proprio primato militare e tecnologico. Con tutti i mezzi. Compreso l’intervento violento negli stessi mercati, per ragioni appunto di sicurezza nazionale. Come può essere governata esclusivamente dalle forze di mercato una potenza che regge il maggiore esercito del mondo, che ha nel suo dipartimento della Difesa il principale datore di lavoro e il principale investitore in ricerca e sviluppo del pianeta, che deve mostrare o nascondere l’impero delle basi militari[8]? Per “prevenire la sorpresa tecnologica”, cardine del rapporto tra difesa, tecnologia e organizzazione, gli apparati statunitensi dovranno intervenire pesantemente sui processi economici, se necessario, conservando sempre la capacità innovativa, la mobilitazione privata e la distruzione creatrice proprie del loro sistema, ma orientandole alla salvaguardia dell’interesse nazionale.
Il capitalismo politico degli Stati Uniti è comprensibile in questi termini, a partire dalla specifica fusione militare-civile della storia americana: l’organizzazione delle università e dei loro corpi di ricerca di base e applicata, in rapporto con la costruzione della burocrazia federale; la “frontiera infinita” della ricerca che alla metà del Novecento si trasferisce nella competizione della guerra fredda; i programmi di sostegno al trasferimento tecnologico; il sistema degli appalti militari. È insita nella storia americana la costruzione e la considerazione della “base industriale della difesa” (defense industrial base): supply chain da controllare, fatta di industrie che, come tutte le industrie, battono cassa, ma facendo leva sul fatto che non possono essere appannaggio degli avversari (né, in molti casi, degli stessi alleati). Pena lo sfarinamento del terreno su cui gli Stati Uniti si reggono.
Con l’ascesa della Cina, gli Stati Uniti hanno portato in avanti il limes della sicurezza nazionale. Nella retorica: Eric Schmidt afferma che “la leadership globale nelle tecnologie emergenti è un imperativo tanto economico quanto di sicurezza nazionale” e che “il governo deve collaborare strettamente con le aziende private per plasmare lo sviluppo tecnologico”[9]. Nella pratica: ciò è evidente se analizziamo la crescita del rilievo del controllo delle importazioni, delle esportazioni e degli investimenti esteri, attraverso apparati governativi come il Committee on Foreign Investment in the United States e il Bureau of Industry and Security. Strutture che abbiamo imparato a conoscere per la loro opposizione a investimenti cinesi o per l’inserimento di aziende come Huawei nelle “liste nere” (entity list), che bloccano i rapporti ordinari con fornitori statunitensi.
È vero che questo fenomeno è stato accelerato dall’amministrazione Trump, ma, oltre a rispondere a un supporto bipartisan (come testimoniato dall’approvazione nel 2018 del Foreign Investment Risk Review Modernization Act), si colloca in una storia profonda. Alcuni strumenti di guerra economica degli Stati Uniti ancora in vigore, sia in materia di sanzioni (Office on Foreign Assets Control) che di riconversione industriale nelle emergenze (Defense Production Act), risalgono alla Guerra di Corea del 1950. La sentenza Ralls Corp. v. Committee on Foreign Investment in the United States (2014), che afferma il principio: “Nessuno può dire di avere il diritto di esercitare il commercio estero con gli Stati Uniti”, è nata dal blocco di una transazione operato dal presidente Obama nel settembre 2012. In un settore di lungo termine come lo spazio, gli Stati Uniti hanno identificato da decenni la Cina come avversario, bloccando la sua partecipazione ai programmi multilaterali e colpendo per ragioni di sicurezza gli affari dell’industria satellitare statunitense. Precede Trump anche “il potere esorbitante di sanzionare”[10] per gli Stati Uniti, dettato dal dollaro. Pertanto, il capitalismo politico di Washington resterà con noi, anche con altri presidenti.
LO SCENARIO EUROPEO. Non è facile operare nella relazione tra l’economia e la sicurezza nazionale, se si è privi di un concetto condiviso di sicurezza nazionale. L’articolo 4, comma 2 del Trattato sull’Unione Europea recita: “La sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro”. Sul bilanciamento tra questa riserva di competenza e altri valori dell’Unione si basano, per esempio, gli strumenti di controllo e scrutinio sugli investimenti esteri, che hanno conosciuto una recente proliferazione[11]. Lo sviluppo tecnologico, in particolare nel digitale, ha accentuato e continuerà ad accentuare le problematiche di sicurezza nazionale, perché ha costruito nuovi spazi intrusivi e di presidio. La competizione digitale non è eterea né neutrale. È fisica e politica.
Davanti a questi processi, gli europei si sono mostrati incerti e disarmati. Tuttavia, è avvenuto un cambiamento significativo. In sintesi, davanti all’acquisizione cinese di imprese tedesche ad alta tecnologia nel corso dello scorso decennio, la Germania ha rimodulato il proprio sostegno alle politiche di concorrenza, avvicinandosi alla tradizionale posizione francese. La Francia ha sempre mantenuto la sua identità di capitalismo politico, anche sacrificandovi l’efficienza. La dimensione militare è centrale in tutta la Quinta Repubblica. La sua classe dirigente, privata e pubblica, si forma negli stessi luoghi. Un dirigente pubblico può baciare la cosiddetta “pantofola” allo Stato e andare a fare soldi altrove. In quell’altrove, c’è sempre lo Stato che, nei rari casi in cui non è azionista, è orientatore dei grandi gruppi, impegnati in una “geopolitica della protezione”. La revisione delle politiche su concorrenza e aiuti di Stato, sia per la risposta alle difficoltà economiche che per la creazione di grandi gruppi industriali europei, non è un processo automatico né garanzia di successo. Non basterà certo dire “facciamo come Airbus” per materializzare aggregazioni funzionanti su difesa, telecomunicazioni, mobilità sostenibile, energia, biotecnologie. Le risorse mobilitate per le catene del valore strategiche europee sono insufficienti. Inoltre, il dibattito ideologico tra le nazioni non è concluso e ci sono differenze tra gli importanti accordi raggiunti tra i leader europei e la reale capacità attuativa.
Soprattutto, il problema europeo rimane il ritardo accumulato, rispetto a Stati Uniti e Cina, nelle capacità industriali sulle stesse direttrici dei fondi mobilitati per la ripresa e per il bilancio pluriennale dell’Unione: la trasformazione digitale e gli investimenti sull’ambiente.
In particolare, gli europei sottovalutano il tempo perduto rispetto alla Cina e ad altri paesi asiatici sulla filiera tecnologica della cosiddetta “sostenibilità”, che per alcune nazioni è una parola di moda, per altre è una capacità industriale da conquistare per creare dipendenza e subordinazione. È possibile che il Green Deal europeo, invece di costruire capacità autonome, finisca per arricchire ulteriormente i cinesi, che già dispongono di imprese cruciali come CATL di Zeng Yuqun e staranno sicuramente lavorando a un’offerta in grado di rispondere alla domanda globale di “resilienza”.
Sulle difficoltà europee, un discorso non molto diverso riguarda i semiconduttori, al centro della competizione tra gli Stati Uniti, la Cina e altri poli asiatici, e il cloud computing, dove è impossibile che, nel breve-medio periodo, si sviluppino capacità europee in grado di fornire alternative reali agli attori statunitensi. La strada intrapresa con il progetto Gaia-X per una piattaforma di cloud computing europea è essenziale, ma deve scontare il divario di “sovranità tecnologica”[12] accumulato in passato, di cui cittadini e classi dirigenti non sono consapevoli.
IL CAPITALISMO POLITICO ACCELERA. La pandemia, colpendo e indebolendo i protagonisti della scena internazionale, a partire da Cina e Stati Uniti, ha accelerato i processi del capitalismo politico già in atto. Anzitutto, con un allargamento ulteriore della sicurezza nazionale, non solo attraverso i poteri di emergenza, ma anche con l’attenzione per alcune supply chain, a partire da quella biomedicale. La cooperazione scientifica convive con elementi di diffidenza reciproca e di “corsa” per i primati, con la legittimazione (interna ed esterna) nella sfida della pandemia, con la volontà di riorganizzare le catene industriali, con la competizione su reagenti e vaccini. Le certezze di Greenspan hanno ormai conosciuto la propria nemesi: la sicurezza nazionale come Moloch.
Nella competizione tra Washington e Pechino, tra un ballo di sanzioni e l’altro, tornerà cruciale il tema delle alleanze. Per esempio, le capacità di altri paesi asiatici su formazione, ricerca e tecnologia possono bilanciare la Cina. Decisioni come il bando dell’India verso TikTok espongono le debolezze cinesi, anche se è improbabile un netto “sganciamento” dalla Cina dei sistemi industriali coreani e giapponesi, nonostante i fondi messi a disposizione per il reshoring. Inoltre, una nuova consapevolezza dell’importanza delle alleanze da parte degli Stati Uniti potrebbe rafforzare la cooperazione transatlantica. Ma solo la capacità dei paesi europei di partecipare alla sfida geopolitica della tecnologia potrà aprire una stagione di maturità europea.
Note:
[1] Si vedano, tra l’altro, Randall G. Holcombe, “Political Capitalism”, Cato Journal, 35, 1, 2015; Branko Milanovic, “Capitalism, Alone”, The Future of the System That Rules the World, Belkap of Harvard University Press, 2019. La genesi dell’espressione risale a Max Weber. In Economia e società, Weber introduce il concetto di “capitalismo politico” o “capitalismo orientato politicamente” per descrivere i sistemi dell’antichità in cui il potere politico e le esigenze economiche sono strettamente legate (Max Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, 1961). Lo sviluppo di questa chiave di lettura è in Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, 2020.
[2] Mark Wu, “The ‘China, Inc.’ challenge to global trade governance”, Harvard International Law Journal, vol. 57, 2016.
[3] Sulla corruzione cinese, si veda lo studio magistrale di Yuen Yuen Ang, China’s gilded age. The paradox of economic boom and vast corruption, Cambridge University Press, 2020.
[4] Philip Pan, “The land that failed to fail”, New York Times, 18 novembre 2018.
[5] Si veda su questi elementi George Magnus, Red Flags: Why Xi’s China is in jeopardy, Yale University Press, 2018.
[6] Per la discussione della frase di Greenspan, rimando ad Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, cit., p. 11.
[7] Adam Tooze, “Whose century?”, London Review of Books, vol. 42, n. 15, 30 luglio 2020.
[8] Si veda tra l’altro Daniel Immerwahr, L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America, Einaudi, 2020.
[9] Testimonianza di Eric Schmidt alla House of Representatives Committee on Science, Space, and Technology, “Losing Ground: us Competitiveness in Critical Technologies”, 29 gennaio 2020.
[10] Si veda, per una sintesi recente, Joshua P. Zoffer “The dollar and the United States’ exorbitant power to sanction”, ajil Unbound, 2019, 113.
[11] Si veda tra l’altro Foreign Direct Investment Screening. Il controllo sugli investimenti esteri diretti, a cura di Giulio Napolitano, il Mulino, 2019.
[12] Si veda su questo tema Francesca Bria, “Recovery italiano: Recuperare la sovranità tecnologica, guardando all’Europa e investendo sul futuro”, Medium, 7 luglio 2020.