I flussi migratori, gli attacchi terroristici, le difficoltà del sistema bancario, la Brexit. Il 2016 non è stato un anno facile per l’Unione Europea e le democrazie liberali in genere, ma il 2017 si annuncia come il momento della verità per il continente. In poco tempo saranno chiamati alle urne Paesi Bassi, Francia e Germania – non è escluso che l’Italia le segua – e c’è il rischio concreto che le forze europeiste vengano travolte, sotto i colpi delle forze nazionaliste ed estremiste, cresciute a dismisura in lunghi anni di disinteresse, discredito e sottovalutazione da parte delle élite.
Le elezioni dei Paesi Bassi del prossimo 15 marzo sono il primo appuntamento in ordine di tempo e il Partito per la Libertà di estrema destra guidato da Geert Wilders è in testa ai sondaggi. Xenofobo e populista, Wilders si proclama fieramente contrario alla “islamizzazione”, ed soprattutto è per l’uscita del suo paese dall’UE. Promette infatti, emulando i britannici, un immediato referendum sulla Nexit. Il carattere proporzionale del sistema olandese consentirà quasi certamente agli altri partiti di formare una maggioranza che escluda Wilders, ma un suo buon risultato – altamente probabile – consegnerebbe il paese a un ennesimo, frammentato e debole governo di “larghe intese”.
Esattamente dieci giorni dopo il voto olandese, i leader europei celebreranno i sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, con cui nacque la CEE; ma se è vero che l’Olanda costituisce il termometro delle tendenze europee, è facile che non si apra davvero un anno di festa.
Come molti hanno osservato, il paradigma liberale che ha prevalso nelle democrazie occidentali nella seconda metà del secolo scorso è in crisi.
È forse la Francia il Paese europeo in cui il fenomeno è più evidente: all’estrema destra, il Front National continua a beneficiarne. Sotto la guida modernizzatrice di Marine Le Pen, il FN è cresciuto tanto che i sondaggi danno per certo che passerà il primo turno delle presidenziali, previste per il 23 Aprile. Ad oggi, è probabile che al ballottaggio (il 7 maggio) Marine Le Pen se la vedrà con il repubblicano François Fillon.
Benché lontanissimi sui temi economici – il liberismo thatcheriano di Fillon cozza contro il protezionismo della Le Pen – i due hanno visioni negativamente non dissimili dell’Europa, che fanno del voto un lose-lose per Bruxelles. Se da un lato tutta la campagna della Le Pen è impostata sulla denuncia dei burocrati di Bruxelles ladri di sovranità al punto da chiedere – come Wilders – un referendum per la Frexit, dal canto suo Fillon sposa la tradizionale idea sovranista francese, che vuole un’Europa di Nazioni forti e indipendenti (guidate ovviamente dalla Francia). Non è un caso, probabilmente, che entrambi i candidati abbiano ottimi rapporti con il Presidente russo Vladimir Putin.
Seppur con poche probabilità di essere in lizza il 7 maggio, merita una menzione il giovane sfidante Emmanuel Macron. L’ex ministro dell’economia del governo Valls si presenta a capo di una formazione indipendente. I suoi cavalli di battaglia, la riforma del mercato del lavoro e il perseguimento di una vera unione economica europea, e il suo attivismo richiamano alla mente lo stile e la proposta politica di Matteo Renzi – ad oggi l’unico leader di centro-sinistra con aspirazione riformatrice e liberale in Europa che, seppure alla guida di un governo di coalizione, sia riuscito a rimanere al potere per un certo lasso di tempo, ed è piuttosto popolare in una parte del mondo progressista francese.
Come nei Paesi Bassi, anche in Francia la sinistra tradizionale (ed è pesantissima l’eredità del mandato di François Hollande su un partito socialista già debole) sarà relegata al ruolo di comprimaria nell’appuntamento elettorale. Un’ulteriore testimonianza di come il vecchio scontro partitico (ma non certo le due culture) destra-sinistra sia stato superato, nella dinamica politica, da altre tendenze.
La Germania sarà l’ultima, il prossimo 22 ottobre, a recarsi certamente alle urne (restando sempre l’incognita italiana). I sondaggi danno quasi per certo un quarto mandato per la Cancelliera Angela Merkel. È lei che, nel bene e nel male, ha di fatto governato l’Europa negli ultimi, difficili anni. È la principale fautrice dell’austerità, del salvataggio (se di salvataggio si può parlare) della Grecia, ma anche della politica di accoglienza per i rifugiati del 2015 – benché a essa siano seguite correzioni, e la conclusione di un controverso patto con la Turchia. La vittoria di Merkel non pare in discussione, così come sembra probabile una nuova Grosse Koalition, con i socialdemocratici del redivivo Martin Schulz stabilmente in condizione di partner di minoranza – sebbene non a pezzi come i loro colleghi francesi.
Tuttavia, il vasto tema della sicurezza potrebbe portare consensi al grande incomodo tedesco, la formazione anti-immigrati Alternative für Deutschland: se riuscisse a superare la soglia del 5% su base nazionale, sarebbe il primo partito di estrema destra ad entrare al Bundestag dalla Seconda guerra mondiale. AfD, guidato da Frauke Petry, già presente in 10 Landtag su 16, punta a sedurre i tanti scontenti (l’indice di diseguaglianza non fa che aumentare anche nella ricca Germania) e ad accrescere il disagio nella storica alleanza della CDU con la CSU (i conservatori bavaresi), cemento del partito della Merkel, provata dai lunghi anni al governo e soprattutto dagli atti di terrorismo e dai problemi di accoglienza e integrazione dei rifugiati.
Data la situazione francese, la Germania della Cancelliera è generalmente dipinta, a torto o a ragione, come l’ultimo baluardo contro l’affermazione dei nazionalisti e lo sfascio dell’Unione Europea. All’alba della vittoria di Donald Trump, la visita di Barack Obama del 17 novembre a Berlino è stata riconosciuta come il passaggio di testimone della “torcia della libertà”. Angela Merkel, calata nella parte, è stata l’unica a far osservare che ogni futura collaborazione con Washington dovrà basarsi sui valori democratici e liberali dell’Occidente. Ma si dimentica, soprattutto in Germania, che la sua forza dipenderà comunque dal consenso elettorale. E, anche nella migliore delle ipotesi, che l’integrazione europea si è sempre sviluppata sotto l’ombrello nucleare degli Stati Uniti. Se questo si indebolisse, per un eventuale accordo tra Trump e Putin, non sarebbe certo la capacità militare tedesca a poterlo sostituire.
D’altro canto, la posizione tedesca incarnata da Merkel risulta anch’essa a medio termine molto pericolosa per l’Unione Europea. La perpetuazione dell’austerità e l’incompiuta forma politico-economica dell’UE rischiano di far infine implodere l’euro – continuando nel frattempo ad alimentare la narrazione nazionalista del “furto di sovranità”. Non solo. In prospettiva, è facile che, con il prossimo raggiungimento da parte della Germania del livello di inflazione considerato ottimale da parte della BCE, le operazioni di Quantitative Easing incontrino un’opposizione rafforzata da parte del colosso economico tedesco. E queste sono, ad oggi, l’unico vero strumento continentale di politica economica espansiva, nonché unico analgesico per le economie più deboli rispetto alla dottrina finanziaria di stampo tedesco. Non ci sono comunque molti dubbi sul fatto che un’affermazione elettorale delle posizioni euroscettiche porterebbe ad una pressione politica anti-QE senza precedenti.
L’austerità combinata al liberismo economico ha determinato la formazione di una folta schiera di “perdenti della globalizzazione” all’interno di un mercato unico europeo sprovvisto di contrappesi sociali. Gli “sconfitti” non hanno trovato rappresentanza nei partiti della socialdemocrazia, voci tradizionali della protezione sociale; il vuoto così creatosi è stato riempito, secondo un’altra contrapposizione, da partiti “anti-sistema”: partiti generalmente di destra, con l’eccezione dei paesi del Sud Europa. Qui, la risposta anti-establishment (poiché l’establishment è stato considerato responsabile di una globalizzazione ingiusta) si è sviluppata spesso a sinistra: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Juntos Podemos in Portogallo. L’Italia, con il Movimento 5 Stelle, costituisce un caso a parte.
Il M5S si autodefinisce post-ideologico ed eurocritico, rifiutando di posizionarsi sul tradizionale asse destra-sinistra. Al Parlamento europeo siede nel gruppo di Nigel Farage, ma – dati Votewatch alla mano – con UKIP ha una convergenza di voto inferiore al 30% (mentre è superiore al 70% sia in riferimento al Verdi che all’estrema sinistra). Guy Verhofstadt, uno dei politici europei di più lungo corso, federalista convinto, ha promosso ad inizio anno un improvviso tentativo di inglobare il Movimento nel gruppo dei liberali europei di cui è leader (e che ha una convergenza di voto con il M5S di circa il 50%).
Verhofstadt – che ne avrebbe potuto averne anche un ritorno personale, in termini di voti per la presidenza del Parlamento – ha sottovalutato equilibri interni e tradizioni politiche che alla fine hanno fatto saltare l’accordo. La presidenza è andata invece ad Antonio Tajani, grazie ad un accordo (questo sì andato in porto) con lo stesso Verhofstadt e all’appoggio concordato del gruppo dei conservatori. Se l’operazione con il M5S si fosse conclusa positivamente, avrebbe costituito una risposta innovativa all’esigenza di includere e normalizzare una delle componenti anti-establishment più rocciose e imprevedibili. Una risposta, insomma, che non fosse cieco rifiuto, inutile demonizzazione o volontà di ignorare la questione relegandola alla sfera della “stupidità”, come spesso accaduto finora.
Ora nei corridoi di Bruxelles si respira aria di forte preoccupazione, è vero, ma la stragrande maggioranza di coloro che li percorrono sembra disgraziatamente incapace di uscire dal circolo vizioso delle proprie categorie mentali e “abitudini politiche”. Se l’afflato liberal-progressista vuole impedire che nel mondo prevalga una chiusura nazionalista, è necessario che le impellenti richieste espresse tramite il consenso anti establishment trovino una risposta, una proposta che mostri come una globalizzazione governata possa portare benefici diffusi. In caso contrario, se ciò non dovesse infine accadere a livello continentale, è difficile pensare che lo stesso progetto europeo possa sopravvivere.
Durante la campagna elettorale di Bill Clinton del 1992 venne coniata l’espressione “it’s the economy, stupid”, da allora più che mai utilizzata in politica. Oggi, con l’economia che non va ed è fonte di disuguaglianze e pressioni crescenti, fino agli aspetti più estesi della geopolitica e della sicurezza, gli elettori si volgono – con un misto di rabbia, disperazione e speranza – alla politica.
Si percepisce insomma il fallimento di una classe dirigente, considerata come blocco unico, che del lasciar governare l’economia aveva fatto la sua stella. Dunque, di fronte alla necessità di ripensare e ridisegnare un progetto di governo, la massima che potrebbe applicarsi al 2017 è: “it’s the politics, stupid”.