Il progetto di Xi Jinping per sviluppare le nuove Vie della seta è circondato da molta retorica, che sia per cantarne le lodi o per deprecarne gli obiettivi. Ma è difficile sottovalutarne la portata e pertanto le conseguenze, per l’Europa e quindi per l’Italia – almeno fino a quando prevalga il buon senso che, sulla scorta di una storia millenaria, identifica il nostro interesse nazionale puramente con la promozione dei valori e degli interessi europei.
Gli obiettivi ufficiali della Belt Road Initative (BRI) sono semplici: migliorare la connettività e le infrastrutture tra Cina, Asia ed Europa, per favorire gli scambi di beni e servizi, nonché la relazioni tra i popoli (turismo e cooperazione educativa e scientifica). I principi della cooperazione “pratica e a mutuo beneficio” in multipli settori sono “l’amicizia, la sincerità e l’inclusione, così come il dialogo, lo sviluppo comune e la crescita condivisa”.
I VERI OBIETTIVI DI PECHINO. Dietro l’ufficialità si nascondono le finalità ufficiose e quindi, come sempre, certamente prioritarie, che sono anche quelle più importanti e interessanti. In primis, sviluppare rotte alternative per il commercio cinese (e in questo caso l’import di fonti energetiche è particolarmente strategico) che diminuiscano la dipendenza dallo Stretto di Malacca, il cui accesso è controllato dalla Quinta Flotta americana e pertanto vulnerabile alle tensioni geopolitiche sempre più acute tra Washington e Pechino.
In quest’ottica alcuni progetti sono più emblematici: il porto pachistano di Gwadar sul Golfo Persico; l’oleodotto che collega Kyaukphyu sul Golfo del Bengala in Myanmar a Kunming nella provincia orientale dello Yunnan; la base navale di Gibuti, all’imbocco del Bab-el-Mandeb; quella ambigua nelle Maldive (ufficialmente un Joint Ocean Observation Station nell’atollo di Makunudhoo) e, infine, quella ambita in Sri Lanka (nel porto di Hambantota da poco gestito da China Merchants).
In tale contesto si muove anche il disegno di sviluppare collegamenti ferroviari euroasiatici, sebbene non sia realistico immaginare che questo possa mai generare volumi di traffico commerciale comparabili alle rotte marittime (e aeree).
Finalità strettamente collegata è trovare uno sbocco per l’eccesso di capacità produttiva cinese. Che sia l’acciaio o il cemento, l’allumino o il vetro, gli investimenti fatti negli ultimi anni si sono dimostrati eccessivi rispetto alla domanda interna (non dimentichiamo che la crescita demografica è rallentata negli ultimi anni e che la popolazione è destinata a diminuire) e rischiano di portare il sistema bancario alla catastrofe. I mercati internazionali non possono assorbire tutto l’eccedente, anche perché il protezionismo è particolarmente virulento nelle industrial commodities, almeno che non siano i cinesi stessi a finanziare chi le vuole utilizzare. Cosa che peraltro sono disposti a fare al fine di valorizzare le riserve valutarie, con migliori rendimenti rispetto ai tassi molto modesti dei titoli del Tesoro americano. Da ciò la scelta di creare nuove istituzioni finanziarie – Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) a Pechino e New Development Bank (NDB) a Shanghai – che hanno un mandato più ampio rispetto a quello di appoggiare solo la BRI, ma che senz’altro la comprende.
Con la nascita di AIIB (di cui sono membri i paesi europei, ma non Stati Uniti e Giappone) e NDB (che raccoglie i BRICS), inoltre, Pechino dispone di strumenti potenti per promuovere il proprio approccio di politica economica internazionale – il celebre Beijing Consensus che assegna un ruolo centrale al settore pubblico, in contrapposizione al Washington Consensus neoliberale. Ciò significa da un lato costruire rapporti con partner senza esigere in cambio condizioni, per esempio di buona governance (nozione peraltro di ambigua definizione); dall’altro finanziare progetti che utilizzino i nuovi standard tecnologici cinesi, per esempio per la trasmissione di elettricità ad altissimo voltaggio.
C’è, infine, una finalità politica interna. Il miracolo economico è stato sbilanciato: sono le provincie costiere ad aver registrato i tassi di crescita più elevati, in parte grazie alle migrazioni interne che hanno sostenuto i settori industriali basati sull’uso intensivo di manodopera poco qualificata. Ora la Cina deve trovare nuove fonti di trasformazione: settori più sofisticati nelle megalopoli dell’est e manifatturiero nell’ovest, anche per contrastarne lo spopolamento e il rischio che (malgrado la repressione cui sono sottoposte le minoranze etniche, o forse proprio per questo motivo) si diffondano le frange più estremiste dell’islamismo. La BRI è fondamentale in questo disegno, oltre a rafforzare le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, esse stesse terreno fertile di coltura per il radicalismo.
PARECCHIE LUCI, QUALCHE OMBRA. Ognuna di queste considerazioni racchiude in sé elementi positivi e negativi, o quantomeno criticità. L’Asia ha un immenso bisogno d’infrastrutture, sia di quelle tradizionali, sia di quelle della nuova economia (che le risorse tradizionali lasciano insaziato) per cui gli sforzi e le promesse della bri sono benvenute. Il rischio che, lontano dagli occhi dell’Occidente e delle sue istituzioni come la Banca mondiale, vengano costruite senza sufficiente attenzione a diritti dei lavoratori e alla salvaguardia dell’ambiente, è molto esagerato. La Cina stessa è sempre più cosciente dell’importanza di questi temi (e di come la propria immagine globale possa soffrire se essi non vengono presi sul serio), e in ogni caso l’AIIB per il momento è sempre intervenuta a fianco della Banca mondiale e della Banca asiatica di Sviluppo. Quello dell’utilizzo massivo di prigionieri comuni come manodopera, poi, è un puro caso di fake news.
È però lecito nutrire qualche dubbio sul valore delle opere finanziate, che non sempre sono sottoposte a rigorose analisi costi/benefici, col risultato di servire forse i cinesi, che hanno bisogno di diffondere le proprie tecnologie (si pensi alla trasmissione dell’elettricità ad alto voltaggio, oppure ai treni ad alta velocità), più che i beneficiari. Ed è anche vero che molti paesi coinvolti nella BRI (e che ormai sono anche in Africa e addirittura in America centromeridionale) stanno dimostrando grande disinvoltura nell’accertare le profferte cinesi, accumulando debiti (garantiti da ricavi da materie prime) che potrebbero non essere in grado di servire, e ancor meno di rimborsare.
Esempi di China’s debt trap che negli ultimi mesi hanno messo le finanze pubbliche sotto stress sono lo Sri Lanka, il Pakistan e la stessa Malesia (cioè un paese con un’economia solida e competitiva). Non a caso le ambiguità dei rapporti con la Cina tendono a emergere nel dibattito politico domestico quando un regime corrotto (rispettivamente di Mahinda Rajapakse, Nawaz Sharif e Najib Razak) viene sostituito da forze che, almeno all’inizio, fanno della trasparenza il proprio cavallo di battaglia.
Luci e ombre, insomma, per quello che magari non sarà un nuovo Piano Marshall, ma che sicuramente è un’iniziativa destinata a incidere sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale. Uno scenario di fronte al quale l’Europa cerca di assumere posizioni unitarie, o quantomeno coerenti, per evitare di venire schiacciata dal mastodonte cinese, che preferisce negoziare con i singoli partner, magari dividendoli tra occidentali e orientali e facendo balenare mirabolanti opportunità a quelli disposti ad accettare le condizioni della BRI. È il caso in particolare dei paesi balcanici, in cui i cinesi sono disposti a costruire infrastrutture costose e di assai incerto rendimento, come l’autostrada da Bar in Montenegro al confine con la Serbia.
I SOSPETTI, FONDATI, DELL’EUROPA. Il vecchio continente è innanzitutto un mercato molto importante per Pechino, magari meno dinamico rispetto alle economie emergenti e più ostico da comprendere se paragonato con gli Stati Uniti, ma pur sempre fondamentale per acquisire le conoscenze e le tecnologie di cui la Cina ha bisogno per sfuggire alla middle income trap. È sotto l’egida della Silk Road che sono state realizzate molte operazioni negli ultimi anni, tra cui il takeover di Pirelli nel 2015, oppure gli investimenti nella portualità greca e nell’elettricità portoghese, anche se ogni tanto (si pensi alla corsa alle squadre di calcio) il nesso con le infrastrutture e la connettività euroasiatica è tenue.
A tanta apertura da parte europea non è però corrisposta altrettanta “generosità” in Cina, dove per le multinazionali (europee, ma non solo) si accumulano le difficoltà a operare su un piano paritetico con le imprese locali. Si va dalla chiusura d’interi settori all’obbligo di creare joint ventures in altri; dall’impossibilità di accedere ai fondi nazionali per il piano d’innovazione Made in China 2025 alle esigenze di localizzare attività fondamentali come la ricerca e risorse come i dati digitali. Da ciò la proposta franco-italiana-tedesca di introdurre un sistema europeo per vagliare le acquisizioni da parte di soggetti esterni e garantire che non indeboliscano la capacità dell’Unione di competere in settori strategici.
Gli imprenditori europei temono anche di perdere terreno sui mercati terzi, in particolare in Africa e Asia centrale, in cui competono ad armi impari con la “China Inc.” e il suo sistema paese composto da banche, istituzioni finanziarie, imprese e centri di ricerca che si muovono in un limbo poco trasparente tra pubblico e privato. E nel quale oltretutto si fa sentire sempre più nitida la voce del Partito comunista cinese, capace di dare unità d’indirizzo ai diversi attori. Questi scelgono quando seguire le regole internazionali e quando invece esimersi dall’applicarle – come è il caso per gli appalti pubblici, il credito all’export o il contrasto alla corruzione, dove la Cina non ha sottoscritto i corrispondenti testi internazionali.
Tali problematiche sono ancora più sentite in Europa orientale e nei Balcani,
in quei 16 paesi con cui Pechino ha instaurato un dialogo parallelo a quello con l’Unione; l’episodio più recente è stato il vertice di Sofia di inizio luglio, strategicamente fissato pochi giorni dopo la conclusione del primo semestre di presidenza bulgara e pochi prima del vertice Cina-UE di Pechino. La Cina interviene sui grandi progetti infrastrutturali come il Porto del Pireo o il treno ad alta velocità Budapest-Belgrado al di fuori del quadro di riferimento comunitario, in fase sia progettuale, sia esecutiva. E ha rapidità e flessibilità che l’Europa non può e non vuole offrire.
Un precedente interessante è il ponte di Peljesac, un progetto politicamente controverso che garantisce la contiguità territoriale della Croazia evitando di passare per la Bosnia Erzegovina. Dopo molte false partenze e rinvii, la costruzione è stata finalmente appaltata alla China Road and Bridge Corporation, grazie a un’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto a quella dei due consorzi concorrenti, tra cui Astaldi (con il socio turco ic Ictas Insaat Sanayi); questi però hanno fatto ricorso, indicando che i cinesi non hanno rispettato le regole.
Per l’Europa è anche fondamentale assicurarsi che Pechino sia cosciente di tutte le implicazioni del proprio progetto globale, che proprio perché è così ambizioso comprende rischi non indifferenti. Il principale, già menzionato, è di fare esplodere il debito di paesi fragili, che solo pochi anni fa hanno beneficiato del programma di condono finanziato in gran parte dall’Occidente. La preoccupazione per le debt vulnerabilities nei paesi più poveri è stata espressa dal G20 Finanze di Buenos Aires a luglio 2018. Sarebbe paradossale che l’Europa si ritrovasse nuovamente a riaggiustare i cocci, mentre magari la Cina volterebbe la testa dall’altra parte con vacui riferimenti alla solidarietà sud-sud e al proprio status di economia (perennemente) in via di sviluppo. Oltretutto l’eventuale instabilità finanziaria in questi paesi comporterebbe una ripresa dei flussi migratori verso l’Europa, alimentando ulteriormente il senso d’insicurezza delle popolazioni e quindi il consenso a favore dei populisti antisistema. Che verso la Cina, e quindi anche la BRI, hanno un’attitudine ambivalente.
Da un lato, infatti, si fanno paladini degli interessi dei ceti medi, che già hanno sofferto le conseguenze della Cina-fabbrica-del-mondo e che ora sono particolarmente vulnerabili di fronte al nuovo tsunami della globalizzazione tecnologica (Industria 4.0, tanto per capirci); da ciò viene il sostegno al neoprotezionismo americano e il sospetto verso il famigerato “uomo di Davos” che delocalizza, il più delle volte proprio in Cina. Dall’altro, invece, c’è l’ammirazione per il modello totalitario cinese, capace, per esempio, di moltiplicare in pochi anni le grandi infrastrutture, senza bisogno di passarle al vaglio dei referendum e delle piattaforme online, e disposto a esportare questo modus operandi.
Manifestazione più che simbolica di questa attitudine è stato, ad aprile 2018, il rifiuto ungherese di sottoscrivere il documento degli ambasciatori UE a Pechino che identificava le molte criticità della BRI. Il governo Orban è, infatti, determinato a superare le obiezioni europee al progetto ferroviario che i cinesi sono disposti a finanziare a condizione di ottenere gli appalti: una garanzia impossibile da concedere dato l’obbligo di passare per gare internazionali.
Se insomma nel 1972 era troppo presto per esprimere un giudizio sulla rivoluzione francese, non è certo a meno di cinque anni dalla sua presentazione in società che si può giudicare la BRI. Una nota di cautela che vale per chi ne tesse le lodi sperticate, come per chi ci vede unicamente un complotto “rosso” per dominare il mondo.