Brexit comincia adesso. E all’Europa conviene che riesca

A fine gennaio, la Gran Bretagna uscirà formalmente dall’UE: dopo anni di psicodramma, seguiti al Referendum del giugno 2016, la prima secessione volontaria dall’Unione Europea diventerà realtà. Boris Johnson, vincendo trionfalmente le elezioni del dicembre scorso, è riuscito là dove Theresa May aveva fallito: la House of Commons ha finalmente approvato l’accordo di divorzio da Bruxelles.

La Brexit, tuttavia, non finirà il 31 gennaio. Si aprirà al contrario, fra Bruxelles e Londra, il negoziato destinato a contare nei prossimi anni: il negoziato sul futuro dei rapporti bilaterali, anzitutto in campo commerciale e nella sicurezza. Su indicazione di Boris Johnson, il parlamento britannico ha approvato una legge che vincola il Regno Unito a concludere il periodo di transizione concordato con la UE entro la fine del 2020: sarà a tutti gli effetti una corsa contro il tempo. Dal punto di vista del Premier britannico, la fretta ha dei ritorni politici. Se Londra chiuderà rapidamente il dossier Bruxelles, avrà anche mano libera per costruire la famosa “Global Britain” promessa dai Brexiteers, negoziando in particolare un accordo commerciale preferenziale con gli Stati Uniti.

Per l’Europa, che teme la deregulation britannica (una sorta di Singapore su larga scala al di là della Manica) la priorità sarà di stabilire un “level playing field” – un set di regole del gioco comuni; in cambio, Bruxelles offre a Londra un accordo di base (più di questo è impensabile in tempi così ristretti) fondato su “zero tariffe e zero quote” nel settore dei beni. Il primo ministro britannico, sottolinea il Financial Times, insiste invece sul diritto di Londra a divergere da regole comuni.

Trovare un’intesa non sarà affatto facile, quindi; specie se Boris Johnson e Donald Trump giocheranno la carta di un’intesa anglo-sassone ai danni dell’Europa continentale. E’ evidente che quanto più Londra si avvicinerà alle condizioni di Washington in campo commerciale (accettando per esempio le richieste americane in campo agricolo e nel settore dei servizi sanitari), tanto più diventerà complicato raggiungere un accordo con Bruxelles. E viceversa: accettando un level playing field con l’Europa, Londra limiterà le sue opzioni nel negoziato con gli Stati Uniti. Dove cadrà il punto di equilibrio? Non è facile prevederlo: il peso degli interessi economici dovrebbe spingere Londra, in teoria, a privilegiare l’accesso al mercato unico europeo; la “politics” della Brexit spinge invece a rilanciare l’idea di un’anglosfera, spostando la Gran Bretagna verso gli Stati Uniti.

Ma, al di là delle promesse di Donald Trump su un accordo commerciale rapido e preferenziale, i punti di potenziale dissenso con Washington sono assai rilevanti, inclusa la questione della web tax (Londra appare per ora più ferma di Parigi sulla tassazione dei titani tecnologici). Le cose diventerebbero più semplici, anche per Londra, se America e Unione Europea riuscissero a loro volta a intavolare seriamente un negoziato commerciale. Se invece prevalesse la “guerra dei dazi”, la Gran Bretagna sarebbe costretta a schierarsi: cosa che, perlomeno sul piano economico, non le conviene affatto.

Quali saranno, più in generale, le conseguenze di Brexit per l’UE? L’uscita del Regno Unito è destinata a modificare le dinamiche interne all’Unione Europea: è già evidente l’aspirazione della Francia a proporsi come leader politico-militare del Vecchio continente, bilanciando così la potenza economica della Germania (peraltro in difficoltà proprio sulla performance della propria economia).

Per l’Italia, la perdita della sponda britannica è un problema: da decenni a questa parte, Roma ha cercato di bilanciare, facendo leva su Londra, la coppia franco-tedesca. Questo gioco è finito: l’Italia, per contare nei nuovi equilibri europei, dovrà aumentare il proprio peso specifico, cosa non esattamente semplice ma necessaria.

Una domanda essenziale da porsi è se un’Europa senza Gran Bretagna sarà più dirigista in economia e più aperta verso la Russia in politica estera. La risposta è probabilmente sì, su entrambi i fronti. In campo economico, la secessione britannica priva virtualmente l’Europa di una voce potente a favore della liberalizzazione del mercato interno. In campo internazionale, è vero che l’Europa sta mantenendo una non scontata unità sulle sanzioni contro la Russia (dovute alla crisi ucraina); ma sono destinate a rafforzarsi le posizioni favorevoli al dialogo con Mosca, dialogo promosso per ragioni diverse dalla Germania (gasdotti), dalla Francia (scetticismo sulla credibilità della NATO) e dall’Italia (che è da sempre su questa linea).

Molto dipenderà, naturalmente, da dove si collocherà esattamente la Gran Bretagna “globale” di Boris Johnson. Fino ad oggi, Londra è rimasta vicina alle inclinazioni europee: per esempio sulla questione del 5G, ossia su un aspetto centrale della nuova competizione tecnologica Usa-Cina, o sulle conseguenze dell’eliminazione di Suleimani per il contenzioso nucleare con l’Iran.

La ragione, che a me pare abbastanza chiara, è che la tanto decantata “Global Britain” ha comunque interessi coincidenti con quelli europei su vari teatri, oltre che interessi economici prevalenti in Europa. Se vuole essere Global, la Gran Bretagna non può del resto “schiacciarsi” passivamente su un’Amministrazione americana che ha tifato per Brexit ma che vede anche il mondo con le lenti dell’America-First. Donald Trump, come noto, non ama particolarmente le alleanze: il rapporto “speciale” con Londra sarebbe comunque fortemente sbilanciato a favore di Washington. Cosa che fra l’altro – Boris Johnson ne è più che consapevole – piace assai poco all’opinione pubblica inglese.

Per tutte queste ragioni, l’UE non ha nessun interesse, una volta consumata la secessione di Londra, al fallimento di Brexit. E’ nei nostri interessi comuni, al contrario, che la Gran Bretagna mantenga comunque un forte ancoraggio europeo. Dal 1973 al 31 gennaio prossimo, il Regno Unito è stato “in” Europa ma godendo di molti “opt-out”, di parecchie esenzioni da specifiche politiche europee (dall’euro agli Accordi di Schengen). Nel futuro prossimo il Regno Unito sarà “out” dall’UE ma sperabilmente con parecchi “opt-in”: con la volontà e possibilità, in altri termini, di accordarsi con l’Unione Europea in una serie di settori, a cominciare proprio dai rapporti commerciali e dalla sicurezza.

Si dirà che, se Brexit finirà per avere successo, i sovranisti d’Europa vorranno imitare Londra: l’effetto contagio, tenuto sotto controllo dal 2016 in poi, si riproporrà. Può darsi; ma non dimentichiamo che la Gran Bretagna ha sempre fatto storia a sé nell’Unione Europea e non si presta a facili imitazioni. Soprattutto non trascuriamo il dato di fondo: UE e UK, nel mondo senza centro di oggi, hanno entrambe bisogno l’una dell’altra.

 

 

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