Boris Johnson, il candidato inevitabile

Nella corsa alla successione di Theresa May, l’unico che può sconfiggere Boris Johnson è… Boris Johnson. E’ la battuta che da tempo circola tra i corridoi di Westminster, tanta è la popolarità dell’ex sindaco di Londra rispetto ai suoi sfidanti. Subito riconoscibile dal ciuffo biondo e la battuta sagace, Johnson è per tutti semplicemente Boris, la rock star del Partito Conservatore che entusiasma la base Tory. E’ stato il paladino della Brexit e il volto della campagna Leave per il referendum del 2016, poi un ministro degli Esteri inconcludente e gaffeur, infine dimissionario in polemica con la Brexit troppo “soft” di May. Adesso giura di essere l’uomo adatto a completare il lavoro incompiuto della premier uscente e ridare fiato ad un partito a pezzi, lacerato dalla questione europea e punito dagli elettori proprio per l’incapacità di risolvere il rebus della Brexit.

A sfidarlo per la leadership dei Conservatori sarà Jeremy Hunt, attuale ministro degli Esteri, che l’ha spuntata contro un nutrito gruppo di contendenti. Hunt è un Remainer convertitosi alla causa della Brexit, fautore di un divorzio morbido, e contrario all’uscita senza accordo con Bruxelles, il temuto no deal. Dalla loro contesa dipende il futuro non solo dei Tory, ma del Regno Unito e dei suoi rapporti con l’Europa per generazioni a venire.

Jeremy Hunt e Boris Johnson

 

La campagna elettorale

La lotta alla successione di Theresa May si è aperta formalmente il 7 giugno, data delle sue dimissioni. Ma, con una premier a lungo traballante, senza maggioranza assoluta in parlamento e incapace di controllare il voto dei suoi, le manovre all’interno del partito vanno avanti da mesi.

I dieci candidati iniziali sono stati progressivamente eliminati in vari round di votazioni del gruppo parlamentare (313 deputati), o hanno gettato la spugna: prima le ultra-euroscettiche Esther McVey e Andrea Leadsom e il moderato Mark Harper; poi Matt Hancock, ministro della Sanità giovane e centrista; poi il falco della Brexit Dominic Raab; e Rory Stewart, moderato, emerso come il vero volto nuovo del partito, ma da ultimo troppo soft sulla Brexit; poi il ministro degli Interni Sajid Javid; e infine Michael Gove, il ministro dell’Ambiente, mente politica raffinata, euroscettico di ferro, battuto per soli due voti dopo una campagna deragliata per le rivelazioni sull’uso di cocaina in gioventù.

L’uscita di scena di Gove, acerrimo rivale di Johnson e uomo politico di solito assai efficace, è un’ottima notizia per il favorito. Johnson e Hunt vanno ora al ballottaggio di fronte agli iscritti al partito, circa 150mila persone, per la maggior parte di mezza età o anziani (il 38% ha più di 66 anni). Nel sistema parlamentare britannico, chi diventa capo del partito di maggioranza diventa capo del governo, senza bisogno di elezioni. Il risultato si avrà intorno al 22 luglio.

 

Il super-favorito

Salvo clamorose sorprese, Johnson si appresta a coronare il sogno di una vita politica, nonostante la sua famosa (e malcelata) reticenza: “Ho più probabilità di reincarnarmi in un’oliva che non di diventare primo ministro,” una delle sue frasi più note. Una battuta tipica di un uomo che sembra uscito da un romanzo di P.G. Wodehouse: capelli spettinati, autoironia che piace tanto agli inglesi, la finta modestia di chi sembra arrivato al proprio posto per puro caso. Ma dietro l’apparente disinvoltura si nasconde un uomo ambizioso e determinato.

Johnson viene da una famiglia aristocratica ed è stato educato nelle scuole più prestigiose del Paese, Eton e Oxford, ma si presenta come uomo del popolo, paladino di quanti si sentono lasciati indietro. Nulla lo imbarazza, tanto meno l’uso di un linguaggio offensivo verso donne velate (“sembrano cassette delle lettere”), abitanti delle ex-colonie (“picaninny”, un termine intraducibile ma comunque razzista), o perfino Obama (“ha un odio ancestrale per l’impero britannico” perché è “mezzo keniano”).

Quando era giornalista del Times, è stato licenziato per essersi inventato una dichiarazione, ma si è reinventato come corrispondente del Telegraph da Bruxelles, con articoli improbabili che sbeffeggiavano l’Unione Europea e la sua burocrazia. E’ sopravvissuto a divorzi, indiscrezioni sull’uso di droga, gaffe – tutto in virtù della sua vera o presunta autenticità, la moneta politicamente più spendibile di questi tempi. “Boris è fatto così,” dicono i sostenitori. Ma è inviso a molti, soprattutto tra i notabili del partito che lo accusano di essere un opportunista senza principi politici interessato solo al successo personale; altri gli imputano un totale disinteresse nei dettagli, mascherato da idee strampalate e visioni impraticabili, come quella di costruire un ponte tra la Gran Bretagna e la Francia dopo la Brexit.

Prima del referendum, invece di chiarire agli elettori i sacrifici che la Brexit avrebbe comportato, Boris ha continuato a insistere che era possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, e ha propagato il mito di 350 milioni di sterline a settimana che sarebbero tornati da Bruxelles a disposizione di Londra, cifra inesatta e più volte smentita. Il paradosso è che molti nel partito ammettono, magari controvoglia, che è il candidato migliore per vincere le elezioni, ma anche che non è l’uomo più adatto a fare il primo ministro.

Per succedere a May, Johnson ha finora condotto una campagna disciplinata, sapendo che la sua possibilità è ora o mai più: è dimagrito, si è tagliato i capelli, e soprattutto ha mantenuto un basso profilo, evitando apparizioni mediatiche se non poche e controllatissime. Ha rifiutato di partecipare ad alcuni degli incontri pubblici e dei dibattiti televisivi, limitando così il rischio di un passo falso. Il suo messaggio è semplice: portare a termine la Brexit entro la scadenza del 31 ottobre senza ulteriori rinvii. Solo così – dice – si può evitare un “rischio-estinzione” per i Tory (scesi sotto il 9% alle Europee) e fermare l’emorragia di voti verso il Brexit Party di Nigel Farage. Giura poi, e su questo ha ragione, di avere il carisma necessario per ridare slancio ai conservatori e di avere le chance migliori di sconfiggere il Labour di Jeremy Corbyn alle elezioni.

 

Le opzioni del futuro premier

Il punto discriminante del dibattito è la possibilità o meno del no deal: in assenza di modifiche all’accordo negoziato da May e bocciato tre volte in parlamento, cosa fare il 31 ottobre? Cercare un’ulteriore rinvio e guadagnare altro tempo, o uscire dalla UE senza accordo? Per Hunt, il no deal equivale ad un “suicidio politico” che metterebbe il Regno Unito in ginocchio e va evitato ad ogni costo. Johnson è possibilista: non punta al no deal ma non lo esclude. “Un ulteriore rinvio della Brexit – dice – “significa la rovina. Significa Corbyn”.

Realisticamente, il nuovo primo ministro difficilmente potrà ottenere la riapertura del negoziato sull’accordo, ipotesi su cui Bruxelles è stata finora inflessibile. Ma potrebbe ottenere modifiche alla dichiarazione politica sulle relazioni future tra Regno Unito e UE, che accompagna il testo: forse abbastanza per convincere il parlamento a ratificare l’accordo e porre fine allo psicodramma. Johnson, un Brexiteer dalle credenziali impeccabili, potrebbe essere più capace di Theresa May nello spingere l’ala euroscettica del partito al compromesso. In caso di impasse, inoltre, le elezioni anticipate potrebbero essere inevitabili.

Ma prima Johnson deve arrivare a Downing Street. Hunt è avversario tutt’altro che impossibile: l’ex ministro della Sanità sottolinea il suo passato da manager come valore aggiunto nei futuri negoziati con Bruxelles, ma ha talmente poco carisma da essere paragonato alla premier uscente (“Theresa in pantaloni”). Raccoglie però il voto moderato di chi teme gli eccessi di Johnson, il no deal e la catastrofe economica che potrebbe risultarne. Hunt può almeno sperare in un altro detto noto a Westminster: nel Partito Conservatore, chi entra nella gara da favorito spesso esce sconfitto.

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