Biden, Trump, e un’America insoddisfatta alla ricerca del soft power perduto

Lo hanno detto e scritto in molti: un dibattito tra candidati alla carica elettiva più importante del pianeta nel quale uno degli scambi più accesi riguarda la capacità nel gioco del golf, è un pessimo dibattito. Nel primo faccia a faccia tra Joe Biden e Donald Trump del 27 giugno, un confronto tenutosi molto prima del solito rispetto al voto di novembre, ha perso la politica americana e hanno vinto i vecchi rivali di Washington.

 

La prima potenza del pianeta si trova infatti a dover scegliere tra un presidente capace di ottenere risultati e gestire un partito riottoso e litigioso per sua natura, ma incapace di comunicare perché fragile dal punto di vista della tenuta mentale e fisica, e un avversario arrogante capace di infilare una serie di enormi bugie in 90 minuti, ma capace di farlo con il piglio dell’uomo forte e risoluto. Un bel problema, figlio di un processo istituzionale di selezione dei candidati che sembra non funzionare più bene, come del resto non funzionano bene molte altre regole immaginate in un processo costituente di 236 anni fa.

I sondaggi dell’ultimo anno sottolineano in maniera inequivoca come la scelta proposta agli elettori americani non piaccia alla maggioranza: non ai moderati Repubblicani, non ai Democratici preoccupati per lo stato di salute del presidente Biden. I due candidati sono impopolari come non mai nel campo avverso e in parte del proprio, in un momento in cui gli Stati Uniti e il pianeta tutto sono alle prese con crisi geopolitiche, sfide complicate e la paura della crisi climatica. Gli americani vedono e sentono le difficoltà del loro paese a continuare a essere leader, soffrono della (ma partecipano alla) polarizzazione della politica come della società, e non provano alcun entusiasmo all’idea del voto di novembre. Le cose vanno peggio nel campo democratico, dove Biden è già stato per molti una scelta obbligata per fermare Trump, mentre quest’ultimo tra i suoi può invece contare su una base militante solida ed entusiasta.

Il primo faccia a faccia di questa campagna non serviva a presentare i contendenti al grande pubblico. A richiederlo era stato lo staff di Biden, consapevole che molti non ritengono il presidente uscente in grado di governare per altri quattro anni. È andata piuttosto male: Biden non ha articolato ragionamenti lunghi, si è perso, aveva la voce fioca e rauca, senza carisma e convinzione. In mancanza di novità clamorose, se i Dem non sapranno convincere il presidente a ritirarsi e riusciranno a non dilaniarsi dall’interno per trovare un altro candidato, la corsa sarà tra Biden e Trump e gli Stati Uniti saranno governati da uno dei due per altri quattro anni. Niente ricambio generazionale, niente nuova classe dirigente, ma “more of the same”.

A questo punto della partita appare chiaro come sia Trump ad esser in vantaggio e i Democratici sulla difensiva. Il paradosso di questa situazione è che quando si chiede alle persone di giudicare le politiche che i due contendenti porterebbero avanti senza dire chi sia che le propone, gli americani si dicono molto più favorevoli alle idee di Biden che non a quelle di Trump.

Ma di cosa si tratta? Se ascoltiamo Trump nei comizi o guardiamo alla sua agenda possiamo senz’altro segnalare che i temi su cui insiste sono fondamentalmente quattro: fermare l’immigrazione con norme difficili da attuare (espulsioni di massa, richiedenti asilo fermi in Messico); definire per legge l’esistenza di due sessi e impedire che i minori cambino sesso; non limitare ma anzi ampliare la circolazione delle armi (ad esempio consentendo ai professori di scuola di portarne in classe); bloccare nei prossimi quattro anni le importazioni di beni essenziali dalla Cina e imporre tariffe del 10% su tutte le importazioni.

 

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Solo queste ultime proposte commerciali appaiono come provvedimenti in qualche modo strutturali, importanti anche se difficilmente implementabili. È pur vero che in materia di commercio internazionale anche il campo democratico ha una visione che richiama al protezionismo, ma le idee di Trump e del suo consigliere in materia Robert Lighthizer sono più estreme e conflittuali nei confronti di avversari e alleati. Una certezza è che una seconda presidenza Trump produrrebbe un’America più isolazionista, e che sul funzionamento dello Stato di diritto si correrebbero dei rischi: nel programma si ripropone lo stop ai viaggi da paesi musulmani, l’invio di truppe nelle città per combattere il crimine, limiti al voto a distanza o in anticipo.

Quanto a Biden, il suo programma è la continuazione e rilancio di un’agenda che è quella di questi anni: più tasse per i miliardari, salario minimo federale a 15 dollari l’ora, riconoscimento federale del diritto all’aborto, blandi limiti alla circolazione delle armi, regole sulle emissioni. Si tratta di misure a cui gli americani non sono contrari. Il problema per Biden è convincere l’elettorato che il negoziatore energico e capace di confrontarsi con i Repubblicani – perché sarà difficile avere sufficienti maggioranze al Congresso – sia ancora lui.

 

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Per quello che abbiamo visto, dunque, quattro ulteriori anni con Biden o Trump rischiano di essere un danno enorme per gli Stati Uniti. Nel caso di una vittoria di Trump, perché questi ha già mostrato come con lui non ci si possa fidare della parola data o perché la sua volontà di flirtare con capi di governo giudicati per il loro nerbo e non per le loro scelte sia più forte degli interessi del paese che governa (gli esempi sono Putin, Xi e Kim). Trump ha fatto danni alle alleanze americane in un momento in cui gli Stati Uniti ne avevano enorme bisogno e paradossalmente, senza l’invasione dell’Ucraina e la politica di potenza cinese, Biden avrebbe avuto grandi difficoltà a ricucire gli strappi. Quanto a Biden, l’approccio sarebbe innegabilmente diverso, ma il rumore di fondo sulla sua incapacità mentale lo accompagnerebbe ovunque come è successo durante il G7 italiano. Sarebbe anche corretto chiedersi, a quel punto, chi prende le decisioni, alla Casa Bianca.

Chiunque si candidi e chiunque vinca, il problema degli Stati Uniti resta quello di competere sul piano di quella che fino a Trump è stata l’arma migliore, quella del soft power e dell’egemonia globale. Un’egemonia fortemente incrinata con le guerre in Iraq e Afghanistan, parzialmente ristabilita con Barack Obama, per poi tornare a essere messa in discussione con Trump. Biden ha con difficoltà riannodato alcuni fili, ma molte grandi questioni e tensioni rimangono sul tavolo. Un presidente dall’ego smisurato e mentitore seriale o un presidente stanco e debole non sarebbero un buon servizio alla volontà degli USA di rimanere il faro sulla collina che ritengono di essere.

 

 

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