Biden, la nuova guerra fredda, e il fattore democrazia

 Il discorso al Congresso del Presidente Biden sullo “State of the Union”, martedì 1° marzo, ha messo a fuoco una serie di questioni che determineranno gli assetti internazionali. La retorica è stata, inevitabilmente, quella più alta delle situazioni di crisi acuta e quella più solenne di un’occasione in cui si cementa il rapporto tra il capo dell’esecutivo, i rappresentanti parlamentari e la nazione. A differenza del suo predecessore, Joe Biden è perfettamente consapevole dell’importanza di questo legame istituzionale.

Il Presidente ha scelto di enfatizzare alcuni caratteri della crisi in atto con la Federazione Russa, cioè naturalmente quelli che meglio riflettono il ruolo degli Stati Uniti nel mondo dalla Seconda guerra mondiale in poi:

We will meet the test. To protect freedom and liberty, to expand fairness and opportunity. We will save democracy.

Il presidente americano durante il discorso sullo stato dell’Unione

 

Lo ha fatto anche sottolineando la ritrovata capacità americana di dare vita a coalizioni per obiettivi condivisi:

Putin’s latest attack on Ukraine was premeditated and unprovoked. He rejected repeated, repeated, efforts at diplomacy. He thought the West and NATO wouldn’t respond. He thought he could divide us at home, in this chamber and in this nation. Putin was wrong. We were ready. […] We spent months building a coalition of other freedom-loving nations from Europe and the Americas to Asia and Africa to confront Putin. […] We shared with the world in advance what we knew Putin was planning and precisely how he would try to falsely justify his aggression. We countered Russia’s lies with truth. And now that he has acted the free world is holding him accountable.

E ha dipinto, a grandi linee, un potenziale scenario per i prossimi anni, definendo così l’obiettivo delle misure adottate negli ultimi giorni da molti Paesi in modo coordinato:

inflicting pain on Russia and supporting the people of Ukraine, […] choking off Russia’s access to technology that will sap its economic strength and weaken its military for years to come.”

Lo sfondo internazionale sul quale si proietta il discorso di Biden è dunque l’avvio di quella che è, tutti gli effetti, una nuova guerra fredda macro-europea – a meno che Vladimir Putin non venga rapidamente deposto.

 

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I lineamenti di questo assetto strategico si stanno ancora definendo, ma l’impianto complessivo è già emerso: da una parte una vasta coalizione liberal-democratica, incentrata sulla NATO ma con un ruolo della UE che può crescere in modo significativo, e con l’appoggio esterno (economicamente importante) di Paesi come Giappone, Australia, Corea del Sud; dall’altra, la Russia putiniana e suoi pochissimi alleati; in posizione terza, alcuni Paesi che dovranno rapidamente decidere da che parte stare o come garantirsi una difficile neutralità (ad esempio la Serbia, ma a suo modo perfino la Turchia da Paese-membro della NATO).

C’è poi un livello globale, più intricato e ancor meno definito: qui abbiamo da una parte la rete di alleanze a guida americana; e dall’altra la Cina in posizione di “senior partner” con pochi alleati (e comunque non del tutto disposta a sostenere sempre e comunque la ben più debole Russia); come maggiore “terzo incomodo”, l’India, che dovrà prendere una posizione più chiara e netta, pena un trattamento simile a quello che l’Occidente allargato sta riservando alla Russia e in prospettiva alla Cina. E’ presto per avere un quadro chiaro del rapporto tra il contenimento a tutto campo della Russia di Putin e la posizione globale della Cina. E’ certo comunque che a Pechino stiano già ragionando su come gestire la forte interdipendenza cinese col resto del mondo se il maggiore alleato della Repubblica Popolare sarà davvero la Federazione Russa, cioè un Paese che fatalmente farà richiesta di un costoso sostegno (anche economico) al suo senior partner asiatico.

Un ragionamento specifico merita l’Unione Europea, che potrebbe ridefinire il suo ruolo di sicurezza (inteso in senso ampio, anche come resilienza economica e utilizzo strategico del suo peso commerciale) e ha – precipitosamente – iniziato a farlo in questi giorni convulsi. Il punto-chiave sarà la “divisione dei compiti” con gli Stati Uniti, che presumibilmente continueranno a considerare prioritario l’Indo-Pacifico e chiederanno dunque agli europei di occuparsi della difesa del loro continente. La NATO rimane uno strumento essenziale, ma sono i suoi membri europei a dover innalzare decisamente il livello dell’impegno, visto che oggi contribuiscono complessivamente con meno di un terzo alle spese per la difesa dell’Alleanza. E’ chiaro che la UE è una configurazione (la cui membership coincide per più di due terzi con quella della NATO) molto efficace soltanto in alcuni settori, ma che ha la capacità di ampliare il suo raggio di azione alla sicurezza e alla difesa.

Su questo, Washington dovrà mostrare una certa duttilità – più che in passato – per consentire agli alleati europei di contribuire in modo migliore alla difesa comune, al contempo in un’ottica transatlantica e in un’ottica autonomamente europea. Può apparire come una quadratura del cerchio, ma di fronte alla necessità impellente perfino ciò che era impensabile diventa fattibile. Basti pensare alla decisione dell’Unione Europea (come tale, oltre ai singoli Paesi membri) di inviare armamenti letali al governo di Kiev, o alla decisione della Germania di aumentare in misura consistente le spese per la difesa in una fase di ripresa economica molto incerta e difficile.

Come si è visto, il discorso di Biden ha posta molta enfasi sul “fattore democrazia”. E’ un fattore delle relazioni internazionali che governi e analisti hanno cercato negli ultimi anni di porre in secondo piano, un po’ per pudore (dopo le difficoltà oggettive incontrate dall’idea di un “allargamento democratico” quasi planetario), un po’ per confusione concettuale (pensando che in fondo il capitalismo e i mercati funzionino per conto loro, e che poi ciascuno si può governare come vuole). In realtà, stiamo (ri)scoprendo che i mercati (anche quelli internazionali) sono essi stessi istituzioni, e che come tali poggiano anche su regole fissate da governi: c’è dunque un legame stretto fra governance economica e regimi politici. Si può anche accettare che un “capitalismo di Stato” conviva con la libera impresa, ma abbiamo forse dimenticato che in casi come quello cinese e russo abbiamo di fronte un capitalismo autoritario – non soltanto statalizzato. In altre parole, il fattore democratico ci è tornato addosso sebbene avessimo in ogni modo cercato di metterlo da parte.

Pochi ricorderanno che a inizio dicembre 2021 si è tenuto un “summit virtuale” tra circa cento delegazioni che l’amministrazione Biden aveva invitato ad un consesso delle democrazie. Si era allora giustamente notato, da più parti, che Washington non ha alcun diritto di dare “patenti democratiche” e che peraltro la lista dei partecipanti rifletteva alcune incongruenze.

 

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Detto ciò, ora è forse il caso di rivalutare quell’operazione diplomatica. Come è diventato drammaticamente chiaro, le considerazioni di Realpoltik non sono affatto in contrasto con il concetto di una coalizione di democrazie liberali, e ne sono invece parte fondamentale. Alcune anomalie e incoerenze sono un prezzo che si deve pagare se l’obiettivo è costruire una rete di alleanze basata (anche) sui valori condivisi della “rule of law” a fronte di una violazione palese e quasi smaccata di quei valori. Il criterio adottato al “summit delle democrazie” dello scorso dicembre aveva colto il segno riguardo ai valori di fondo che ispirano l’azione internazionale e agli interessi concreti che si intrecciano con quei valori.

Le democrazie liberali di mercato non sono certo perfette nel rispetto delle proprie stesse regole di comportamento, ma possono perseguire uno scopo strategico sulla base delle proprie caratteristiche condivise. Quell’iniziativa di Biden è stata giudicata un mezzo flop diplomatico, eppure dopo il 24 febbraio 2022 è più difficile negare che una forma di governo almeno parzialmente democratica (la democrazia del resto è anzitutto un’aspirazione, che vive di errori e correzioni in corsa) tende a produrre una specifica prospettiva sulla competizione politica, sul rapporto tra autorità e cittadini, come anche su quello tra Stati e mercati. E, ovviamente, sulle modalità di impiego della forza militare. A guardare gli eventi lungo le frontiere russo-ucraine e in territorio ucraino, sembra esserci davvero un qualche tasso di convergenza tra Paesi democratici, che emerge poi nel contesto di situazioni contingenti.

Questo è proprio il terreno su cui si dovrà competere nella battaglia ideale e ideologica che ci aspetta.

Non è affatto un caso che la stessa leadership russa, per bocca del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov, abbia aperto esplicitamente questo fronte con una dichiarazione fatta lo stesso giorno dello State of the Union di Biden, secondo la quale il governo di Kiev non rappresenterebbe il popolo ucraino; il che lascia subito aperto il quesito di chi o cosa invece lo dovrebbe rappresentare, e in base a quale meccanismo di espressione del consenso.

Insomma, se dobbiamo discutere con Putin e Lavrov, o altri che hanno una formazione politica simile alla loro, di funzionamento dei criteri democratici, sembra di poter dire che abbiamo un qualche vantaggio comparato: siamo più ferrati intellettualmente e abbiamo molta più esperienza pratica in materia. E’ giunto il momento di dimostrarlo, anche attraverso le capacità che hanno le democrazie liberali di esercitare un’influenza diretta sugli eventi internazionali.

 

 

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