Sono già lontani i giorni in cui Joe Biden sembrava procedere rapido allo smantellamento delle politiche dell’amministrazione Trump in tema di immigrazione, che più di altre avevano simboleggiato il suo discorso nazionalista. A inizio febbraio tre executive orders presidenziali disponevano rispettivamente la fine della separazione dei minori dalle loro famiglie alla frontiera con il Messico, la creazione di una task force sui “nuovi americani” per facilitare l’integrazione, e una revisione sistematica delle politiche che nei quattro anni precedenti avevano fortemente ridotto i canali a disposizione dei richiedenti asilo. La firma di quelle misure, con la presenza della vice-presidente Kamala Harris e del segretario alla Homeland Security Alejandro Mayorkas, il primo ispanico a ricoprire quella carica, raffigurava plasticamente un’America che vuole riprendere il proprio posto nel mondo e nella storia.
Il ricorso alle prerogative presidenziali ha caratterizzato i primi cento giorni di Biden, stretto tra la determinazione a imprimere una netta sterzata rispetto al quadriennio precedente e la difficoltà a operare per via legislativa visti i limitatissimi margini di manovra in Congresso. I suoi executive orders sono stati 52, assai più dei 39 di Trump, dei 34 di Obama e dei 13 di Bush Jr. nello stesso arco di tempo. Dodici di questi riguardano l’immigrazione, di cui dieci volti a ribaltare provvedimenti dell’amministrazione Trump. Solo in tema di Coronavirus ce ne sono stati di più (tredici).
L’attivismo dell’esecutivo riflette in realtà le difficoltà della Casa Bianca a operare per via legislativa sull’immigrazione come su altri dossier cruciali della sua agenda, a partire dal massiccio piano di investimenti infrastrutturali, fermo in Senato, e dalla sconfitta del For the People Act, disegno di legge volto a contrastare le politiche restrittive di molti stati a guida repubblicana sull’esercizio del diritto di voto.
E’ di poche settimane fa la pubblicazione di un rapporto di Amnesty International USA che punta il dito sui ritardi e le promesse mancate di questi ultimi mesi. Le detenzioni da parte della ormai famigerata ICE (Immigration and Customs Enforcement) quasi raddoppiate da febbraio e la continuazione dei respingimenti per ragioni di salute pubblica (quasi 900.000 da marzo 2020 a maggio 2021, di cui 400.000 circa dopo l’uscita di scena di Trump) sono nel mirino di associazioni e operatori che premono per una rottura rispetto alla “tolleranza zero” del quadriennio precedente.
Un cambio di direzione rispetto ai provvedimenti più punitivi e dimostrativi del recente passato in realtà c’è stato. Mancano però le condizioni per una azione legislativa di ampio respiro e dagli effetti duraturi, per ragioni che solo in parte vanno individuate a Washington.
La task force per il ricongiungimento dei circa 4000 minori separati dai loro familiari tra il luglio 2017 e il gennaio 2021 sta ottenendo buoni risultati, grazie anche alla collaborazione con le ONG. Il mese scorso è stato finalmente abrogato il controverso programma “Remain in Mexico” che da gennaio 2019, d’intesa con il presidente Andrés Manuel López Obrador, aveva permesso il respingimento e la permanenza in Messico di più di 50.000 richiedenti asilo provenienti da altri paesi centroamericani – spesso in condizioni estremamente disagiate e pericolose – in attesa dell’esame della loro posizione. Infine è stato aumentato da 15.000 a 62.500 il numero di rifugiati ammessi negli Stati Uniti entro la fine dell’anno fiscale (settembre 2021), al termine però di varie oscillazioni che avevano visto Biden promettere in campagna elettorale l’innalzamento del limite a 125.000 e poi, subito dopo l’insediamento, confermare la quota fissata da Trump per carenza di risorse e personale.
Oscillazioni che sono indicative del difficile quadro in cui l’amministrazione si trova a operare. Dopo le critiche frontali alle politiche del predecessore, definite razziste e anti-americane, Biden si è trovato a fronteggiare in primavera una massiccia ondata di immigrazione illegale dall’America centrale che i suoi critici repubblicani hanno avuto buon gioco a addebitare al nuovo clima di apertura proveniente dalla Casa Bianca. E la situazione non è migliorata con la scelta di puntare su Kamala Harris per fronteggiare le “cause di fondo” [root causes] dell’immigrazione attraverso il Rio Grande. Il perentorio “do not come” da lei scandito a Ciudad del Guatemala a fianco del presidente Alejandro Giammattei nella sua prima missione all’estero a inizio giugno con l’obiettivo di scoraggiare altre partenze ha avuto l’unico risultato di aumentare le tensioni con l’ala sinistra del Partito Democratico.
E’ in questo quadro che si colloca la paralisi sull’annosa questione dei “dreamers”, i circa 700.000 giovani irregolari giunti prevalentemente dall’America centrale negli Stati Uniti da bambini e pienamente inseriti nel tessuto sociale ma protetti dalla minaccia dell’espulsione solo grazie al DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) voluto da Barack Obama nel 2012, che tuttavia non prevede la possibilità di ottenere la cittadinanza. L’American Dream and Promise Act, disegno di legge da poco introdotto dai democratici al Congresso per uscire dalla precarietà degli executive orders, è l’ultimo di vari tentativi analoghi (il Dream Act originale risale al 2001), ma è stato bloccato al Senato dal filibustering repubblicano nonostante goda di un ampio appoggio nell’opinione pubblica. Secondo un rilevamento NPR / IPSOS del maggio scorso infatti più del 50% degli intervistati considera l’immigrazione illegale attraverso il confine Sud un “problema significativo”, ma due terzi è favorevole alla cittadinanza per i “dreamers”.
Per la leadership repubblicana ogni passo avanti su questo è condizionato al ridimensionamento drastico dei canali per i richiedenti asilo e al riconoscimento della gravità di quella “border crisis” che per molti candidati GOP è anche una ottima opportunità in vista delle elezioni di medio termine del 2022.
Ma la paralisi legislativa di Washington e la disfunzionalità di un’America aspramente polarizzata non spiegano tutto. L’emigrazione dal “triangolo del Nord” – El Salvador, Honduras, Guatemala – è dovuta a cause locali e globali (povertà estrema, violenza politica e non, emergenza climatica e ora pandemica) di fronte alle quali i governi della regione, screditati ma in ottimi rapporti con Washington, appaiono nel migliore dei casi impotenti e nel peggiore complici. Nel 2016 il World Food Program dell’ONU stimò che in Honduras circa 1,3 milioni di persone fossero bisognosi di assistenza umanitaria a causa della siccità, che continua a essere uno dei maggiori “push factors” alla base dell’accelerazione migratoria. Ma questo esodo è diventato rapidamente una delle principali voci dell’economia dei tre paesi centramericani grazie alle rimesse dagli Stati Uniti: nel solo 2018, 19 miliardi di dollari sono stati inviati verso il triangolo del Nord dagli emigrati. Si tratta del 12% del prodotto interno lordo del Guatemala, del 20% per l’Honduras e del 21% per El Salvador. Una risorsa che supera il totale degli aiuti allo sviluppo provenienti dagli Stati Uniti ed è fondamentale per le economie di quei paesi.
Tra il 2016 e il 2020 Washington ha stanziato per il solo Guatemala più di un miliardo e mezzo di dollari di aiuti, senza risultati tangibili per lo sviluppo locale. Ora Biden, che già si era occupato della questione durante la presidenza Obama, ha deciso di portare a quattro miliardi gli stanziamenti per lo sviluppo della regione, ma tutto lascia presuppore che questi verranno gestiti secondo ricette inefficaci. Secondo la U.S. Agency for International Development l’80% degli aiuti negli anni scorsi è andato a contractors statunitensi, appesantiti da strutture ingombranti e alti costi di gestione.
Infine lo sviluppo locale non è esattamente la priorità di regimi corrotti e talvolta implicati nel narcotraffico, che è una importante causa della spirale di violenza e povertà estrema che induce molti a cercare di attraversare il Rio Grande a prescindere dalle politiche sull’emigrazione decise a Washington. E’ il caso dell’Honduras del presidente Juan Orlando Hernández le cui campagne elettorali e forze di polizia sono state finanziate dal fratello Tony, poi condannato all’ergastolo negli Stati Uniti per traffico internazionale di cocaina. Mentre il narcotrafficante era perseguito dal Dipartimento della Giustizia e dalla DEA (Drug Enforcement Administration) il suo candidato alla presidenza era sostenuto dal Dipartimento di Stato in contrapposizione a Manuel Zelaya, ritenuto troppo vicino al Venezuela.
Rimuovere le cause di fondo dell’immigrazione illegale sembra arduo quando ci si muove nel perimetro di una politica nazionale spaccata come non mai e in un terreno segnato dai fantasmi di un passato che, in America centrale, sembra non passare mai.