Nel corso della sua lunga carriera politica, Joe Biden non ha mai nascosto la sua avversione nei confronti delle armi nucleari. Come vicepresidente, si è schierato per il controllo degli armamenti e ha condiviso con Barack Obama la speranza di un disarmo globale in un futuro sì lontano, ma non impossibile da realizzare. L’Interim National Security Stategic Guidance del marzo 2021, primo documento ufficiale a delineare la strategia di sicurezza nazionale della sua amministrazione, ha auspicato la riduzione del ruolo delle armi nucleari nella difesa degli Stati Uniti. Non c’è quindi da meravigliarsi che attivisti e sostenitori del controllo degli armamenti e del disarmo abbiano nutrito grandi speranze nei confronti di Biden.
A più di un anno dall’insediamento della nuova amministrazione, queste aspettative sono state per lo più deluse. La Casa Bianca non ha dato segnali che indichino l’esistenza di un piano concreto per la riduzione del ruolo dell’arsenale statunitense, mentre ha assunto un atteggiamento sostanzialmente attendista nei confronti della sua composizione e consistenza. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’ostentazione della minaccia atomica da parte del presidente russo Vladimir Putin rendono la prospettiva di uno stravolgimento della politica nucleare degli Stati Uniti ancora più improbabile.
L’eredità di Donald Trump
Biden ha ereditato una politica nucleare segnata dalle anomalie della figura di Donald Trump e dalla sua insofferenza nei confronti della governance internazionale. Nel 2018 il governo statunitense era uscito dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo multilaterale sul nucleare iraniano concluso nel 2015, e nel 2019 aveva lasciato il trattato sulle Intermediate-Range Nuclear Forces firmato con l’Unione Sovietica nel 1987. Nella gestione della crisi nucleare con la Corea del Nord, Trump aveva utilizzato toni esasperati e brutali che avevano confuso e inasprito il dibattito pubblico. Questa ostentata aggressività e i dubbi sulla sua salute mentale avevano finito per mettere seriamente in discussione la prerogativa del presidente di ordinare l’inizio di un attacco atomico.
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Al di là dei toni esasperati e delle peculiarità dei mezzi impiegati, Trump è comunque rimasto all’interno dei parametri di una politica nucleare consolidatasi nel corso della Guerra fredda e mai veramente stravolta. Questa politica è basata su tre pilastri: la supremazia dell’arsenale statunitense, la credibilità della protezione offerta agli alleati e la capacità di tenere sotto controllo la proliferazione nucleare a livello internazionale. L’impressione è che Biden abbia intenzione di rimanere nell’ambito di questa tradizione, soprattutto alla luce di un nuovo conflitto armato che sembra riconfermare l’importanza del ruolo di deterrenza della NATO per la sicurezza europea.
No first use?
La politica nucleare statunitense per i prossimi anni dovrebbe essere presto definita da una nuova Nuclear Posture Review. Uno dei temi che ha suscitato maggiore attesa, tra quelli che dovranno essere affrontati dal documento, è stata la questione della dottrina del no first use. Sin dall’inizio dell’era atomica, la pianificazione nucleare del governo americano è stata basata sulla possibilità che gli Stati Uniti possano iniziare per primi uno scontro atomico, anche in assenza di una minaccia nucleare da parte dell’avversario e in qualunque momento nel corso di una crisi.
Questo ha rappresentato uno dei fondamenti della credibilità dell’“ombrello nucleare” americano, alla base della cosiddetta extended deterrence, in una situazione in cui gli alleati statunitensi erano minacciati dalla prossimità geografica e dall’egemonia regionale dell’Unione Sovietica o della Cina. Per questo stesso motivo la NATO ha stabilito una posizione di ambiguità che non esclude, in casi estremi, l’uso del proprio arsenale nucleare anche senza una minaccia atomica diretta.
Con la fine della Guerra fredda, molti esperti hanno valutato la possibilità che gli Stati Uniti decidessero di lasciare al proprio arsenale solo il ruolo di deterrente nei confronti delle minacce atomiche dirette, riducendo così il pericolo di una guerra nucleare. I riferimenti pubblici di Biden a sostegno di una politica di no first use hanno fatto pensare che l’attuale amministrazione sarebbe stata pronta a compiere questa svolta.
La Casa Bianca si è però mossa con cautela, come ha dimostrato il giro di consultazioni avviato con gli alleati negli ultimi mesi. Dai colloqui è emerso un generale scetticismo nei confronti di un cambiamento che potrebbe scuotere le fondamenta della extended deterrence. La questione è stata ulteriormente complicata dalla guerra in Ucraina, poiché le armi nucleari rappresentano uno degli elementi essenziali della capacità di deterrenza e difesa della NATO.
Nel contesto di un conflitto che lambisce i confini dell’Alleanza Atlantica, esse sarebbero lo strumento ultimo di prevenzione del rischio di un’aggressione esterna in Europa centro-orientale. È quindi molto difficile ipotizzare che l’amministrazione Biden possa scegliere la direzione del no first use senza mettere seriamente in discussione non solo il ruolo del deterrente atomico della NATO, ma anche la posizione del governo statunitense rispetto alla sicurezza europea. La crisi ucraina, al contrario, rafforza la funzione dell’“ombrello nucleare” americano come strumento di deterrenza dalle aggressioni armate a livello globale, anche in Asia Orientale e nella zona del Pacifico, dove gli alleati degli Stati Uniti si sentono minacciati dalla crescita delle capacità egemoniche della Cina.
Il futuro dell’arsenale nucleare degli Stati Uniti
La guerra in Ucraina getta un’ombra sulla possibilità che Biden possa ripensare i piani di modernizzazione approvati dalle precedenti amministrazioni e promuovere un ridimensionamento consistente dell’arsenale statunitense. Nonostante una serie di accordi per la riduzione degli armamenti nucleari conclusi dopo la fine della Guerra fredda, si stima che gli Stati Uniti e la Russia possiedano ancora oggi rispettivamente 5428 e 5977 testate. Molti esperti hanno ripetutamente affermato che l’arsenale statunitense sarebbe in grado di svolgere la sua funzione di deterrenza anche con numeri molto più bassi rispetto a quelli attuali. Una drastica riduzione, inoltre, avrebbe il vantaggio di eliminare sistemi d’arma obsoleti e infrastrutture che necessiterebbero cospicui interventi di manutenzione.
Al di là delle dichiarazioni d’intenti, anche prima dell’inizio della crisi ucraina non vi erano stati segnali concreti che indicassero che l’amministrazione Biden potesse o volesse essere protagonista di una svolta decisiva verso una riduzione consistente dell’arsenale atomico statunitense. Un cambiamento radicale della politica di Washington, che non intaccasse i parametri di credibilità del suo deterrente nucleare, richiederebbe il verificarsi di almeno tre condizioni: la reciprocità da parte della Russia, l’attuazione di un robusto rafforzamento del regime di non-proliferazione internazionale e un massiccio sviluppo dei programmi di difesa antimissilistica in grado di garantire la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Al momento queste condizioni non esistono.
La guerra in Ucraina ha reso le già flebili possibilità di una cooperazione con la Russia una prospettiva irrealizzabile, perlomeno nel breve periodo. Sul fronte della non-proliferazione, il mantenimento dello status quo sembra essere, nell’attuale contesto internazionale, il minore dei mali a cui si possa aspirare. I sistemi di difesa missilistica, infine, offrono una garanzia di protezione solo marginale e restano poco convenienti rispetto ai sistemi di attacco, nonostante i grandi progressi degli ultimi anni. Difficilmente l’amministrazione Biden potrà permettersi di stravolgere gli scopi, la struttura e la composizione dell’arsenale nucleare degli Stati Uniti nei prossimi tre anni.
Controllo degli armamenti e non-proliferazione
All’inizio del suo mandato l’amministrazione, nonostante le poche speranze per la conclusione di nuovi trattati con la Russia, sembrava fermamente intenzionata a preservare gli accordi ancora in corso e a stabilire con Mosca una cooperazione informale per la limitazione dei rischi nucleari. A marzo del 2021 Biden aveva approvato con Putin l’estensione fino al 2026 del trattato New Start, messa in dubbio dalla precedente amministrazione. A giugno, inoltre, il governo russo e americano avevano concordato una “Dichiarazione congiunta sulla stabilità strategica” che affermava l’impegno a “ridurre il rischio di un conflitto armato e la minaccia nucleare”. Questa iniziativa, seppur in assenza di veri e propri negoziati, sembrava un primo passo verso l’apertura di un dialogo sulla stabilità strategica e il controllo degli armamenti. La guerra in Ucraina ha brutalmente cancellato la credibilità di questo documento e ha messo seriamente in dubbio che il processo di controllo degli armamenti nucleari possa avere un futuro.
In merito alla non-proliferazione, l’amministrazione ha intrapreso una politica prudente e poco ambiziosa che aspira però a segnalare un cambiamento rispetto agli estremi di Trump. Rispetto alla Corea del Nord, Biden ha evitato gli eccessi del suo predecessore, passato dalle minacce personali a Kim Jong-un allo “storico” incontro del giugno del 2019. L’attuale presidente ha preferito mantenere un atteggiamento ambivalente, ma di basso profilo. Si è dichiarato aperto al negoziato, ma ha anche presentato un nuovo pacchetto di sanzioni economiche contro il regime di Kim. Per tutta risposta, Pyongyang ha inaugurato il 2022 con una serie di test missilistici. La questione del programma nucleare coreano potrebbe presto tornare in cima all’agenda di Biden.
Per quanto riguarda l’accordo con l’Iran, Biden ha acconsentito ad aprire un nuovo round di negoziati, ancora dall’esito incerto. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha recentemente chiarito che il governo americano farà il possibile per rientrare nell’accordo, ma solo se Teheran offrirà delle garanzie certe sul ridimensionamento del proprio programma nucleare. La posizione statunitense potrebbe essere ammorbidita dal rischio di dover fronteggiare nuove tensioni in Medio Oriente nel momento in cui sembra incombere una grave crisi energetica provocata dalla situazione in Ucraina.
Proprio questa guerra sta facendo emergere nuove sfide al il regime di non-proliferazione. L’invasione russa, infatti, ha richiamato l’attenzione sulla scelta non-nucleare dell’Ucraina, che nel 1994 ha volontariamente dismesso l’enorme arsenale atomico che aveva ereditato dall’Unione Sovietica. Molti, non solo tra i nazionalisti ucraini, si chiedono cosa sarebbe successo se Kiev avesse deciso di conservare almeno una parte di quell’arsenale. Altri paesi non-nucleari che si sentissero minacciati da stati militarmente più potenti potrebbero giungere alla conclusione che dotarsi di un deterrente atomico potrebbe costituire la migliore garanzia contro i rischi di una aggressione.
È troppo presto per capire come gli Stati Uniti potrebbero rispondere a questa nuova sfida. La vicenda dei sottomarini a propulsione nucleare che saranno forniti all’Australia nell’ambito dell’AUKUS ci aiuta a ricordare che la protezione del regime di non-proliferazione è sempre stato un obiettivo importante, ma non imprescindibile, della politica estera e di sicurezza statunitense.
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Un altro elemento che è emerso nel contesto della guerra in Ucraina è stata la questione della sicurezza degli impianti nucleari di fronte al rischio di incidenti, attacchi terroristici e conflitti armati. Molti esperti ritengono che la vicenda delle centrali nucleari ucraine spingerà Biden a perseguire con nuova forza e determinazione il programma, lanciato da Obama e proseguito con meno entusiasmo da Trump, per la messa in sicurezza dei materiali e degli impianti nucleari a livello globale. Questo sarebbe un segnale importante dell’impegno dell’amministrazione rispetto alla tenuta del regime di non-proliferazione internazionale in un momento in cui esso viene messo seriamente in discussione dalla crisi in Ucraina.
Un doppio binario
La politica nucleare di Biden è stata finora caratterizzata da un doppio binario. A livello internazionale, il presidente appare propenso a mantenere lo status quo e a mitigare gli effetti più dirompenti delle scelte isolazioniste e dei toni esasperati di Trump. Sul futuro dell’arsenale statunitense, l’amministrazione sembra volersi attestare su una posizione di sostanziale continuità rispetto al passato.
Dalla fine della guerra fredda, ogni presidente americano ha affermato pubblicamente la sua intenzione di sottrarre la politica nucleare americana alle logiche del conflitto bipolare. Osservando l’attuale struttura dell’arsenale atomico statunitense e la dottrina che sottende al suo impiego si noterebbero, però, poche differenze rispetto agli anni Settanta e Ottanta, nonostante le consistenti riduzioni quantitative. Il governo degli Stati Uniti non ha mai veramente messo in dubbio le consolidate regole del gioco che guidano ormai da molti decenni il meccanismo della deterrenza nucleare e caratterizzano il delicato “equilibrio del terrore”.
Lo scoppio della guerra in Ucraina sembra confermare che la questione atomica resterà un elemento centrale del sistema internazionale dei prossimi anni. L’incerta promessa di una “considerevole riduzione del ruolo delle armi nucleari”, contenuta nella National Security Strategic Guidance del 2020, sembra oggi ancora più difficile da mantenere.