La South Carolina è stata un trionfo per Joe Biden, più di quanto avessero pronosticato i sondaggi. Biden pochi mesi fa era considerato il favorito tra i tanti Dem in gara per la nomination presidenziale, ma il procedere della campagna e le primarie iniziali in Iowa e New Hampshire avevano aperto una doccia sempre più fredda sulla sua candidatura. Il Vicepresidente di Obama aveva scelto allora, con intelligenza, di concentrare tutti i suoi sforzi sulla South Carolina, tralasciando anche il Nevada, dove comunque poteva contare su una discreta base.
Perché la South Carolina? Stato apparentemente insignificante per i Democratici, che non vincono una presidenziale da quelle parti dal 1972, la South Carolina era un doppio asso nella manica per Biden. Da un lato per la grande comunità afro-americana che ci vive, e che rappresenta più della metà dell’elettorato Dem: Biden, per la sua vicinanza con Obama, ma anche come uomo politico e senatore navigato, capace di costruire solidi legami con la politica locale, poteva contare su una grande popolarità. Popolarità rafforzata nelle ultime due settimane, che l’ex Vicepresidente ha passato quasi tutte nel “Palmetto State” (mentre gli altri candidati ci hanno trascorso due o tre giorni al massimo) facendo collezione di endorsement importanti da media e politici del posto.
Dall’altro, perché la South Carolina è l’ultimo Stato prima del Super Tuesday (martedì 3 marzo): una grande vittoria, dunque, avrebbe portato Biden su tutte le prime pagine in un momento decisivo e avrebbe fatto riemergere la sua candidatura dalle secche in cui era precipitata, a poche ore dal voto in Stati cruciali come California e Texas – ma anche in altri Stati del Sud, demograficamente simili. Infine, la South Carolina ha una tradizione di allineamento attorno al candidato considerato in testa per vincere lo stato, e nel 2016 era stata davvero amara per Sanders: Hillary Clinton aveva superato il 73%.
Lo “shot” di Biden ha colpito nel segno.
Certo, questa vittoria, che è anche la prima per Joe Biden nelle tre campagne presidenziali a cui ha partecipato, non lo rende il favorito della contesa, palma che ancora spetta a Bernie Sanders – l’unico degli altri candidati in grado di non “sparire” in uno stato avverso; la sua relativa debolezza nel Sud era prevista, ed è stata confermata. Intanto la campagna Biden ha abbracciato una narrativa nuova, quella del candidato Democratico doc, l’unico che può vincere alla grande (come fece con Obama), invece di perdere alla grande (com’è sottinteso che farebbe Sanders).
Il risultato in South Carolina può imprimere una nuova traiettoria alle primarie, però, soprattutto se sommato all’altro evento importante di queste ore: il ritiro di Pete Buttigieg, candidato-sorpresa di questa prima fase con il primo posto praticamente ex aequo ottenuto in Iowa e New Hampshire. A Buttigieg si è aggiunta poche ore dopo Amy Klobuchar, ed entrambi hanno fatto endorsement a Joe Biden.
Tra i principali vantaggi tattici di Sanders c’era infatti la divisione dell’elettorato più centrista tra diversi candidati: Joe Biden, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar, e Mike Bloomberg a partire dal Super Tuesday. Grazie alla legge elettorale delle primarie, che stabilisce una soglia del 15% per ottenere delegati in vista della convention, Sanders poteva permettersi di vincere molti Stati anche con basse percentuali, diciamo attorno al 30%, facendo però incetta di delegati se i suoi tanti avversari si fossero indeboliti a vicenda fermandosi sotto il 15%.
Senza Buttigieg e Klobuchar, il gioco diventa più difficile: ora Bernie Sanders deve consolidare e ampliare il suo elettorato, se vuole vincere le primarie senza rischiare di non avere poi la maggioranza dei delegati. Gli afro-americani della South Carolina non sono rappresentativi degli afro-americani a livello nazionale, dice la sua campagna: quelli sono con noi. Un’affermazione che qualunque candidato Democratico alla Presidenza deve rendere veritiera, se vuole vincere.
Non possiamo naturalmente sapere dove andranno a collocarsi con precisione gli elettori dei candidati ritirati. Buttigieg, che in molti considerano la stella emergente del Partito, ha lasciato anche perché i sondaggi non gli permettevano di sperare in una vittoria, né in una particolare influenza nel caso di una convention senza maggioranza. Ma la sua candidatura aveva messo radici: i toni obamiani, la giovinezza – i suoi 38 anni spiccavano tra candidati ultrasettantenni – e anche la capacità di elaborare una proposta politica originale hanno costruito uno zoccolo duro del 10% di simpatizzanti quasi ovunque. Percentuale piccola, ma un piccolo tesoro quando i candidati in gioco sono ancora quattro: i già citati Biden e Bloomberg, più Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Proprio Sanders era stato tra i bersagli polemici preferiti di Buttigieg, ricambiato; dunque non pare proprio che il senatore del Vermont possa beneficiare del suo ritiro. Invece, la principale competitor di Sanders sull’elettorato di sinistra, Elizabeth Warren, rimane in campo.
Oltre alle dinamiche interne, c’è un altro evento che si sta abbattendo sulla campagna elettorale americana: il coronavirus. “Arriva la pandemia”, titola un’editoriale del New York Times, che non ha alcuna intenzione di mantenere un approccio sobrio alla questione – stabilmente sulle copertine dei media statunitensi da settimane, seppure solo ultimamente gli USA abbiano registrato i primi morti per il contagio.
E’ un tema con cui i candidati Democratici e il presidente Trump dovranno misurarsi. Come? Presto per dirlo: dipenderà anche dalla dimensione che il tema coronavirus assumerà nel paese. Sanders ha già sottolineato che per combattere un’epidemia in maniera adeguata serve un sistema sanitario pubblico – proprio quello che propone lui. Già infuriano le polemiche sul prezzo di un eventuale vaccino, visto che il ministro della Sanità Alex Azar ha detto che non sarà controllato, e di sicuro “non sarà alla portata di tutti gli americani”. La dichiarazione, fatta durante un’audizione parlamentare, è stata rettificata.
Gli altri, da Bloomberg in giù, hanno invece sottolineato i rischi che comporta la gestione del fenomeno da parte di un “bugiardo incapace” “a cui ridono dietro persino i suoi collaboratori” e “che non crede alla scienza” (qui il riferimento è al cambiamento climatico) come Donald Trump. Parole dell’ex sindaco di New York. La Casa Bianca, cosciente della potenziale esplosività della questione, ha messo nelle mani del vice presidente Mike Pence (altra figura che ha spesso criticato gli scienziati, ad esempio sui danni delle sigarette) il dossier coronavirus, probabilmente anche con l’idea di sviare la responsabilità dalla figura di Trump se le cose dovessero mettersi male. “Tranquilli, ci pensiamo noi”, assicura Pence.
Il virus, se non altro, ha distratto i candidati Dem dagli attacchi reciproci, la rissa continua che infastidisce gli elettori invece di mobilitarli, ricompattandoli contro il Presidente. L’affluenza negli Stati del Super Tuesday si prospetta alta, così come lo è già stata in New Hampshire, Nevada e South Carolina. Il 3 marzo si decide un pezzo importante di elezione: sono in palio quasi un terzo dei delegati per la Convention di Milwaukee di metà luglio.