“Questa crisi era per gli economisti l’occasione di giustificare la loro ragione di essere, per noi scribacchini accademici era il momento di mostrare cosa sanno fare i nostri modelli e le nostre analisi”, ha scritto Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia.[1] Se è così, l’occasione è stata clamorosamente perduta: nessuno ha visto arrivare la crisi, nessuno ha saputo come affrontarla, e dopo diversi anni, e molte tragedie personali e collettive, con la disoccupazione alle stelle e la recessione sempre in agguato, possiamo a buon diritto ripetere la sua domanda: come hanno fatto gli economisti a sbagliare in modo così grossolano?
Il vero errore degli economisti: teorie belle e inutili
Sgomberiamo subito il campo da un malinteso: il torto degli economisti non è non avere previsto l’anno della crisi o la prima grande società che sarebbe fallita. Sarebbe ingiusto e nello stesso tempo ingenuo attribuire loro questa colpa. Anche perché ne hanno una ben peggiore: non aver saputo adempiere alla loro funzione sociale una volta che la crisi ci ha fulminati. Non aver potuto giustificare la propria ragione d’essere portando soluzioni valide per reagire. Il sistema economico è gravemente malato ma loro non hanno la cura. Perché hanno scambiato la bellezza, il rigore formale e l’esattezza matematica delle loro teorie per verità. Sedotti dalla visione di mercati perfetti, senza bachi e attriti, e dalla grande unità formale della teoria che ne ‘spiega’ il funzionamento. Abbiamo dovuto scoprire a nostre spese che questa grandiosa teoria ‘esplicativa’ non è sufficiente; anzi, ottenebra.
Oggi sappiamo che anche le migliori teorie scientifiche della fisica e della biologia forniscono predizioni accurate soltanto in contesti determinati, in condizioni privilegiate, sotto idealizzazioni plausibili ma pur sempre arbitrarie, e soprattutto grazie a un duro lavoro sperimentale, che spesso impone correttivi ad hoc. Ansiosi di vedere riconosciuta la propria «scientificità», gli economisti hanno matematizzato rapidamente il proprio linguaggio, dimenticando però che il rigore formale conta poco o nulla se divaricato dalla realtà.
Dunque, oltre a mettere in discussione il sistema finanziario internazionale, la crisi economica ha scosso alle fondamenta anche molte delle teorie su cui esso si regge. L’ha riconosciuto, seppur tardivamente, anche Alan Greenspan, l’ex Presidente della Federal Reserve. Nel suo saggio dal titolo eloquente, Non l’ho vista arrivare. Perché la crisi ha preso gli economisti di sorpresa, scrive: “La crisi finanziaria ha rappresentato una crisi esistenziale per le previsioni economiche; i convenzionali metodi predittivi della scienza economica hanno fallito proprio quando ne avremmo avuto più bisogno”.[2]
Che cosa è andato storto? Per Greenspan, “gran parte della risposta […] è racchiusa in una vecchia idea di Keynes: gli animal spirits”. E gran parte della responsabilità è da attribuirsi al fatto che “per decenni, la maggior parte degli economisti, me compreso, ha pensato che i fattori irrazionali non potessero essere inclusi in alcun affidabile modello di previsione”. Al contrario, tali comportamenti “possono essere misurati e dovrebbero costituire una parte integrante delle politiche economiche”. Grazie ai risultati “di una disciplina relativamente nuova come l’economia comportamentale potremo incorporare nei nostri modelli una versione del comportamento umano più realistica rispetto a quella dell’homo oeconomicus usata così a lungo”.
Quando arriva il momento della politica economica, infatti, c’è sempre una soluzione formale, netta, pulita, plausibile e… sbagliata. Perseverare nell’idea che sia quella giusta solo perché è quella astrattamente e matematicamente migliore è la strada verso il disastro. Se ciò che vogliamo è cercare soluzioni alla crisi anche solo «vagamente corrette» e abbandonare quelle «esattamente false» dovremo sporcarci le mani. Sperimentare nuove ipotesi che funzionino per i problemi di questo mondo, e che tengano realisticamente conto delle nostre capacità cognitive e dei limiti della nostra razionalità.[3] Un’economia umana.
Meno indottrinamento e più pluralismo
Forse i tempi stanno per cambiare se anche gli studenti di Economia di Harvard mettono in discussione le teorie proposte nei loro manuali. In una lettera aperta a uno dei loro docenti più influenti, infatti, denunciano il dogmatismo dei modelli economici che apprendono all’università. Il professore in questione è Greg Mankiw, autore di un paio di manuali su cui si sono formate intere generazioni (chi scrive si è sorbito i suoi Principles of Macroeconomics da studente alla London School of Economics), ed è stato consigliere economico per l’amministrazione di George W. Bush. Il suo corso è frequentato da oltre settecento matricole ogni anno. Ma ora queste stesse matricole hanno detto pubblicamente basta all’indottrinamento: “Riteniamo che il corso esponga una visione specifica e limitata della teoria economica”, si legge nella lettera aperta.[4] “Non c’è nessuna giustificazione nel presentare la teoria di Adam Smith come più fondamentale di quella di Keynes… Lo studio dell’economia dovrebbe legittimamente includere una discussione critica dei singoli, semplicistici modelli economici in modo da tener conto sia dei loro vantaggi sia dei loro difetti… Ma nella nostra classe abbiamo pochissimo accesso a differenti approcci economici. E in un corso introduttivo, è ancora più importante presentare una prospettiva non pregiudiziale.”
Rivendicano un approccio meno paradigmatico, insomma, e più pragmatico e pluralista. Condivisibile? Ovviamente. Lungimirante? Non c’è dubbio. Ma addirittura esaltante per i motivi che ispirano quest’appello: il punto di vista che viene insegnato, “perpetua problematici e inefficienti sistemi di economia dell’ineguaglianza nella nostra società”. Tanto più che “gli studenti di Harvard giocano un ruolo centrale nelle istituzioni finanziarie e nell’indirizzo della politica economica in tutto il mondo”.
Anni fa, in pieno Sessantotto, il filosofo della scienza Paul Feyerabend asseriva dall’Università di Berkeley che mettere a tacere punti di vista differenti da quelli dominanti è un furto vero e proprio. Significa derubare il genere umano dalla possibilità di avvicinarsi alla verità. La scienza dovrebbe continuamente generare alternative, rendere feconde le anomalie e stimolare la controversia. Lui lo chiama principio di proliferazione: “Inventa, ed elabora teorie in contraddizione con il punto di vista dominante, anche se questo è generalmente accettato e ben confermato”.[5] Non c’è niente da temere dalla competizione tra idee, quello che deve fare paura sono il conformismo e la stagnazione. Non solo nella scienza come prassi, ma anche più in generale nelle istituzioni scientifiche e secondo Feyerabend nella società intera.
È bello che sia un gruppo di studenti a ricordarcelo: agli studenti di Harvard si sono presto aggiunti quelli di Cambridge e ora sono oltre centocinquanta le università aderenti all’associazione “International Students Initiative for Pluralism in Economics”. La protesta ha così assunto dato una dimensione globale.[6]
Eppure, l’analisi teorica gode ancora oggi in economia di un prestigio sproporzionato, rispetto a qualunque altro campo di ricerca scientifica avanzata. La scienza in generale, e l’economia in particolare, non può limitarsi a un’elegante “rappresentazione” della natura, deve essere anche in grado di intervenire su di essa e dimostrare pragmaticamente la propria efficacia.
Quella di riequilibrare il rapporto tra teoria ed evidenza nelle scienze sociali non è solo un’esigenza avvertita da filosofi della scienza,[7] studenti di Harvard e cittadini comuni; ma anche da chi le mani sulle leve della politica monetaria le ha o le ha avute per davvero. Jean Claude Trichet, per esempio, poco prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea per consegnarla a Mario Draghi, auspicò che la scienza economica s’ispirasse maggiormente alle altre discipline, psicologia, biologia e fisica in particolare: “Come responsabile delle politiche in tempo di crisi, ho visto che i modelli a mia disposizione offrivano un aiuto limitato. Anzi, vado oltre: affrontando la crisi, ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti convenzionali”.[8]
Sulla stessa lunghezza d’onda è Ben Bernanke, ex Chairman della Federal Reserve, che intervenendo a un convegno sul tema degli indicatori economici (quelli veri, non quelli dei lettori dell’“Economist”) ha chiesto “un maggiore riconoscimento da parte degli economisti ai contributi delle scienze cognitive e in particolare della psicologia della decisione: un campo aperto e percorso fruttuosamente da pionieri come il Premio Nobel 2002 Daniel Kahneman”.[9]
Basta che funzioni!
Se vogliamo uscire dalla crisi, e magari evitare la prossima, occorre che governi, istituzioni, pubbliche amministrazioni e banche centrali si dotino al più resto di una Emotional Task Force.
Grazie agli involontari macro-esperimenti a cielo aperto come la crisi che ci sta tuttora coinvolgendo, e grazie ai micro-esperimenti in laboratorio sui correlati neurali delle decisioni economiche, abbiamo la speranza di comprendere sempre meglio la natura sistematica dei nostri errori comportamentali. Occorre ora applicare questa conoscenza al mondo che ci circonda. Insistere nell’ignorare l’importanza dell’irrazionalità sistematica è una ricetta sicura per nuovi disastri. Sarebbe come negare l’importanza dell’attrito per le applicazioni della meccanica newtoniana. Se riusciamo a tenere conto dei vincoli cognitivi, delle reali capacità computazionali della nostra mente e dell’influenza delle emozioni, anche l’economia tradizionale diventa uno strumento utile per progettare interventi di politica pubblica più efficaci volti a migliorare la nostra vita.[10]
Ne risulterà una teoria economica meno onnicomprensiva, meno formalmente elegante ed esatta, è inevitabile; ma anche più attenta al particolare. Meno distante dalle altre scienze e più concentrata sulla nostra reale natura: in questo senso, quindi più “umana”, funzionale e funzionante, sperimentale e basata sull’evidenza.
Tutto questo ha un fascino meno irresistibile dell’economia “esatta”? Può darsi. Ma, giunti a questo punto, basta che funzioni!
*Questo articolo è liberamente tratto da Psicoeconomia di Charlie Brown, Rizzoli, Milano 2015, dello stesso autore.
[1] “How Did Economists Get it so Wrong”, New York Times, 2 settembre, 2009, quest’ articolo è Krugman al meglio di sé: lucido, corrosivo, e caustico. Ma non perdetevi neppure la replica stizzita dell’economista mainstream John H. Cochrane, “How did Paul Krugman get it so Wrong?”, Economic Affairs, 2011. Prese insieme si ergono ad esempio del dibattito accademico fatto di personalismi e ideologia. L’età dei lumi è di là da venire. La “triste scienza” è nel suo medioevo ed è sempre più tale.
[2] Alan Greenspan, Never Saw It Coming. Why the Financial Crisis Took Economists By Surprise, in “Foreign Affairs”, dicembre 2013.
[3] Sto parafrasando il grande Herbert Simon, anch’egli premio Nobel per l’economia, che per primo negli anni Sessanta ha introdotto la nozione di “bounded rationality” in contrapposizione all’approccio economico neoclassico. Nelle sue celebri dispute con gli economisti mainstream era solito liquidarli sostenendo che “ è meglio avere vagamente ragione piuttosto che esattamente torto”.
[4] “An open letter to Greg Mankiw”, Harvard Political Review, 22 novembre 2011.
[5] Vedi in particolare le “Tesi sull’anarchismo” e le lettere spedite da Feyerabend all’allora direttore del dipartimento di filosofia di Berkeley, che fanno parte dell’imperdibile corrispondenza tra Feyerabend e il collega e amico Imre Lakatos, in quegli anni alla London School of Economics, in Pro e contro il metodo. Sull’orlo della scienza, a cura di Matteo Motterlini, Raffaello Cortina, Milano, 1999.
[6] “Economics students call for shakeup of the way their subject is taught”, in The Guardian, 4 maggio 2014. J. Cassidy, “Rebellious Economics Students Have a Point”, in New Yorker, 13 maggio 2014.
[7] Un titolo per tutti, N. Cartwright, A Dappled World. A study of the boundaries of science, Cambridge university press. Per un’eccellente introduzione alla svolta sperimentale in economia vedi F. Guala, Filosofia dell’economia, Il Mulino, Bologna, 2006, capp. 11-14.
[8] Speech by Jean-Claude Trichet, President of the ECB, Opening address at the ECB Central Banking Conference,Frankfurt, 18 November 2010.
[9] “Bernanke: economisti chiedetevi anche perché non solo cosa”, Linkiesta, 9.8.2012.
[10] Vedi Shiller, R. Finanza shock, Egea, Milano 2008, p. 90.